giovedì 26 settembre 2013

Guarda e impara.

La pubblicità mostra gli stereotipi. Questa sconcertante scoperta andrebbe accompagnata alla considerazione che la pubblicità ha lo scopo di vendere. Evidentemente mostrare degli stereotipi vende.
E vende, ma guarda, mostrare quegli stereotipi che sono dei sogni: far finta di credere che tu possa credere che assieme al sofficino ti compri una vita, proprio quella lì.

Perché noi che siamo belli e eleganti, noi che siamo in forma e beneducati e solari ci concentriamo su chi appoggia il vassoio sul tavolo, ma i milioni e milioni che sono grassi e brutti, che sono esausti, delusi e sfatti e mangiano soli in tetri cucinotti di casermoni mentre il partner - quando ce l'hanno - sta davanti alla tv o torna ore più tardi da un lavoro di merda si concentrano sulla bella tovaglia in una grande cucina ben arredata e inondata di luce. Si beano della visione di una bella signora snella e ridente, di un bell'uomo forte e sereno, di bimbi di allegra perfezione e delizia.
Sognano nel pensarsi muscolosi e colti e assertivi, profumati di dopobarba alla guida di una macchina lustra, sognano nel pensarsi senza cellulite come le cosce di pesca di una modella di sedici anni. Sognano nel pensarsi disinvolte e flessuose in freschi pantaloni turchini mentre prendono caffè sul lungomare, i lustri capelli d'argento mossi da un refolo e il pannolone non si accorgono neanche di averlo, e la dentiera con quella colla è come i denti dei tuoi vent'anni.
Ma guarda, la pubblicità vende dei sogni.
Ma guarda, già che faccio una vita di merda adesso mi vieni a dire cosa devo sognare.

Oppure no, oppure diciamo che la pubblicità non mostra stereotipi, diciamo che ce li inculca.
Guardiamo e impariamo, i bambini la guardano e imparano.
Impariamo dalla pubblicità che le donne devono essere belle e sottili, che devono essere sorridenti e gentili. Ma impariamo anche che gli uomini devono essere snelli e prestanti, che devono essere attenti, teneri e forti. Impariamo che i ragazzini devono essere educati e puliti e non fare mai un capriccio, che i nonni devono essere benestanti e accoglienti e abbastanza in forma e in salute da permettersi di essere ancora innamorati e piacenti.
Che i colleghi devono essere collaborativi e ottimisti, che ogni gruppo di lavoro è una squadra che esulta assieme per un lavoro sempre ben fatto. Che gli amici sono sempre pronti ad offrire caffè detersivi e affetto, che i bebè sono paciosi e paffuti e non piangono mai, che gli automobilisti viaggiano seguendo tutte le regole, ascoltano ottima musica coi capelli nel vento e non sanno cosa sia la nevrosi da traffico o le liti al parcheggio. Che i capi si danno fieri da fare in mezzo ai loro operai soddisfatti e pasciuti, in cantieri perfetti come salotti dove tutti indossano con  disinvolta eleganza caschi, imbragature e occhialoni.

Se così fosse io ne sarei ben felice. Se guardandola imparassimo tutto quello che la pubblicità ci propone come modello, se assorbissimo questi comportamenti con inconscia prontezza, se li interiorizzassimo con automatica serena mancanza di sforzo sarebbe per me indubbiamente un mondo migliore. Non ancora perfetto, resterà da decidere chi mette nel piatto la simmenthal, ma certamente migliore.

Perché a dire il vero io non ho mai visto una pubblicità in cui un marito picchia brutale la moglie, in cui tre uomini stuprano una ragazza, in cui un vecchio insidia bambini, in cui un giovanotto frustrato accoltella la ex che se n'è andata. Non l'ho mai vista quella in cui i compagni di scuola portano al suicidio l'adolescente grassoccia, quella in cui il capo sottopaga e maltratta l'impiegata mentre le carezza viscido il seno.
Stante così le cose, se è vero che la pubblicità insegna come ci si comporta, allora ecco, ben venga.

Se invece non è così, allora io non ho capito.
Non ho capito come si possa imparare all'istante che è la mamma a scodellare il ragù e non imparare che mentre lo fa il papà non la picchia.

giovedì 8 agosto 2013

L'innocenza dell'antilope

Se continui a parlare di colpe non ne esci più.
Perché  non si tratta di stabilire - così come questa cultura da cui nostro malgrado siamo impregnati pare ci costringa a fare - di chi è la colpa o chi è il buono e chi il cattivo.
Perché se tu dici che la colpa è sua, di chi ha fatto una cosa cattiva, il passaggio successivo - di cui nemmeno ti accorgi - è che se la colpa è sua significa che è sua la responsabilità. Quindi la responsabilità non è tua.

