martedì 31 gennaio 2012

stand by me.

Mi capita nei sogni, nei migliori, di sentire dieci anni. Ma non di tornare a quando li avevo, o di avere quell’età adesso: mi capita di sentirmi il mondo intorno come lo sentivo a dieci anni. Di vedere le cose, vederle tutte insieme e ognuna nei dettagli, e sentire gli odori e i colori e suoni come se ci fossi dentro e ne facessi parte, ma presente a me come di più non si può essere.
Prima di quell’età sei troppo piccolo: non sai di esserci. Dopo sei troppo grande: invece di esserci ti pensi.
Ma c’è un momento in cui tutto è in equilibrio, lo spazio e il tempo e te, un momento in cui sei completamente tu e un gatto e un uccello e una lucertola e una tigre e i sassi e il mare e l’erba, insieme.
E li so benissimo i colori: i dieci anni hanno luce satura che ti entra negli occhi colmandoli e li allaga come quando li tieni aperti sotto l’acqua, e hanno ombre disegnate nette, e nere.
E noi che ci affidiamo sempre alla geometria più facile e banale continuiamo a pensare che la curva di una vita abbia il suo culmine a metà, che tra gli zero e gli ottanta sia a quaranta che siamo nel pieno della sapienza e della forza.
Ma sappiamo bene che non è affatto vero, e che quella curva si impenna quasi in verticale e raggiunge la cima a dieci anni, e poi scende, inevitabilmente.
Per questo passiamo il resto del tempo a cercare in tutti i modi di tornare lì, all’interezza, al fulgore del corpo e della consapevolezza. E quando ci diciamo felici è perché per un istante ci sentiamo come eravamo sempre, ad ogni risveglio, alle quattro di ogni pomeriggio.









Vipassanā (pali, in sanscrito: vipaśyanā) una delle due principali forme della meditazione buddhista, detta anche meditazione di visione penetrativa (in inglese insight meditation). A differenza della meditazione samatha, questa forma di meditazione non è finalizzata al raggiungimento di stati di assorbimento meditativo e non ha un carattere astrattivo. Al contrario, la meditazione vipassana intende sviluppare la massima consapevolezza di tutti gli stimoli sensoriali e mentali, affinché se ne colga la reale natura e ci si incammini per tale via verso la liberazione. Il corpo e la mente sono il campo nel quale è possibile scoprire, con una visione attenta, la verità del mondo fenomenico e quella che porta alla sua estinzione.

[…]

In riferimento ai sette fattori del risveglio: 
presenza mentale, 
investigazione dei fenomeni, 
risveglio dell'energia, 
gioia, 
serenità,
concentrazione
equanimità.



venerdì 20 gennaio 2012

Io sono quella della cacca. E dell’immondizia, del vomito, della pipì. Può capitare che talvolta qualcuno se ne faccia carico: è capitato. Ma appunto: talvolta. Le altre volte, tutte e son tante, me ne occupo io.
Catarro e lacrime, cispe e cerume. E spazzatura e immondizia e il fondo scuro dei loro bidoni e i sacchi da preparare. Poi quando li dimentichi fuori raccogliere quello che i gatti hanno sventrato, le lische, i cartocci unti e le ossa.
E molta, moltissima cacca, in pannolini e letti e mutande, e qualche volta per terra.
Io sono quella che entra con la mano nel water per pulirlo per bene, sono quella che toglie gli schizzi di piscio dall’asse e dal muro, sono quella che lava lo straccio dei pavimenti strizzandolo in mano.
Io svuoto il filtro della lavastoviglie gelatinoso di unto, io vuoto i piatti dagli avanzi rappresi, io tolgo con la mano i residui di pasta e verdura e cose che non si riconoscono affatto dal buco del lavandino. Sono quella delle lettiere e dei fiocchi di polvere e briciole sotto  i divani, quella che scrosta la vaschetta delle verdure dai sedani morti e dal viscido dei cipollotti, che disincaglia il groviglio di peli e capelli dal tappo della vasca da bagno.
Sono quella che scuote la scopa e le leva i bioccoli di spesso lerciume, quella che toglie le cispe dagli occhi e lava il sangue il pus e la terra dalle ferite, che pulisce il moccio e le orecchie, quella dei punti neri, delle spine di riccio e della merda di gatto.
E noi che siamo quelli della cacca e dell’immondizia, noi ridiamo molto più spesso e siamo tranquilli, lo sai. Perché dagli arabeschi di macchie e escrementi abbiamo imparato la beffa delle trasformazioni, abbiamo saputo che non c’è niente che sia sporco davvero perché non c’è niente che non si possa pulire, e poi sporcare di nuovo.
E poi noi sappiamo, sappiamo qual è l’istante preciso in cui quello che hai nel piatto e fino a un attimo fa stavi mangiando e succhiando e leccando diventa rifiuto, che ti fa schifo spazzar via con la mano per rigovernare.
Noi sappiamo qual è l’ingrediente che in un unico esatto momento trasforma il piacere del godimento in un grumo di fredda immondizia. Ma questo non te lo diciamo, perché è il segreto più grande.

giovedì 12 gennaio 2012

Dicembre 2011

venerdì, 16 dicembre 2011

Istruzioni per l'uso delle lucine di Natale.

Primo. Se le accendete tenetele accese.
È vero che ci hanno ribadito fino all'estenuazione che siamo tetri e depressi, che siamo cassintegrati disoccupati e indebitati, è vero che ad ogni istante veniamo severamente ammoniti per la nostra sfrenata tendenza al lusso e spronati ad una austera sobrietà. È vero. Ma le luci si vedono al buio.
Se come gli austeramente pidocchiosi commercianti qui della contea le si tiene accese solo negli orari di apertura, se come i sobriamente taccagni compaesani l'alberello lo si spegne quando si va a letto - che tanto se dormiamo non lo vediamo - succede che dopo le dieci di sera il villaggio è gelido, disadorno e oscuro che nemmeno a Mordor quando sono di malumore.
Le luci hanno senso quando fa buio: se si spengono perchè tanto di sera non c'è in giro nessuno tanto vale risparmiarsi la fatica di scale e chiodini sprecata per inghirlandare il mondo con grovigli di cavi.

