mercoledì 27 giugno 2012

La sala d'aspetto è rotta.


La stazione di Villasanta ha un cortiletto sui binari con un pino alto e spelato al centro. È tutta chiusa: nessuna biglietteria, nessuna edicola o bar o servizio igienico. È tutta chiusa, all'edificio non si accede da nessuna parte. Sulla porta della sala d'attesa un foglio scritto a biro dice "GUASTO".
Non c'è obliteratrice, non c'è nessun foglio con gli orari, non c'è un orologio, non c'è niente.
Busso - e mi affaccio - alla portina chiusa dove sta scritto "vietato l'ingresso ai non autorizzati". Un ferroviere in maniche di camicia, molto sudato in uno stanzino torrido e semibuio, si gira verso di me e il piccolo ventilatore che tiene a pochi centimetri gli fa sollevare un accenno di riporto, grigio.

- Aveva bisogno di qualcosa?
- Avevo bisogno di sapere a che ora passano i treni.
- Ogni ora.
- Sì, ma a che ora dell'ora?
- Per Milano alle due, circa.
- Ah, tra mezz'ora allora. Il binario?
- L'uno. È che non può usare la sala d'aspetto perché è rotta.

Esco e vado a guardarla, questa sala d'aspetto rotta. La porta, di metallo, è a vetri e si vede dentro. Una stanzina piccola con qualche seggiolina contro la parete. Bianca, perfettamente in ordine e pulita, un monitor con i prossimi treni - funzionante, troppo angolato perché sia visibile da lì - un grande foglio di orari appeso al muro, troppo lontano per poterlo leggere.
Di rotto, niente.

Nello spiazzo che si affaccia sui binari il sole è verticale e assoluto, non c'è una pensilina, una tettoia, un muretto, un gradino, una panchina. Ai piedi del pino, appena più grande della sua ombra verticale, una aiuola quadrata dove le erbacce sono alte quasi un metro.

Siamo io, una signora sudamericana e una ragazza obesa in pantaloncini e canottiera fucsia, appiattite in piedi contro il muro coperto di scritte per profittare dei cinque o sei centimetri di ombra che proietta l'edificio. L'odore di urina si scioglie umido nel caldo.

Arriva un signore magrebino, in ciabatte aperte. Arrivano due signore africane, chiaccherando. Arriva un diciottenne di quelli che la mamma chiama robusti e invece sono grassi, indossa le cuffie e una maglietta bianca. Va alla porta della sala d'attesa, ignora il cartello e scuote con forza la maniglia.
Poi scuote, con maggiore violenza, la porta intera. Che gli rimane in mano. L'appoggia con cautela allo stipite di ferro, più o meno al suo posto.

La signora sudamericana sorride, le due signore africane ridono apertamente, molto divertite.

Arriva una ragazza smilza, anche la sua maglietta è fucsia. Arriva un signore ricciuto con due pizze sul braccio. Arriva un signore di mezza età molto pallido, ha la camicia bagnata e scarpe da corsa. Sono ormai le due e un quarto passate, quasi e venti. Arriva di fretta una ragazza bionda, arriva un altro signore magrebino.

Arriva il treno.

Quando riparte, rovente, cammina adagio fino a Monza tra due ali compatte di vegetazione incolta, che sfiora e striscia e sbatte contro i finestrini. Frassini, sambuchi, ortiche, buddleie, tassibarbassi e rovi.

Le due signore africane sono allegrissime e gioconde, scrosciano in risate ciarliere nel calore obnubilante che sa di ferro e pavimento sporco.

In effetti, in paragone a Ouagadougou il servizio è decisamente soddisfacente.

martedì 5 giugno 2012

La lavandaia muta


Ho letto da qualche parte, non so più dove, che sul totale della musica ascoltata la percentuale di quella dal vivo è ormai minuscola, pressoché irrilevante.
Quasi tutta la musica che ogni giorno gira nell'aria del mondo è riprodotta. E questo vuol dire che nessuno più canta, e nessuno più suona se non - pochi - per mestiere (anche solo auspicato o presunto).
Ogni pastorello aveva uno zufolo, ogni bracciante alla sera imbracciava un mandolino, un violino, un'armonica, un'ocarina, uno scacciapensieri, un ukulele, un banjo, una lira.
E la gente cantava.
Nelle osterie e nelle filande, marciando in battaglia, raccogliendo il cotone, spaccando le pietre, china nell'acqua sulle piantine di riso.
Cantavano le lavandaie e cantava la prosperosa massaia stendendo lenzuola.
Cantava il carrettiere, gorgheggiava tenorile l'imbianchino, fischiettava modulando virtuoso il mugnaio, gli rispondeva roco e melanconico il fabbro.
Cantava mia nonna sgranando i piselli, cantava sommesso mio nonno le canzoni del Piave riparando la bicicletta, cantavano tutte, tutte le mamme ninnando i bambini e tutti i bambini cantavano canzoni per giocare con le corde e le palle.
La musica è ovunque, adesso, ma arriva. Magari ne canticchi una strofa, forse muovi un po' a ritmo la testa, ma ti arriva da altrove.
Quando hai sentito l'ultima volta un muratore cantare? Quando da un balcone la sera un coro, anche sguaiato o un'armonica a bocca?
E pensavo che allora non ne nasceranno più di canzoni da lavandaia o mondina, perché loro, e i maniscalchi e gli arrotini e i soldati, ascoltano in cuffia la radio, l'ipod.
Tutta quella musica senza proprietari né autori, quella che tra parentesi leggi (tradiz.) non potrà rinnovarsi, non ne verranno di nuove, di quelle canzoni.
Come faremo senza spiritual e stornelli, senza nenie di trincee e prigionieri, senza ninnananne e romanze?
Forse per questo un giorno o l'altro finirà anche la musica, perché non saprà più inventare niente da dire.

Io sono stonata, ma dall'altro ieri sto imparando a suonare l'armonica.