La dinamica è invece del tutto diversa, ed è quella antichissima del predatore e della preda.
Quando il leone uccide la gazzella, il ragno uccide la mosca, l'orca uccide la fochina tu non dici che il leone è cattivo: si sa, è la natura. Ma se a fare del male è un essere umano allora ti scatta la necessità di buttarla sul piano morale: visto che il cattivo è lui, io che sono il buono e non ho colpa non ho nemmeno alcuna responsabilità.

Quindi quando vai in montagna con le ciabattine e poi arriva il temporale e tu inciampi e scivoli e cadi nel burrone, siccome la montagna non è cattiva e la colpa non è sua ti prendi la responsabilità del tuo comportamento. E mentre precipiti pensi: "Dio che cazzata che ho fatto".
Se invece vai in minigonna in stazione centrale dove accetti un passaggio da due sconosciuti, mentre ti violentano pensi "Io non ho colpe, i cattivi sono loro".

Della tua protezione, del metterti in condizione di non essere una vittima, ti assumi la responsabilità soltanto laddove non ci sia nessun essere umano a cui poter addebitare la colpa, la cattiveria.

All'antilope non interessa se il leone è o non è cattivo, non si pone il problema se si possa educare diversamente o no: all'antilope interessa non farsi mangiare. Quello di cui si occupa l'antilope è di non diventare una preda.
Qualunque vivente può potenzialmente essere predatore o preda, in determinate circostanze. La maggior parte degli esseri viventi sa che diventa preda chi è solo, chi va nel posto sbagliato, chi si comporta nel modo sbagliato.
Diventa preda chi si mostra debole, chi si mostra fragile e indifeso. Figurarsi chi proclama ai quattro venti la sua debolezza, chi si mette sulle spalle una insegna al neon con scritto "Vittima".

Certo, io antilope potrei starmene sdraiata a pancia all'aria in mezzo alla savana, proclamando il mio sacrosanto diritto di stare rilassata a pancia in su guardando il cielo, e se quel bruto del leone mi mangia è perché il cattivo è lui, la colpa è sua, io non ho fatto niente di male.

Invece vedi, persino lei che è una tenera farfalletta si è disegnata sulle ali due grossi occhi cattivi: fa tutto il possibile per non apparire una preda.
Tu invece rivendichi il diritto di fare tutto quello che ti scrive addosso preda rifutandoti di considerare che un predatore prima o poi, da qualche parte, lo incontrerai.
Rivendichi il diritto di fare quello che ti pare, anche dichiararti tu stessa vittima e cercare difesa e protezione, e rifiuti di considerare che una vittima prima o poi qualcuno che la vittimizzi lo trova.

Tu non hai colpe né responsabilità, tu sei dal lato dei buoni, tu sei l'otaria spensierata che volteggia davanti al muso dell'orca, l'otaria emancipata e affettuosa che vuol bene a tutti ed è giustamente fiera della sua lustrezza, della sua incolpevolezza, tu sei la libera otaria nella libertà del mare. Quando l'orca ti dilania e ti inghiotte muori felice, perché la colpa è sua.

Uno e un solo insegnamento viene dato ai cuccioli, da che esiste la vita: fai tutto tutto quello che puoi per non essere una vittima, per non essere, nemmeno per oggi, una preda.

Basterebbe venisse dato anche ai cuccioli umani e avremmo risolto in un colpo il problema degli stupri, del bullismo, delle violenze domestiche e del trolling sui social network.