Secondo. Se sono accese sono accese, se sono spente sono spente.
Siamo già tesi, siamo già agitati senza bisogno di essere mandati in iperventilazione da una nevrastenica cacofonia di acceso/spento-acceso/spento-acceso/spento-acceso/spento-acceso/spento-acceso/acceso/spento/spento.
Quale bisogno ci sia di questa luminescenza ossessa, di questa psichedelica fibrillazione nessuno pare in grado di spiegarlo. Nemmeno ammettendo l'ingenuo entusiasmo, il candido infantilismo tecnologico che guarda, siamo capaci di accendere una luce e poi spegnerla, guarda, guarda vedi che si accende e poi si spegne e poi si riaccende, hai visto, hai visto?
Accese e basta, per favore. Vedrete quanta tachicardia in meno. Da quando ho messo le lucine fisse non picchio quasi più la moglie, per dire.

Terzo. Scegliete come si deve i colori.
Nella nostra memoria percettiva, nella retina di noi mammiferi terrestri la luce va dal bianco al porpora, passando per i gialli, gli arancioni, i rossi. Luce di sole e luna, di stelle, lampi e fiammelle, di fuoco e di braci.
La luce blu in natura esiste solo nelle concessionarie d'auto.
Luminescenze azzurre e bluastre sono cianotiche e aliene, non usatele per carità: vi fanno spavento anche se non ve ne accorgete.
Le verdi vanno dosate con attenzione, in modica quantità e mai da sole: oltre a produrre un ambiguo lucore da acquario sintetico rendono livida qualunque carnagione e repellente qualunque pietanza.
Da evitare anche il tutto rosso, evocativo di sesso estremo più che di presepe, o a andar bene di camera oscura.
Molta cautela con la combinazione giallo+rosso, amata da pizze al trancio e kebab d'asporto, e con quella giallo+rosso+verde, la preferita da autoscontri, calcinculo e circhi a conduzione familiare.

Infine, si raccomanda oculata considerazione per la quantità. Tremila watt di fulgore non riescono, con tutta la buona volontà, ad ispirare poesia.

Oppure.
Oppure si potrebbe anche pensare un'altra cosa.
La luce, tanta luce, era festa quando il mondo era buio.
Era ricchezza e stupore, era raro e prezioso sfolgorio e meraviglia quando il tramonto era davvero la fine del giorno, quando la notte era lunga e interminabile e di impentrabile gelo l'inverno. Quando le sere e le cene erano incerti e tremanti aloni rossastri, barbagli fiochi galleggianti nel sego, e ombre d'inchiostro fumoso guizzavano dietro le stufe e facevano paura ai bambini.
Ora che abitiamo galassie di neon e tungsteno, metropoli e case sfolgoranti di luci, e risplendono abbacinanti supermercati e parcheggi, mentre pulsano chiarore monitor e lampioni stagliando su perenni accecanti biancori benzinai e baristi, tabaccai e commesse, forse non ha più tanto senso.
Ora che inondiamo di luce l'intero pianeta e oscuriamo le stelle, ora che ogni città a distanza di miglia è una bolla di miasmi lucenti, ogni mezzo si muove bardato di alogene e led e ogni elettrodomestico spento tiene acceso un vigile occhietto rosso in attesa, ora forse la vera festa sarebbe quella del buio.
Buio e oscurità finalmente, a perdita d'occhio.
Le pupille si dilatano grate, il respiro ridiventa profondo. Puoi girare adagio la testa cercando di cogliere un suono, di capire un fruscio. Devi tornare a saggiare, a sentire il terreno, incerto, col piede. Riconosci oggetti e persone sotto le dita, capelli e bottoni, e lembi di pelle. Le parole le senti diverse se non vedi le labbra. E i baci, se gli occhi sono neri su nero.
Facciamo festa, spegniamo le luci.
Vedrai come sarai stupefatto e commosso poi, se farai il bravo, dal palpito incerto di un moccolo.
Ho un fiammifero, ancora. Lo tengo per dopo.




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martedì, 06 dicembre 2011

Ci siamo guardati Precious: piuttosto bello, sì, ma il tema è decisamente duro. Così abbiamo detto: adesso un po' di chill out, prima di andare a dormire. Oh, bello, la Parigi del settecento... la ghigliottina, come funziona, poi le fosse comuni e il sangue putrefatto per le strade e la decomposione dei corpi spiegata nel dettaglio, colori, batteri e larve e... Gira, dai. Guarda, fantastico il tizio che deva battere il record e si lancia in bici giù dalla vertiginosa cima del vulcano... Oddio, cade, gesù che volo, per terra tutto scomposto e accartocciato con la moglie che si dibatte e si dispera... Cambia, cambia. Interessante, le miniere dei cercatori di topazi... guarda quel povero omino, rattrappito e schiantato da una fatica disumana, con la moglie e i figlioletti a migliaia di chilometri, e lui che cerca il topazio per riscattare la loro misera esistenza e ha le lacrime agli occhi parlando di loro... Cerca qualcosa d'altro, valà. La peste nera, o bubbonica, inizia con... Gira! Ecco, questo qui dell'universo: le stelle sono neutre, almeno. Perché i composti stellari, e la vita, la morte... ma dopo la morte cosa accade? La coscienza di sé nelle persone in stato vegetativo, e l'attimo in cui si muore e...
Andiamo a dormire.
Che una cazzo di medusa gigante o di orsacchiotto delle nevi non ci sono mai quando ne hai bisogno.

Novembre 2011

mercoledì, 09 novembre 2011

Voglio i pannelli solari. E li voglio il prima possibile. Li avrei già messi se non fosse che voglio cambiare casa presto.
Voglio i pannelli solari per l'energia elettrica e l'acqua calda, e voglio una cisterna per l'acqua piovana, e se serve il microeolico e il geotermico e tutta, tutta quanta la tecnologia che serve per sganciarsi dalla tecnologia gestita da altri.
Voglio l'autosufficienza, voglio che l'unica rete a cui la casa resti collegata sia quella di internet.
Non capisco, giuro non capisco come qualcuno possa scegliere di spendere che so, trentamila euro per una automobile e non per mettersi i pannelli solari sul tetto.
Non capisco perché chi ha due risparmi - che non sono io - si domandi se sia un buon investimento comprare titoli e non corra a comprarsi un sistema energetico autonomo.
Non capisco, ma davvero, perché continuiamo a lamentarci del traffico, delle bollette sempre più care, del tempo che si spreca andando e tornando dal lavoro, dell'aria lercia, dei pomodori di plastica, e continuiamo a impiegare enormi quantità di energia e di fatica per continuare a tenerceli stretti.
Ah, ma perché tu cosa vorresti: abitare in campagna, produrti l'energia e l'insalata e lavorare via internet? Eh eh, che dolce che sei, che romantica.
Non capisco perché se dici che vuoi sfruttare le più avanzate, le migliori opportunità tecnologiche ti diano della luddista.