domenica 23 giugno 2013

brianza balcanico barbecue

Si vedono finestre, balconi e giardini: la terrazza sporge come la prua di una nave e come un palcoscenico da cui si guarda più che essere guardati. Perché nessuno affaccia uno sguardo, le finestre sono sempre ben chiuse.
Anche quando fa caldo: c'è chi ha l'aria condizionata, c'è chi si azzarda ad aprire le ante ma le tende sono tirate, la zanzariera fitta e tesa nella cornicetta di immacolato alluminio.
Nel giardino giù a destra invece c'è del movimento. Alle dieci del mattino del sabato i vicini rumeni accendono il fuoco per un barbecue a ciclo continuo che funzionerà fino alla domenica sera.
Sono due o tre famiglie, grossi cani e bambini, donne in formosi pantaloncini fiorati e uomini a torso nudo, robusti di spalle, di pelo e di pancia.
A metà pomeriggio dalla radio si alza il volume, e la musica prosegue ben oltre l'arrivo del buio. Giriamo sulla nostra brace bistecche e verdure, guardiamo i fumi mescolati oscillare nel caldo e ci accordiamo all'onda di risate e di voci e il tintinnare di piatti, bicchieri e bottiglie di birra di questa balcanica colonna sonora.
Sembra festa, è un po' festa ogni sabato sera.
Così ti domandi cosa facciano, invece, dietro tutte le altre finestre. Nessuno si affaccia, nessuno innaffia un geranio perché non ci sono gerani ai balconi, nessuno ha messo una poltroncina, uno sgabello, una sdraio per sedersi un po' fuori e guardarsi le sere di giugno. Da più di una tenda traspare la luce di un televisore. Sta sorgendo una luna gialla e rotonda in un cielo senza uno sbaffo, ma nessuno la vede perché non oltrepassa il confine della sua zanzariera: una boccata d'aria comporta l'insostenibile rischio che un insetto ti punga.
Si mangiano zucchine e melanzane grigliate, ci sono l'oleandro e il gelsomino e il vino freddo, il fumo che odora di carne sale ballando, e suona come un film di Kusturica.
Lady Neon si affaccia un istante al balcone, poggia qualcosa - una scopa - e rientra in fretta nella luce allucinata del suo cucinotto, nel gelo odoroso di frigo di quelle sue lampade da omicidio suicidio.
Mi domando perché l'hai comprato, il balcone, se non osi mai sporgerti. Cosa te ne fai tu signora di quello d'angolo, lustrato a varechina e dove non metti mai piede. Potresti anche vivere senza finestre, tu al secondo piano che non ho mai visto aprirle. E il tuo giardinetto, signore in ciabatte, serve solo per avere sei metri dove far correre il tuo tagliaerba: non ci hai mai fumato una sigaretta, non ci hai messo nemmeno una sedia per leggere qualche volta il giornale.
La brace è ancora rossa, non fa più caldo e sono contente le donne che ridono e sono contente le fisarmoniche. Per voi, tutti gli altri, una lustra sera d'estate è un servizio sul caldo, in tv.

giovedì 16 maggio 2013

Io ero mia.

Vuoi che ti venga assegnato un posto, un incarico, un ruolo, non perché sei la persona più adatta ma solo in quanto sei una donna. Non ti interessa avere un merito, ti basta avere una quota. Rosa, oltretutto, colore che se non sei Hello Kitty e se hai più di cinque anni faresti molto meglio a non usare.

Metti tacchi altissimi che ti fanno soffrire tutto il giorno e ti rendono di fatto una handicappata: i gradini, soprattutto in discesa, sono già un problema, figurarsi muoversi con agilità, non parliamo di correre o saltare.
Ti vesti non con quello che ti fa stare a tuo agio e comoda ma con quello che ritieni piaccia vederti addosso agli uomini che incontri, con molta attenzione per quello che di te si vede che altre donne possano invidiare il più possibile.

Scegli di non andare in spiaggia quest'anno - meglio Berlino o Praga, meglio la montagna - perché nonostante passi l'intera vita torturandoti di diete sei ingrassata di due chili e un etto e non sopporti di farti vedere in costume.
Intanto pubblichi in ogni angolo di internet tue foto nude e più che vagamente allusive, tanto lì i due chili non si vedono: chi non sa fare un'inquadratura angolata giusta, chi non sa fotoscioppare quanto basta, chi non sa che basta riprendere il dettaglio, la curva, il labbro, chi non sa che su internet le donne sono tutte belle?

Hai 7.000 followers e 840 amici e nessuno che ti tiene il bambino un paio d'ore.
Per fortuna figli non ne hai fatti, avevi paura di non essere capace di crescerli e poi il mondo è così brutto e poi allattare sciupa le tette e poi la cacca ti fa schifo e poi comunque non hai ancora trovato un uomo che ne voglia fare con te.

Se l'hai fatta, una figlia, le metti scarpine col tacco a sei anni e la chiami "principessa" ma tu non sei più regina nemmeno della casa. Tua nonna sapeva maneggiare falce e ago, uncinetto, zappa e mattarello, tua madre odiava l'uncinetto e per protesta aveva imparato a cambiare il carburatore della moto, tu non sai fare niente e ogni volta che cucini devi cercarti online la ricetta da seguire. Ti consoli facendo il pane in casa, esaltata dalla tua abilità quando qualunque servetta per secoli l'ha imparato a fare a dieci anni.

Lavori come una matta se hai un lavoro perché sai che sei ancora la prima ad essere lasciata a casa, continui a guadagnare un po' di meno, continui a non riuscire a diventare un capo, continui a dover andare a letto col capo per salire di un gradino. Non lavori e dici che di mestiere fai la mamma perché dire la casalinga fa meno tenerezza.

Spendi tutto quello che guadagni in palestra vestiti trucco e parrucchiere, vai a farti tagliuzzare dal chirurgo per togliere e aggiungere e tirare e gonfiare perché se non sei bella ti sembra di non avere un'esistenza. Sei sempre bella e nuda in tv, oppure bella e vestita, bella e intelligente, bella e disponibile, bella e stronza, bella e solare e bella e lamentosa, bella sempre però, non puoi essere altro, non puoi rilassarti mai.

Ti sei studiata tutti i tutorial sul sadomaso e le tecniche avanzate di pompino ma ancora quello che sogni è un abito da sposa in mezzo ai fiori. Cerchi un uomo, sempre, senza interruzione, cerchi un uomo che ti adori, cerchi mal che vada un uomo che ti scopi. Scopi decisamente troppo poco e quel poco piuttosto male, scopi troppo senza mai essere sicura che la tua prestazione sia all'altezza.

Adesso vuoi una legge in più che ti protegga, vuoi che sia scritto nero su bianco che devi essere tutelata perché sei più debole, più fragile, più sprovveduta. Invece di imparare a difenderti vuoi tornare ad essere difesa, vuoi più certezze, un po' più di protezione. Sai che ogni centimetro di sicurezza in più comporta un ettaro di libertà in meno ma non ti importa più, sei stufa di essere libera, non serve a niente, solo più fatica e più spavento.

Torna nella torre damigella, torna a chiuderti in una teca di cristallo di cui solo il principe ha la chiave.
Tanti anni di lotte e di fatiche per emanciparti e tu volevi solo essere bella, e addormentata.

lunedì 25 marzo 2013

Gioventù, onestà, paese reale


Sono belle cose, dette così. Sembra brutto dire che non ti convincono, che il sentirle usare troppo spesso ti rende diffidente, che hai la sensazione siano diventate dei feticci che vanno presi per buoni senza discussione.

Prendi l'onestà, usata come scudo contro ogni critica: questi spaghetti sono una porcheria, non sa cucinare. Forse non saprà cucinare, ma almeno è onesto. 
Onesto a priori, intendiamoci. Senza sapere chi sia e se lo sia davvero, senza ipotizzare che se fa il bidello a Roccabruna è possibile che sia onesto per semplice mancanza di occasioni: l'onestà non è nel DNA come gli occhi azzurri.
Poi prendi Robin Hood: è a tutti gli effetti un ladro e un bandito eppure tieni per lui, e anch'io. Prendi Zorro, un pericoloso fuorilegge mascherato. Prendiamo un funzionario che disobbedisce alla legge e agli ordini e mette in salvo gli ebrei. Prendiamo un pentito, di terrorismo o mafia: era più onesto quando sparando faceva il suo dovere all'interno del suo gruppo o è più onesto nel momento in cui diventa un traditore e a quel suo gruppo fa la spia?
Non è una cosa così semplice l'onestà. Esiste anche l'onestà ottusa di quello che vuole cacciare la famiglia di zingari accampata in un campo di erbacce perché "non è mica loro", di quello che vorrebbe in prigione per trent'anni il classico poveraccio che ruba la classica mela. 
Io non ho dubbi sul fatto che ci fosse un sacco di gente onesta tra quelli che assistevano emozionati ai roghi di eretici e streghe, che ci fossero molte persone che non avrebbero mai rubato uno spillo tra gli incappucciati che appendevano i neri alle querce, che tra coloro che inneggiavano a Hitler moltissimi fossero cittadini di specchiata virtù. Essere onesti ed essere in grado di fare la cosa giusta non sono sempre la stessa cosa.

Ma poi, ti dirò, non sono affatto convinta che l'onestà sia la prima virtù che voglio in chi metto al comando. Vorrei che fosse competente, serio, preparato, vorrei che fosse in gamba. Se poi fosse anche onesto ne sarei felice, sarebbe il massimo. Ma come ben sai nessuno è perfetto: se devo rinunciare a una di queste virtù, seppure a malincuore e anche se inorridisci, è all'onestà che rinuncio.
Perché vedi, se sono su un aereo in mezzo a un uragano io voglio che il pilota sia il più esperto e in gamba che ci sia e non me ne frega niente se tradisce la moglie o bara a carte. Se devo essere operata al cervello voglio il chirurgo più preparato e competente al mondo e pazienza se il SUV l'ha intestato alla nonna morta.

Prendi mia figlia. Ha la faccia e il cuore puliti come neve, è brava e buona e dolce, è di un'onestà limpida come l'acqua di fonte. Ma io davanti al quadro di comando di quell'aereo, io non ce la vorrei. Oltre a volerle un bene immenso la stimo enormemente: è una bellissima persona. Ma non vorrei che fosse lei ad avere quel bisturi in mano.

Eppure, perbacco, è giovane. Cosa vuoi di meglio, è giovane. Una volta si tendeva a pensare che i vecchi fossero saggi, il che come è ovvio non è necessariamente vero: ci sono vecchi stupidi, vecchi ignoranti, vecchi rimbecilliti e incapaci. Così come ci sono, naturalmente, giovani stupidi, ignoranti e incapaci. 
Però invece guarda che succede: non so chi sia, forse è un cretino, forse non saprà cucinare, ma almeno è giovane. Invece di prendere qualcuno che gli spaghetti li fa bene prendiamo questo che è giovane. Mangeremo porcherie per chissà quanto, finché avrà imparato, ma non ci importa. Il problema si porrà poi, perché quando tra vent'anni sarà un cuoco provetto, ahimè, non sarà più così giovane. Ci toccherà sostituirlo con un altro, una faccia nuova, una faccia pulita. E l'entusiasmo degli spaghetti scotti.