(Intanto è uscito il sole, la mia macchinetta degli arcobaleni va a tutta forza, sparpagliandone a decine sulle pareti, un turbine di iridi.)

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mercoledì 11 gennaio 2012

Ottobre 2011

mercoledì, 26 ottobre 2011


Non li voglio, i fiorellini. E nemmeno i pupazzini. Le grechine. Gli orsetti. Detesto tutto questo ornare cose che non hanno nessun bisogno di essere ornate. Perché mai devo avere dei fiori sulla carta igienica? Perché la carta da cucina deve avere fiocchetti e pentolini? Io le voglio bianche. Per favore.
Perché non è vero che le cose decorate sono più carine. Sono più brutte. Ma molto più brutte, molto.
L'ornato è una cosa seria, una cosa difficile, costosa, impegnativa, laboriosa. Altrimenti è una porcheria.
L'ornato è l'Alhambra, è William Morris, è gli azulejos e Wedgwood e Lalique, è gli arazzi medievali e i kilim. È, piuttosto, i ghirigori di tuo figlio col pastello. Qualcosa disegnato con in mente la bellezza, e realizzato con delizia e cura. Qualcosa che ti fa felici gli occhi.
Non un guazzabuglio triste e casuale di stupidaggini riprodotte malamente.
Tu non ti accorgi, ma nella tua bella cucina tutta linda si affollano i fiori approssimati della tovaglia rosa, le geometrie giallo e marrone degli strofinacci, gli uccelli verdini del rotolo di carta, i quadretti azzurri dei tovagliolini, i cuori rossi e le greche imprecise del barattoli, le foglie nocciola sulle piastrelle beige, le margherite stampigliate in arancio sopra i piatti, le campanule turchine dell'insalatiera, le padelle e le pannocchie sulle presine, sghembe.
Si affollano e ti frastornano gli occhi, come un frastuono di rumori stupidi.
Perché non è vero che non è importante quello che ti vedi intorno: non ci fai caso ma ti abitui un po' per volta a tante piccole inutili bruttezze. Così ci siamo assuefatti al dozzinale, al tirato via, allo stampato in qualche modo, al simulacro di fiore, all'elefantino come lo disegna suor Giuliana, al quadrettato di colori a caso.
Se non possiamo permetterci piastrelle decorate bene, allora siano bianche, santo cielo. O azzurre, o verdi, o nere. Ma quei bambù marroni, quegli aborti di glicini e di rose, poi li vedi tutti i giorni, sai. Le prime cose che vedi ogni mattina sono volgari, sconsolate e brutte.
Io sogno da anni un negozio che venda le cose di ogni giorno, quelle basiche, le calze e le tazze, gli strofinacci e le magliette, i tovaglioli e le mutande, i barattoli e la carta igienica e le tende e le piastrelle, che le venda bianche, bianche e basta.
Perché l'inquinamento delle piccole cose è un altro genere di lupatoto, che un po' ogni giorno ti avvelena di trascuratezza, di minimi orrori che non ti accorgi di vedere.



Non avere nella tua casa nulla che tu non sappia utile, o che non creda bello. 
(William Morris, La bellezza della vita)


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lunedì, 24 ottobre 2011

C'è un gioco che faccio, ogni mattina. È quello di bere il caffè, tazza grande un biscotto una sigaretta, seduta sul gradinetto della portafinestra in cucina.
Lo faccio da molti anni, d'estate e d'inverno, con la luce e nel buio gelato, con il sole e la pioggia e la neve, in camicina o avvolta in giaccone e cappuccio. Il gioco è proprio questo, farlo ogni mattina anche quando hai sonno o fa freddo. Non serve a niente, non significa niente, a volte è piuttosto rognoso, ma il gioco è di guardarle in faccia e sentirle addosso, tutte le mattine del mondo. Per il solo motivo che hai deciso così.
Ne faccio anche altri, parecchi.
Come quello di scegliere un punto e vedere se le porte del treno ti si fermano proprio davanti.
Come quello di scommettere, al bar, che quella tipa tutta rigida di consapevolezza e vestiti non prenderà un caffè, ma una di quelle cose noiose come UndecaffeinatomacchiatoMamacchiatopocoSenzaschiumatiepido. Econunpo'di cacao.
Come quello di dare al criceto tenendoli tra le dita ogni volta esattamente tre semi di girasole, per vedere quanto tempo ci mette ad imparare a contare.
Come quello di far andare random la musica e vedere quante volte sceglie proprio le canzoni che si adattano a quella luce, a quell'ora, a come ti senti, e vedere quanto spesso ci azzecca.
Come quello di far venire il nervoso ai leghisti dando un euro alla zingarella fuori dal supermercato.
Come quello di guardare dentro le finestre, dal treno, e immaginare la vita che c'è.
Tutti ne facciamo di giochi, almeno credo. I giochi non servono a niente, solo a farti giocare.

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venerdì, 21 ottobre 2011

Ecco, questa cosa del sangue. Mi stupisce sempre la gente che in tv e sui giornali si abbevera di fiumi di sangue, di morti ammazzati veri e finti, di cadaveri realmente massacrati e di quelli impiastricciati di colorante rosso, di schizzi che imbrattano i muri, di scie sul pavimento, di esplosioni di teste, di pozze che si allargano sotto persone disarticolate a terra, di dita che frugano frattaglie sui tavoli da autopsia. E poi dicono che loro a fare l'esame del sangue svengono. Perché sono sensibili, proprio non sopportano.
Quelli che no, non so pulire un pollo, non l'ho mai fatto, ma dio che impressione, che raccapriccio, morirei.
Quelli che oddio ti sei tagliato, oddio guarda c'è il sangue, un cerotto, no non ce la faccio ad andare a prenderti un cerotto, devo sedermi, mammamia che senso.
Quelli che ma davvero peschi, ma come fai, ma prendi i vermi con le dita, ma davvero, dio io non potrei mai, ma poi il pesce lo uccidi?
Quelli che guarda fammi fare tutto ma non medicare una ferita, giuro non ce la faccio, il sangue, mi sento male, solo il pensiero, guarda.
Mammamia, quanto siamo distanti dalla vita.