E il sapore denso, salato e greve che ha quello che chiami il paese reale. Che a me, realmente, fa abbastanza schifo. 
Mi fa abbastanza schifo il brianzolo che detesta gli immigrati e perdona chi si scopa le ragazzine perché ti dice ammiccando che insomma, in fondo è quello che vorremmo fare tutti. Mi fa arrabbiare il commerciante che si lamenta dell'aumento del ticket intanto che non ti sta facendo lo scontrino, l'imprenditorello che sacramenta perché non funziona niente e vota nello stesso modo da vent'anni. 
Mi fa cader le braccia chi pensa che sia vero perché l'ha detto la televisione, chi pensa che sia vero perché era su internet, su facebook, è lo stesso. Mi fa rabbrividire chi non cerca altro che qualcuno a cui poter dare la colpa, qualcuno che non sia mai sé stesso, qualcuno da poter insultare e odiare e a cui poter attribuire la frustrazione e la rabbia della sua vita triste.
Il paese reale è questo, sai. Fatto di pensionati livorosi, di bulli vogliosi di menar le mani, di impresari con cinquanta magrebini in nero sui ponteggi, di donnette deprivate e invidiose, di giovanotti convinti che la bomba in piazza fontana l'abbiano messa le br e in Italia c'è stato il comunismo per trent'anni.
Il paese reale, questo nostro, è fatto per quasi la metà di persone che in un anno non ha letto neanche un libro, per quasi due terzi di persone non in grado di leggere e capire un testo scritto. Non so tu, ma io non voglio che a governarmi sia il paese reale. 
Non voglio il mio dirimpettaio, la mia fruttivendola, il mio benzinaio, il mio assessore, il mio capo, la mia pedicure, il mio geometra, la mia gattara, il mio vicino di treno, il mio vicino di banco delle medie. Voglio Leonardo da Vinci, voglio Einstein, voglio Mozart e Bramante e Giotto.
E se non posso avere loro voglio Pico de Paperis e Archimede: non Paperino, anche se gli voglio bene.

Il vero terrore è svegliarsi una mattina e scoprire che i tuoi compagni di liceo stanno governando il Paese. (Kurt Vonnegut)

mercoledì 6 marzo 2013

Ma su, non preoccuparti.


A me non preoccupa la rabbia, anzi. La rabbia quella adulta, quella che ti fa battere per un ghetto bombardato o difendere a oltranza una città assediata con 20 gradi sotto zero, quella che ti fa andare in montagna quando c'è da andare in montagna. A me preoccupa la rabbia puerile del bambino che quando non riesce a mettere al suo posto il cubetto giallo butta giù tutta la costruzione e la prende a calci per la stanza. E già che c'è picchia la sorellina.
Mi preoccupa la rabbia incontrollata del capriccio, dello strillare e pestare i piedi senza ascoltare ragioni, quella rabbia che è solo il vomito impotente della frustrazione.
Mi preoccupa la frustrazione di chi si crede povero perché non ha la minima idea di cosa sia la povertà, di chi crede che essere poveri sia pagare di più la benzina per la macchinetta o il macchinotto e non andare a piedi perchè non si hanno i soldi per il tram. Di chi crede che la povertà sia far fatica a pagare il mutuo per la villetta a schiera e non vivere in dieci in una stanza senza riscaldamento e acqua. Di chi crede ci si possa considerare poveri potendosi permettere un computer e una connessione ad internet. Mi preoccupa la frustrazione di chi povero non è, e lo sa, ma cova il risentimento bruciante di non essere ricco abbastanza, di non esserlo di più, di non esserlo quanto il suo vicino che, accidenti, lo merita di meno.
Mi preoccupa la mancanza assoluta di rabbia di chi è povero e derelitto per davvero, dei vecchi, di chi non è in grado di leggere una notizia e capirla, di tutti quelli che fanno i lavori duri e sporchi, di tutti coloro che continuano - ancora e sempre di più - a non avere voce. Ma guarda, neanche un tweet.
Non mi preoccupano le prospettive difficili, le cose faticose da realizzare, gli sforzi, le durezze, i conflitti, le privazioni.
Mi preoccupa il pensiero ormai troppo diffuso che le prospettive possano essere facili se gli si dà il nome giusto, che le cose da realizzare siano sempre semplicissime, basta pensarci e avere un po' di buon senso. Mi preoccupa l'idea che la fatica e la complessità siano ingiustizie, che il mondo ideale sia quello in cui basti pensare a una cosa qualunque per poterla avere: la ricchezza, la giustizia, l'onestà, il potere. Che ci vuole, basta un "mi piace" in più e ce l'abbiamo fatta.
Mi preoccupa chi ancora non distingue tra la leggerezza dell'uccello e quella della piuma.
Non mi preoccupano gli strilli, mi preoccupa il non capire che i capricci di solito finiscono con una sculacciata. Non mi preoccupano i rivolgimenti, mi preoccupa la inconsistente sicumera di chi è sempre convinto che sarà dalla parte vincente della barricata. Non mi preoccupa l'ignoranza, mi preoccupa la presunzione di non aver bisogno di sapere. 

lunedì 18 febbraio 2013

Il gioco del manicheo.


Ho capito perché mi piace così poco l'inverno. Non è tanto il freddo, non è tanto la mancanza di luce. È che si fa una immensa fatica a vedere qualcosa di bello, o anche soltanto qualcosa che non sia brutto.
D'estate le chiome degli alberi nascondono quei capannoni là in fondo, i rampicanti ingentiliscono le facciate di intonaco plastico, un fiore di tarassaco riesce a spuntare anche nell'angolo tra un marciapiede e una cacca di cane. Ma d'inverno di bello c'è solo, qualche volta, il cielo. Per il resto il lupatoto è grigio, crudo, sporco di fango e neve appassita. Per guardare qualcosa di bello devi prendere un libro, andarlo a cercare.
Io sono un po' preoccupata per quanto trascuriamo la bellezza, come se fosse un lusso, una mollezza, come se fosse una cosa di cui si può - senza conseguenze - fare anche a meno.
E sono preoccupata perché a me sembra che sia la prima volta nella storia dell'uomo che la bellezza viene del tutto ignorata.
Penso che ci sono persone, e sono tantissime, che ogni giorno si svegliano in una brutta stanza piena di mobili stupidamente brutti, in una brutta casa in una brutta strada. Escono, vanno al lavoro in un posto bruttino o non di rado orrendo, lavorano al fianco di gente con brutte facce desolate, malaticce, aggressive, frustrate. Poi tornano e guardano tutta la sera qualcosa di brutto in tv, o vanno in un brutto bar a bere qualcosa da un brutto bicchiere scambiando brutte battute con gente cupa in brutti giubbetti.
Non per tutti è così, ma per molti, moltissimi, una moltitudine. Che vivono anni e vite intere senza vedere mai da vicino niente di bello.
Non dimentichiamoci che una volta c'era la natura. Chi non poteva permettersi di fare affrescare una stanza da Raffaello, o di vederla una volta che fosse affrescata, chi non poteva nemmeno guardarsi una vetrata o un arco rampante in una cattedrale, chi era troppo povero per permettersi un oggetto qualunque che fosse davvero bello poteva sempre guardare un tramonto sul mare, un'alba tra i boschi, un albero di ciliegio fiorito. 
Io credo che per migliaia di anni qualcosa di bello da guardare tutti, ma proprio tutti l'abbiano avuto. Ma la bruttezza totale che ci circonda adesso, quella crosta in cui ci siamo avviluppati di migliaia e milioni di oggetti brutti, cose brutte, edifici brutti, tutta questa mancanza di bellezza non può non farci male.

Io ti consiglio di fare un gioco. Le cose che vedi giudicale. Dì a te stesso - o anche a voce alta se vuoi - "Questo è bello. Questo è brutto. Questo è molto brutto". Sembra una cosa da niente, ma da quanto non lo fai? Da quando guardi quella casa lì ogni mattina e non dici, esplicitamente, deliberatamente: "Che brutta."?
Non devi trattenerti, non devi essere corretto, tollerante, possibilista. Devi essere manicheo, devi tagliare con la scure: esci di casa e ogni cosa che vedi giudicala. Senza vie di mezzo, senza pietà. L'incrocio con quel semaforo e la concessionaria? Brutto. La faccia di quel signore arcigno la banco del bar? Brutta. L'auto che ti ha appena sorpassato? Brutta. Le tendine di quella casa? Brutte. La tazzina del caffè? Molto brutta.
Puoi farlo. Hai il diritto di giudicare la bellezza del mondo, e forse anche un po' il dovere.

Perché adesso ti hanno inculcato questa faccenda del "mi piace" e tendi a pensare che via, è tutta questione di gusti. Che se una cosa a te non piace magari a un altro può piacere. Che non si può mai dire. Che ognuno la pensa a modo suo. Che la bellezza è negli occhi di chi guarda. Che non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace. 
Però non è vero. 
Non è bello ciò che piace: è bello ciò che è bello. 
E lo sai benissimo, se ci pensi. E se ti sembra di non essere sicuro di saperlo giudicare non importa, fallo lo stesso. Se ti hanno spaventato facendoti credere che solo qualcuno che ha studiato delle cose, che ha dei titoli, delle certificazioni, abbia la possibilità di capire e il diritto di dire se una cosa è brutta, fregatene. Non è vero. Tu sai benissimo cosa è bello e cosa non lo è. E puoi dirlo finché vuoi.
Esercitati, un po' ogni giorno: è importante. Perché di tutta questa bruttezza almeno che ci si accorga e la si chiami col suo nome. Non sai, non sai che soddisfazione.












venerdì 15 febbraio 2013



- Se non fossimo in due penserei di essere in un incubo.
- Negli incubi c'è sempre qualcuno messo lì apposta per farti pensare che non sia un incubo. Mi fai ancora più paura, così.
- Hai ragione, ho esagerato. Non è il caso di innervosirsi troppo. È solo una foresta dopotutto.