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mercoledì, 19 ottobre 2011

A me piace fare la spesa al supermercato.
Mi piace che non ci sia mai la temperatura giusta. Mi piace che abbia luci troppo bianche.
Mi piace prendere la frutta e la verdura senza il guantino, perché non credo affatto che chi l'ha colta, caricata, scaricata e messa in esposizione avesse i guantini.
Mi piace vedere le vecchine, in due, che prendono le confezioni già pronte così non devono pesare alla bilancia e ricordarsi il numero e schiacciare tutti quei tasti.
Mi piace che i fruttini e i verdurini sulla bilancia siano messi in ordine alfabetico, ed essermene accorta dopo anni.
Mi piace vedere le famiglie che ci vanno al completo vestite della festa con le bambine con la vestina a gale, e quelli che ci vanno in tuta e ciabatte come se stessero andando al cesso.
Mii piace guardare i prezzi al chilo e al litro e confrontarli con il volume della confezione e avere ogni volta un sacco di sorprese.
Mi piacciono i signori che ci vanno con la lista della spesa scritta dalla moglie.
Mi piace comprare l'olio extravergine comunitario, perché gli uliveti in Spagna e Grecia li ho visti e sono molto belli, e quelli che comprano "solo italiano" mi fanno ridere abbastanza tanto.
Mi piacciono i pensionati che fanno man mano il conto, perché lo faccio anch'io.
Mi piace prendere le cose dagli scaffali più bassi che non guarda mai nessuno, come il vetril quello nel flacone azzurro che spruzza senza spray.
Mi piace rispondere che no, non ho la tessera e non la voglio, grazie.
Mi piace regalare i punti omaggio alla signora che vien dopo, tutta contenta.
Mi piacciono le coppie appena formate, che fanno circospette mediazioni sull'acquisto di ogni prodotto.
Mi piacciono i ragazzetti che entrano in sei in un supermercato immenso e escono con una lattina di cocacola.
Mi piacciono i bambini piccoli seduti sul seggiolino che senza farsene accorgere prendono cose a caso dagli scaffali e le buttano nel carrello.
Mi piace calcolare quanti sacchetti serviranno, e adesso è più difficile perché oltre al volume devi calcolare il peso, se no i sacchetti flosci si biodegradano già prima della porta.
Mi piace guardare cosa ha preso la gente che viene prima e dopo di me nella fila, e pensare che questo diventerà obeso e quella invece ha la smania dell'igiene.
Mi piace quello che vede cosa prendi e rimette sullo scaffale quel che aveva preso e prende lo stesso che hai preso tu.
Mi piace che al supermercato i conoscenti li puoi salutare con un cenno, mentre al mercato ci devi chiaccherare.

Mi piacerebbe di più il mercato, naturalmente, ma se fosse vero. Se il fruttivendolo prende il furgone e va a comprare all'Ortomercato, assieme a tutti gli altri, allora tanto vale il supermarket. Anzi, se la merce viene consegnata direttamente a loro alla fin fine è una filiera più corta, quella.
Sono quasi tutti finti, i mercati ormai. Come i - pochi - negozi di quartiere: se il macellaio non macella, il panettiere non panifica e l'ortolano non ha l'orto è inutile giocare a quello che non va al supermercato.

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martedì, 18 ottobre 2011

Perché un altro dei condizionamenti ipnopedici che ci hanno inculcato è quello che “La critica deve essere costruttiva. Che proposte hai? Nessuna? Allora non parlare.”
E mi ha un po’ stufato, anche questa solfa.
Perché non sta scritto da nessuna parte che devo conoscere tutte le implicazioni dell’uso dell’acido acetilsalicilico per poter dire che ho mal di testa.
Perché non devo necessariamente aver vinto Hell’s Kitchen per avere il diritto di dire che questa pasta fa schifo.
Perché non ho bisogno di saper fare una analisi approfondita e rigorosa delle tematiche dell’economia postmoderna, della finanza internazionale e del mercato del lavoro nella società globalizzata per dire che mi secca non avere i soldi per pagare le bollette.
Perché se per parlare è necessario essere in grado di formulare una proposta precisa, articolata e approfondita, allora di economia devono parlare solo gli economisti, di soldi solo i finanzieri, di politica solo i politici. Di lavoro solo sindacati e imprenditori. Di inquinamento gli scienziati. Di come si nasce e come si muore solo i medici. Di cucina gli chef. Di verde pubblico gli urbanisti. Di infanzia i bambini. Di letteratura gli scrittori, di giornalismo i giornalisti. Di scuola gli insegnanti, di sesso le puttane, di vecchiette le badanti.
Mi siedo sul terrazzo, ecco, e sento che proposte vogliono da me le piante di pomodoro e il gatto.

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domenica, 16 ottobre 2011

Siamo contro la violenza, va bene. Su questo tutti d'accordo, dai.
Diventa persino un po' stucchevole e barocco continuare a dirlo e ripeterlo "Ah, anch'io" "Ma anch'io, ci mancherebbe". Tutti d'accordo, va bene.
Detto questo, io mi sento sempre più a disagio nel sentire parlare di cortei e manifestazioni in termini di Una bellissima festa, tanta gente colorata e allegra che sfilava pacificamente, cantando. Più che una protesta, una scampagnata: tanti cartelli e strisconi, si, ma mamme e bambini, e cori e colori. Cosi vanno bene, le proteste, cosi van fatte.
E sfido. A chi mai può dar fastido un gruppone di gente, anche fosse moltissima, che passeggia al sole?

Ma che bravi, vedi, come protestano bene, come sono educati, carini, allegri.
Che dolci.

Magari sbaglierò, ma non riesco a non pensare che una protesta debba dare FASTIDIO.
Debba disturbare, debba mettere in difficoltà qualcuno, debba essere in qualche modo un problema.
Che venga graziosamente concesso di esprimere protesta purché nessuno protesti troppo, rabbia purché nessuno si mostri troppo arrabbiato, purché nessuno faccia troppo rumore, purché si lasci tutto pulito, purché nessuno rimanga turbato: ecco, a me inizia a sembrare un imbroglio.

Proibire una manifestazione creerebbe un sacco di problemi, va a sapere poi cosa gli verrebbe in mente, che la facciano la manifestazione, poverini, han bisogno anche loro un po' di svago, un po' di sfogo.
Purché, naturalmente, si abituino a pensare che una manifestazione ben riuscita è quella che farebbero Heidi e Hello Kitty, una cosa tenera e canterina, un corteo di Hobbit che lanciano fiori nel dolce sole d'autunno.

Non voglio, sia chiaro, non voglio che nessuno si faccia male, non voglio che sia distrutto o  bruciato niente.
Però bisognerà pur trovare una maniera per far sì che una protesta torni ad essere una protesta: giusta, forte ed EFFICACE.
Perché se le città sono accondiscendenti e liete, se i governanti sono benevoli, tranquilli e persino inteneriti, sbaglierò ma a me qualcosa non torna più.