- Ma si può sapere chi sono, quei due? Da dove arrivano?
- Shhh, non farti sentire! E smettila di guardarli, poverini. Girati, su.
- Sì, ma comunque da dove arrivano? Cosa ci fanno qui?
- E chi lo sa. Magari li hanno mandati via. Poveretti, chissà da quanto tempo vagavano in giro, così...
- Li hanno cacciati via perché sono subnormali, vero?
- Non si dice così, su, non sta bene. Non sono molto intelligenti ma non è colpa loro. E non fanno del male a nessuno.
- Tutti i bambini li prendono in giro, guarda.
- Ti avevo detto di non guardarli. Perché li prendono in giro?
- Ahahahaha, non riescono... Non riescono a fare quel gioco che fanno sempre i bambini, quello di colpire i frutti rossi, guarda, non riescono! Persino i più piccoli ne colpiscono qualcuno: loro niente, sono proprio handicappati.
- Non si dice così, te l'ho già detto. E adesso girati. Poverini.

Un grido, improvviso, stentoreo, lacerante. 
Un secondo dopo non c'è più nessuno, tranne loro. Qualche foglia smossa plana lentamente dagli alberi.

- Ma dove sono andati tutti?
- Sono velocissimi... Non li ho neanche visti andare via, solo il lampo di un movimento... Senza un rumore, in un attimo. Ma cos'era quel grido?
- Non lo so... L'avranno fatto loro? O l'avrà fatto qualcun altro... qualcos'altro?
Si guardano intorno. Sono molto vicini, spalla a spalla, sentono ognuno il leggero tremare dell'altro.
- Mi sembra di avere sentito un rumore.
- Cosa? Dove?
- Lì, vicino a quella pianta, quell'albero, quello lì grosso.
- Il ronzio, dici?
- No, un... come frusciare, rumore di foglie forse. Ma quale ronzio?
- Non lo senti? Devono essere insetti. Credo.
- Adesso che lo dici lo sento, sì... Ma no, era un altro... Forse un serpente.
- Ma i serpenti fanno rumore? Io credevo di no...
- Ma che ne so! Non so, non so niente, non so che insetti sono, non so che alberi sono quelli, non so cosa ci facciamo qui e non so che rumore fa nessun cazzo di animale!
- Shhhh... Sei pazzo, non farti sentire. Può anche esserci un leone, un leopardo, una tigre... Cazzo. Ho paura.
- Scusa. Hai ragione, scusa, sono un po' agitato. Ma non preoccuparti, non c'è da aver paura, vedrai. Quelli sembravano amichevoli, dopo tutto. Ci hanno dato da mangiare, ci hanno messi assieme ai cuccioli... Non ci faranno del male. Non aver paura, stammi vicina, aspettiamo che tornino. 

- Ma perché non si muovono? Non hanno sentito l'allarme?
- E chi lo sa. Magari sono anche un po' sordi, poverini. Vedi, quel serpente è passato a tre passi da loro e non l'hanno neanche visto.
E poi hai visto come si muovono lenti? Forse stanno cercando di scappare ma ci mettono un sacco di tempo.
- Mh, sarà. Secondo me non sanno arrampicarsi sugli alberi.
- Probabile. Poveretti. Faranno una brutta fine se continuano a starsene fermi lì.
- Ma no, guarda, gli è andata bene: guarda là, si è spostato, si è messo a rincorrere quelle gazzelle. Che culo hanno avuto a essere sottovento. Su, vieni qui, che è ora di darsi una ripulita.

- Ho fame.
- Anch'io. Quei frutti lì saranno buoni? Si potranno mangiare?
- Non lo so... E se sono velenosi? Non mi ricordo se loro li hanno mangiati...
- Forse è meglio non provare. Forse quando torneranno ci daranno ancora qualcosa.
- Ma torneranno? Sono andati via così di corsa. E poi... quelle specie di noci che ci hanno dato erano buone ma, ma quella scimmietta rossa fatta a pezzi, miodio che orrore! Stavo per svenire...
- Beh, a modo loro sono stati gentili a offrirne a noi. Però quelle noci non le vedo in giro, chissà dove le avevano prese. Dobbiamo trovare qualcosa da mangiare ma non so cosa...
- Io non voglio allontanarmi da questa radura, non voglio entrare nella foresta, non voglio. E poi tra poco sarà buio... 
- Stai tranquilla, ora ci procuriamo dei bastoni, guarda. Tranquilla.