Tocca inventare qualcosa, io credo. Non so cosa, ma magari bisognerebbe povarci. Magari un sit in che blocchi tutto, magari liberare per le strade un milione di rane, magari versare bidoni di tempera gialla e verde e blu - lavabile per carità, ma sai il fastidio - magari solo le biglie come in Animal House. Non so. Forse ai ragazzi, ai più giovani e freschi, verrà in mente qualcosa. Spero.

Perché riunire mezzo milione di persone incazzate ed essere fieri di come tutto sia stato bello e riuscito bene, avendo ottenuto tre inquadrature di palloncini colorati e bei faccini a me sembra una truffa. Un po' come i Massì tesoro va bene, fai pure il piercing, è giusto che i giovani si sentano protestatari, però non troppo grosso. E lava le mani, e dì buongiorno alla signora, e non tenere la musica troppo alta in camera.

Finchè il modo in cui si protesta dovrà essere approvato sorridendo da coloro contro cui si protesta, mi spiace, a me continuerà a non tornare il conto.


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martedì, 11 ottobre 2011

- Perché tu, oltre che bello, sei anche buono.
- Ahahahahah, ma dai... non è vero!
- Sì che è vero.
- Ma smettila, dai. E poi cosa intendi per "buono"?
- Buono: che non fai male a nessuno volontariamente, che se appena puoi fai bene a qualcuno deliberatamente. Buono. Dai, accidenti, sai benissimo cosa vuol dire: non te l'ha mai detto tua mamma, tua nonna "Sii buono"? E lo sapevi cosa intendevano, no?
- Sì, ma. Ma erano almeno trentacinque anni che non ne sentivo parlare. E poi, non so...

Ecco, appunto.
Quando è stata l'ultima volta che avete detto a qualcuno che era buono senza avere la vaga sensazione di offenderlo?
Non si dice più Sii buono. Si dice Fai il bravo. Che è una cosa molto diversa, mi pare: un modo di comportarsi, non un modo di essere. Si può essere perfidi, e comportarsi molto bene.
E, soprattutto, è vagamente insultante: buono fa pensare a qualcuno un po' stupidotto, un ingenuone, uno sprovveduto, un candido, un mite forse un po' vigliacco.
O, peggio, a un paolotto, uno che va a messa e aiuta il don all'oratorio, uno che non dice le parolacce, non si masturba e non si interessa di politica.
Uno di quelli di cui mia nonna avrebbe detto È un po' un SanQuintino.
Ora se si pensa a una persona buona viene più o meno in mente uno pallido e un po' bisinfio, con grossi occhiali e andatura lenta, che mette via i sacchi del supermercato ben piegati e mai darebbe, mai, un pugno a qualcuno.
Qualcuno che fa melense opere di bene e non se ne intende di tecnologia. Qualcuno non molto interessato al sesso.
Di uno strafigo colto, abbronzato e muscoloso, di una bella donna tutta intelligenza e gambe, di un ragazzetto tatuato coi capelli in piedi e i jeans sotto le chiappe non ti verrebbe da dire È una persona buona. Eppure, perché no?
Eppure, no. Non si dice più. Sono anni che sento dire solo "No, sai, XXXX è davvero una bella persona".
Come se la bontà si fosse trasformata in un'attributo estetico dell'anima.

Non dico che sia giusto o sbagliato, non lo so. Solo, mi domando quando.
Quando è stato che abbiamo iniziato a usare questi giri di parole, questi strani eufemismi? Quando è successo che la bontà è diventata una cosa leggermente vergognosa?



(ad esempio io mi vergogno un po', a pubblicare questo post.)



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venerdì, 07 ottobre 2011

Quest'estate ho avuto paura delle stelle. Qui non ce ne sono quasi più, naturalmente, ma lì ce n'erano tantissime, più di quante abbia mai visto, e nonostante ne cadesse qualcuna ce n'era ancora un firmamento di milioni. E mentre le guardavo ne vedevo sempre di più: la via lattea fatta di oggetti e non di luce.
Così, invece di chiudere gli occhi e girarmi su un fianco per dormire, ho deciso di addormentarmi ad occhi aperti. Supina, a tre metri dal mare, volevo tenere gli occhi spalancati sulle stelle e lasciare che a un certo punto si chiudessero da soli.
Ma quando iniziavo a scivolare nel sonno, e tutto si sfuocava e diventava buio, all'improvviso - forse un rumore di onda, forse un soffio d'aria - ritornavo di colpo, in un istante, sveglia.
E in quell'istante lì, come in una messa a fuoco di velocità sbalorditiva, rivedevo le stelle, tutte e una a una, che mi esplodevano negli occhi tutte insieme. Arrivavano di colpo, ed erano miliardi.
Ho dormito pochissimo, perché continuavo a rivedere il big bang. E ho avuto paura: l'universo era vivo e mi guardava.




Perché mi è venuto in mente adesso? Non lo so.

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martedì 10 gennaio 2012

Settembre 2011

venerdì, 30 settembre 2011


Come il nulla nella storia infinita, il lupatoto avanza.
In altri paesi ha dei confini precisi: c'è la campagna, poi il lupatoto, poi la periferia residenziale, poi il centro città.
Il nord Italia, invece, è un unico gigantesco lupatoto.
Un capannone. Un gommista. Tre villette, messe un po' di sghembo una rispetto all'altra, una giallo poltiglia, una rosa confetto con mattoncini, una marròn con pilastrini. Un distributore. Un MercatoneBuonPrezz. Un altro capannone. Una rotonda. Una concessionaria di veicoli industriali. Cinque villette a schiera con vista sulla concessionaria. Un altro capannone, più grande. Un elettrauto. Un rivenditore di piscine. Due villette, una con giardino l'altra no, entrambe con tapparelle beige e lenzuola sui davanzali. Una rotonda con aiuola di gramigna. Un MercatoneCompraBen. Un terreno incolto, con un'auto abbandonata tra i barbansotti. Altri due capannoni, con cancelli elettrificati e cani feroci. Un cimitero. Un distributore con lavaggio auto self service. Una CasaDelLampadario. Una palazzina di uffici di tre piani con vetri fumè. Una prostituta mattiniera. Sei villette a schiera. Un ristorante cinese. Un capannone, piccolo. Un semaforo. Un campetto da calcio con una porta sola. Un villino dell'ottocento coperto d'edera. Sei capannoni, tutti grigi tranne uno. Un MercatonePaghiMen. Un distributore. Una concessionaria. Un lavasecco. Una villetta con tende a strisce e ampio posto auto. Una CasaDelDivano. Una trattoria. Quattro villette con araucarie in giardino. Un cantiere. Un'isola ecologica. Un orto. Un capannone. Un rivenditore di materiali edili. Un capannone. Una villetta. Un capannone.