- Tra poco sarà buio. Perché non si arrampicano da qualche parte? 
- Non sono capaci, te l'ho detto. Anche scendere a dirglielo non servirebbe a niente: non capiscono, poverini, hai visto. Neanche le cose più semplici, neanche le filastrocche dei bambini capivano, neanche l'allarme hanno capito.
- Beh, se pensano di passare la notte lì, per terra così, beh... quelli in caccia stanotte faranno una bella cena. 
- Già, non arriveranno a domani mattina, povere creature. Un po' mi spiace... Sono anche carini, dai, così lisci e morbidi.
- Ma che morbidi. Sono molli. E grassi. Dove hanno i muscoli, dove? Quello più alto ci ha messo dieci minuti a spezzare un bastoncino che un cucciolo qualunque...
- Sei ben stronza, però. Non è mica colpa loro.
- E poi non ridono mai, non trombano mai. Oltre che handicappati sono anche noiosi.

- Dio com'è buio. Ho paura.
- Tranquilla, vedrai che ce la caveremo. Gli esseri umani sono più intelligenti di tutti, lo sai. Ce la caveremo.

- Ecco, ancora quel ciuffetto dietro al collo e ho finito. È ora di dormire ormai. Li vedi ancora?
- Sì, sono sempre lì. Con in mano uno stecchino. Non resterà molto di loro, domattina. Mi domando come facciano a non sentire i cacciatori arrivare, sono piuttosto vicini adesso.
- Nemmeno se gli ruggissero nelle orecchie li sentirebbero, mi sa. E poi comunque... guardali, hanno dentini da lucertola, non hanno artigli. Non corrono, non si arrampicano. Secondo me ci vedono e ci sentono anche poco. Una strana specie, così sfigata. Si estingueranno presto, poveretti, non sono proprio adatti.
- È un miracolo che non siano già estinti, dai retta a me. Comunque, non una gran perdita.


Provate a fare questo giochino: http://games.lumosity.com/chimp.html
E dopo, solo dopo, guardate il video (anche qui: http://www.pri.kyoto-u.ac.jp/ai/ja/publication/matsuzawa/Inoue2007.html


martedì 5 febbraio 2013

Voce del verbo fognare.


Metti a posto bene, non fognare. 
Non lo trovi? L'avrai fognato da qualche parte.
Il lessico familiare mette a disposizione termini utilissimi, senza corrispondenti in italiano altrettanto sintetici e precisi. Fognare è quando si fa ordine apparente e, per fare in fretta e fare meno fatica, le cose si nascondono ficcandole rapidamente e in maniera indiscriminata in qualche posto fuori dalla vista. Tutto quello che stava sopra una scrivania ficcato alla rinfusa in un cassetto, tutti i vestiti sparsi per la stanza ficcati in un involto indistinto nel fondo dell'armadio. Oggetti qualunque - una pentola, un cappello, una mutanda, uno strofinaccio, un notes, un pensiero - ficcati in fretta nel primo posto sottomano, dove non si vedano, dove non stiano tra i piedi, dove non diano fastidio. E si possano, in teoria momentaneamente ma in realtà a tempo indeterminato, dimenticare: si possano collocare in un limbo che consenta di cessare di occuparsene.
Tutti fognano, a volte, e tutti - tranne i ragazzini che in proposito sono molto sereni - si rifiutano di ammetterlo. Ci sono persone che, una volta in cui erano di corsa, hanno fognato sé stesse ripromettendosi di occuparsene in un altro momento ma poi non hanno mai trovato il tempo, e non ricordano neanche più di averlo fatto.
Caratteristica delle cose fognate è che diventino subito quasi impossibili da ritrovare, tanto che in alcuni casi capita che vadano perse per anni o decenni e tornino alla luce solo in caso di traslochi, terremoti, funerali.
Avevo un'idea, o forse era un'opinione, ma devo averla fognata da qualche parte e non so più dov'è.




fognare v. tr. [forse lat. *fundiare, der. di fundus «fondo»] (io fógno, ... noi fogniamo, voi fognate, e nel cong. fogniamo, fogniate). – 
1. Costruire le fogne, provvedere di fognature: f. un campo, farvi le fogne per lo scolo delle acque. 2. ant. a. F. le noci, le castagne, e sim., del venditore che, nel venderle a misura, a cartocci, lascia qualche vuoto per darne di meno. b. ant. F. una lettera, una sillaba, tralasciarla nel parlare o nello scrivere, per errore individuale o come fenomeno linguistico. Part. pass. fognato; come agg., vaso fognato, vaso di piante ornamentali provvisto di fognatura.
(Treccani)