Là dove c'era l'erba ora non c'è una città. C'è un lupatoto.
E avanza: ogni giorno una ruspa si sveglia e sa che dovrà spianare le fondamenta per un nuovo capannone, ogni giorno una villetta si sveglia e si trova davanti alla finestra uno svincolo neonato.

Per sapere se sei nel lupatoto c'è un semplicissimo test in tre fasi.
• Primo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti fermarti a fare la cacca.
• Secondo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti fare un picnic.
• Terzo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti volere fossero disperse le tue ceneri.

Se trovi l'uscita, scappa.





Lupatoto:

-.Beh, dovremmo essere arrivati, no? Il cartello della città era cinque chilometri più indietro.
- Sì sì, ci siamo quasi: questo è il sangiovanni lupatoto di XXXXX, tra dieci minuti siamo in centro.
- Questo è il cosa?
- Il sangiovanni lupatoto, questo posto qui di capannoni e mercatoni è come sangiovanni lupatoto: è un paese, sai.
- Hahahahhahhahahaahhaahah, ma smettila! Non può esistere un paese che si chiama così, l'hai inventato.
- Che scema. Certo che esiste. San Giovanni Lupatoto, è nel veneto.
- Hahahahahahahahah! LUPATOTO...! L'hai inventato! Hahahahaahahahhahaha!
- Ma smettila. Esiste, giuro, smettila di ridere come una scema.
- HAHAHAHAHAHAHAAHHAAHH!
- Quando andiamo a casa guardiamo su gugol e vedrai. Se esiste mi devi una bottiglia di pastis.
- LUPATOTO...! AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!

Esiste. Ma la parola è così bella, così perfetta che non ha sinonimi: adesso finalmente avete un nome, per quello che vi vedete intorno. E che quello che guardate si stia lupatotizzando sempre più in fretta non fa ridere, in effetti.

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mercoledì, 28 settembre 2011

Ma voi lo sapevate che le ortiche non vi pungono se le toccate senza respirare?
Lo sapevo, ma non ci pensavo più da tanto. Poi ieri abbiamo fatto un giro nel bosco e mi è tornato in mente. Funziona, e non ho idea del perché. Forse ha a che fare coi pori della pelle, che quando inspiriamo si aprono come tante bocchine e se teniamo il fiato restano chiusi? O con l'anidride carbonica che ci si spande tutta addosso mentre respiriamo?
Non lo so, ma mi è venuto in mente che si dovrebbe provare anche con altre cose, con le meduse per esempio, e mi è spiaciuto non averci pensato al mare. Magari non avrei avuto il coraggio di toccarne deliberatamente una, ma credo di sì: dev'essere liscia come un budino freddo.
E poi ho pensato a tutte le volte che qualcosa ci fa male e ci dicono di respirare. A quando mia mamma facendomi le punture da piccola mi diceva respira, respira profondamente. E faceva malissimo. Magari a trattenere il fiato la penicillina non l'avrei neanche sentita. Magari anche se uno ti dà un pugno o dice una cosa cattiva, se non respiri non fa male. Chissà, bisognerà provare.
Intanto, sul margine tra il prato e il bosco c'era una luce tiepida, che aveva il sapore dell'uva gialla lasciata troppo matura sulla pianta, con una vespa che per ore la beve.
E niente, abbiamo accarezzato le ortiche per un po'. Poi siamo tornate a casa.

(foto di Marghe)

Agosto 2011

giovedì, 11 agosto 2011

La miglior dimostrazione che il copyright è una stupidaggine sono le ricette di cucina.

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lunedì, 08 agosto 2011

Quanto tempo ci vorrà prima che un sacchetto di vera plastica diventi davvero prezioso?

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mercoledì, 03 agosto 2011

Ma se, per dire, ci fosse un blackout (tempesta solare, hacker, castigo divino) e i computer della banca andassero in tilt, ce li darebbero i nostri soldi?
Ci crederebbero che li abbiamo se non ce ne fosse una prova aggiornata sul sistema informatico?

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Maggio 2011

sabato, 28 maggio 2011

Mi hanno chiesto cosa vuol dire utopia. Spiegarlo, si spiega. Il problema sono gli esempi: esempi attuali, intendo. Tutti gli esempi che mi sono venuti in mente sono del passato, oggi si producono - mi pare - solo utopie negative.
Se a qualcuno viene in mente un artista, un letterato, un musicista, uno statista, un regista di oggi che abbia inventato, o prodotto o quello che è, una utopia me lo dica, per favore.
Noi sarà che eravamo stanchi ma la cosa più vicina che siamo riusciti a trovare è Star Trek.

C'entra anche quel bellissimo film che ho visto qualche giorno fa: 'Non lasciarmi'. Bellissimo e di sconcertante angoscia: perché alle distopie siamo abituati, ne abbiamo lette e viste al cinema tante, alcune splendidamente declinate altre meno, ma in tutte bene o male c'è una fiammella di ribellione, uno scatto di devianza, un granello di sabbia nel sistema. In questo film no. E questa totale, infinita e totale accettazione, senza che nemmeno sia usata la forza perché semplicemente non c'è alcun bisogno di esercitarla, io l'ho trovata di desolazione agghiacciante, di tremenda violenza. Se vi capita guardatelo, eh.

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giovedì, 26 maggio 2011

- Carletto, vieni che è in tavola. Senti Carletto, ma cos'è di 'sti referendum?
- Quali referendum?
- Mah, ho trovato la Nives giù dal prestinaio, dice che c'è i referendum...
- Mavalà, Esterina, quella lì chissà cosa ha capito. Se c'erano i referendum c'erano i cartelli in giro, no? I manifesti, ti ricordi quelli del divorzio, c'era pieno di manifesti. La Nives  già capiva poco prima, adesso che è vecchia figurati.
- Dice che c'è il referendum sull'acqua.
- Sull'acqua? E che cazzo di referendum è? Come si vota sull'acqua? Liscia gassata o ferrarelle? Ma per favore... Dammi qua un'altra fetta di arrosto, qua.
- Mah, non so, magari ho capito male io...
- Quello sicuro. Che poi tanto son tutti soldi buttati, i referendum, sai quanti soldi spendono per ste cazzate, mai che facessero un referendum sugli zingari, per dire. Quello sì che lo voterei.
- Che poi quella domenica lì c'è la costinata giù all'oratorio, meglio che andiamo lì allora.
- Eh. Che poi figurati se la Nives o quel scemo del Luigino suo marito sanno se si deve votare sì o no. Io mai capito, quello. Per quello non vado mai. Anzi tieni a mente che bisogna che vado su un po' presto, alla costinata, che col Piero dobbiamo far su la brace.

Qui, per esempio, i referendum praticamente nessuno sa che ci siano.
E tra l'altro a me i referendum preoccupano sempre un po'.
Perché niente mi toglierà dalla testa che per quanto si spieghi la faccenda del 'vota SI per dire NO' (o viceversa) qualcuno -e probabilmente più di qualcuno- si sbaglia comunque.
Non è la preoccupazione riguardo ai risultati, visto che in teoria gli errori dovrebbero equivalersi da una parte e dall'altra e quindi elidersi, è il pensiero che tanta gente voti il contrario di quello che vorrebbe a infastidirmi.
Sono convinta, tra l'altro, che qualunque procedura che necessiti di troppe e troppo ripetute spiegazioni sia sbagliata.
Se servono tonnellate di manifesti e volantini e ore e ore di avvisi elettorali con sottotitoli per non udenti e linguaggio dei segni per spiegare una cosa, vuol dire che quella cosa è malfatta.
E non capisco perché mai. Posto che i referendum sono abrogativi, basterebbe porre i quesiti sotto la forma: 'La legge xy dice che blablabla. Sei d'accordo di mantenere questa legge?'
Chi vuole mantenere la legge vota sì, chi vuole abrogarla vota no. Chi non vuole la privatizzazione dell'acqua, per dire, vota no. Semplice, chiaro, a prova di analfabeta di ritorno. Sì o no?

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giovedì, 19 maggio 2011

Ma perché continuano a dire ai bambini di non correre? Cosa gli succede se corrono?

- Non correre!
- Perché?
- Perché poi cadi e ti fai male.
- Non cado, non ho mica due anni.
- Ieri sei caduto e hai pianto.
- Ma adesso mi è passato. Posso correre?

- Non correre!
- Perché?
- Perché poi cadi e ti fai male.
- Non posso farmi male, è tutta erba. Non mi faccio male a cadere sull'erba.
- Ti sporchi i pantaloni. Magari li rompi, anche.
- Se li tolgo posso correre?

- Non correre!
- Perché?
- Perché poi sudi.
- E beh?
- Ti fa male sudare.
- Ma tu sudi quando vai in palestra. Anche il papà suda quando va a correre.
- Ai bambini fa male sudare. Poi prendono aria e si ammalano.
- Ma poi muoiono?
- Ma no!
- Allora posso correre?

Fateli correre, diosanto. Abbiamo sudato tantissimo, ci siamo riempiti di croste le ginocchia e non siamo morti. Fateli correre, dai. Non so, io certe corse su certi prati me le ricordo ancora.


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mercoledì, 18 maggio 2011

Guarda che se logorri ti forsenno.

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sabato, 14 maggio 2011

Il mio preferito è l'Uccello del Terrore.
In alcuni dei miei momenti di obnubilamento televisivo, mi accade di guardare questi documentari che raccontano di enormi e cattivissime bestie estinte.
Non è tanto la ferocia che mi affascina (si incontrano animali molto più sanguinari in metrò o dal prestinaio), né la qualità delle ricostruzioni filmate, che è piuttosto ingenua: io adoro i nomi.
Fino a qualche tempo fa il mio preferito era l'Orso Gigante dal Muso Schiacciato, ma direi che Uccello del Terrore è ancora meglio.
Era, lui, un enorme pollo, un gigantesco gallinone con un becco sovradimensionato, adunco e affilato. Lo si vede muoversi con quest'andatura saltellante da tacchino festoso, per poi avventarsi con folgorante velocità sulla preda, spezzandola in due col beccone. Mentre il ciuffetto nero gli ondeggia su e giù.
Non sai mai, mentre sei in cucina o esci dal bagno, quando improvvisamente lo vedrai arrivare ballonzolando, le ali strette lungo il corpo, per avventarsi su di te e sferrare il suo colpo di becco fulmineo e fatale.
Non so voi, ma noi qui sono giorni che giochiamo all'Uccello del Terrore.

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Ecco, vedi che non lo diciamo solo io e l'imperatore Adriano.

Se due persone fumano sotto il cartello "Vietato fumare" gli fai la multa, se venti persone fumano sotto il cartello "Vietato fumare" chiedi loro di spostarsi, se duecento persone fumano sotto il cartello "Vietato fumare" togli il cartello.
(Winston Churchill)

Si noti, questa non è propaganda pro-fumo. Fumare uccide, c'è scritto anche sul pacchetto. 
Come se qualcuno potesse essere convinto a non fare qualcosa dopo che ha appena comprato l'occorrente per farlo. Già che si stava parlando di cose inutili.

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sabato, 07 maggio 2011


Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure si trasgrediscono, e con ragione. Se troppo complicate l'ingegnosità umana riesce facilmente a insinuarsi entro le maglie di questa massa fragile...
...Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva: spetta al legislatore abrogarla o emendarla, anche per impedire che il dispregio in cui è caduta quella stolta ordinanza si estenda ad altre leggi più giuste.

(Memorie di Adriano, M. Yourcenar)

Ecco, mi è venuto in mente mentre sacramentavo contro il distributore automatico di sigarette -cerca la tessera dov'è la tessera l'ho lasciata a casa ah no è qui inserisci la tessera estrai la tessera reinserisci la tessera nell'altro senso, no nell'altro, no nell'altro, accidenti è caduta proprio lì tra la macchinetta e la clèr inginocchiati sporgiti con la faccia schiacciata sulla saracinesca eccola tutta sporca inserisci la tessera inserisci i soldi reinserisci i soldi liscia i soldi reinserisci i soldi non dà il resto fanculo al resto volevo solo fumare una sigaretta- e realizzavo quanta inutile fatica profusa nella vertiginosamente falsa e ipocrita supposizione di non far fumare i minorenni.
I quali, maschi e femmine tutti, fumano voluttuosamente e serenamente per la pubblica via, dai quattordici anni in su e spesso anche dai dodici o tredici.

Poi mi sono messa a pensare a tutte le altre leggi complicate, inutili e idiote che ci infestano la vita come ortica, alla cui puntigliosa applicazione siamo obbligati da una occhiuta autorità che trascura ben altre violazioni.
Sei obbligato a mettere il guantino per mettere nel sacchetto arance che da giorni vengono manipolate, caricate, pesate, fatte cadere e raccolte da nerboruti scaricatori sudati e senza guanti.
Sei obbligato a produrre quindici firme su quindici pagine di oscure dichiarazioni relative alla privacy ogni volta che compri un ferro da stiro, sotto l'occhio di telecamere che ti spiano nella scollatura, e dopo aver dichiarato lo stato anagrafico dell'intera stirpe.
Sei obbligato a non vendere gratta e vinci ai minorenni affinché non cadano nell'orrida spirale di perdizione del gioco d'azzardo, mentre è la sciura Ersilia che dilapida la pensione e cena a pane e latte aspettando di diventare miliardaria.
Sei obbligato a bere aranciata col brasato perché un limite assurdo dice che se bevi un bicchiere di vino sei un pazzo pericolosissimo, mentre chi guida dormendo può falciare un pulmann di vecchiette perché il colpo di sonno, si sa, può capitare.


Poi ho smesso di pensarci perché me ne venivano in mente troppe.
E ho chiesto al quindicenne che passava se per favore mi faceva accendere.


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martedì, 03 maggio 2011

Sarà che invecchiando sono diventata cauta, sospettosa e diffidente come un'incrocio tra la zia di Philip K. Dick, un finanziere e una perpetua di Pontida, ma di fronte alla stragrande maggioranza delle notizie, ormai, non riesco a prescindere dalla sindrome Capricorn One.

Nel caso specifico, non sono affatto certa che Osama sia stato ucciso.
(Del resto non sono ancora del tutto sicura di credere che sia mai stato vivo)

Ma riguardo a tutta l'intera faccenda il commento che finora mi è parso tra i più lucidi è quello del Paguro*:
- Hanno ucciso Bin Laden...? Beh, ma a noi che cazzo ce ne frega?


* il Paguro ha diciassette anni e vive rintanato in una inaccessibile spelonca buia e echeggiante, in cui le cui concrezioni di vestiti, avanzi di cibo e cartine di sigaretta si sono stratificate al punto da renderne quasi impraticabile l'accesso. Ne fa fuoriuscire, all'ora dei pasti, lunghe antenne ticchettanti e chele predaci con le quali cattura enormi quantità di qualunque cosa ritenga commestibile, prima di ritirarsi rapidamente nel guscio sigillandone con cura ogni orifizio.

La Pesciarossa dalla lunga coda ondeggiante invece pinneggia languida in un suo acquario per metà onirico e per metà virtuale, intoccata dalle prosaiche necessità di pulizia, nutrizione e rigoverno del mondo da cui noi terrestri ci lasciamo così incredibilmente affliggere. In certi momenti, appropriatamente scelti da un destino remoto e benevolo, cibo e pantaloni puliti le fluttueranno davanti affinchè ne fruisca, com'è sempre stato e com'è nell'ordine naturale delle cose che sia.
Il suo commento non è pervenuto.

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domenica, 01 maggio 2011

Ma di cosa sa, di preciso, il profumo di santità?


(cioè, lo riconosci se lo senti, per dire, camminando per strada?
E quante volte l'abbiamo sentito senza rendercene conto?
O non capita mai a nessuno, nella vita di tutti i giorni, di sentirlo?
E allora come fanno a riconoscerlo subito?


...sa di rosa, di giglio, d'incenso, di lavanda, di sapone, di pizza?)

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lunedì 2 gennaio 2012

Aprile 2011

sabato, 23 aprile 2011

Allora, facciamo qualcosa di creativo. Per esempio diventiamo apolidi.
Ci sto pensando da un po'. Lasciando un momento da parte quello che è il "sentirsi italiani" come appartenenza a un certo retroterra storico e culturale, mi chiedo: ha senso oggi avere una nazionalità, una cittadinanza che ci dichiara appartenenti ad uno specifico Stato? E se sì, che senso ha?
Se vado a stare in Lapponia o nel Madagascar mi farò là un permesso di lavoro, lavorerò pagando le relative tasse e imposte dirette e indirette, imparerò lingua e modalità di comportamento, rispetterò leggi e consuetudini, usufruirò dei tram e del Pronto Soccorso. Esattamente come fa un lappone o un malgascio che viene a stare qui per un certo tempo.
E quindi, dove sta precisamente il senso di aver scritto da qualche parte che sono lappone o malgascio o italiano?
Non è una domanda retorica, me lo chiedo seriamente.

Certo, nel mio essere, nel brodo di storia, tradizioni e cultura in cui galleggia il mio modo di vedere il mondo, ci sono Dante e Petrarca e Italo Calvino, ci sono Piero della Francesca e Botticelli, e Giulio Cesare e Raffaella Carrà.
Ma certo ci sono anche Tolstoi e Keruac, e Cervantes e Flaubert e Queneau. E Mozart e i Pink Floyd, e Dennis Hopper e Van Gogh.
E più Garcia Marquez che Pascoli, più Kafka che Carducci, più Tom Waits che Nicola Arigliano. E ognuno potrebbe proseguire per ore.

E quindi? In base a cosa di preciso ci si attribuisce una nazionalità? E a cosa di preciso ci serve? Se qualcuno ne ha un'idea chiara e convinta sarei molto contenta me ne facesse partecipe: io non lo so davvero.
La nascita non c'entra niente: un signore nato in Argentina e che ci vive da sempre risulta italiano, anche se nel paese dei suoi non ha la minima intenzione di tornare e il Molise non sa nemmeno bene dov'è, mentre un giovanotto nato in Italia, che ci ha fatto l'asilo e le elementari, che va all'oratorio e gioca da sempre nella Roccellese, che parla un perfetto bergamasco e sta per sposarsi con la sua tipa del liceo, una di Baranzate, risulta straniero: paga la tassa sull'immondizia ma non vota nemmeno per il Sindaco.
Ma supponiamo che a uno non interessi votare. Supponiamo che non gliene importi niente di essere definito con una precisa nazionalità. Supponiamo che nessuna nazione gli piaccia più di un altra, che non ce ne sia nessuna che più di un'altra senta corrispondere al suo più intimo sentire, perché non può chiamarsi fuori?

Già, perché si può divorziare da un coniuge, si può disconoscere un figlio, si può rinunciare al sacerdozio o all'abito monastico, si può perfino rinnegare una religione o un credo.
Ma pare non si possa rinunciare a una cittadinanza.
Magari non avrò cercato bene, ma ho frugato e frugato in giro: da quanto ho visto non risulta affatto facile diventare apolidi. Anzi, sembra quasi che non ci sia affatto modo di diventarlo volontariamente.
Si trovano lunghe e in alcuni casi molto tecniche spiegazioni sul come fare ad acquisire una cittadinanza, sul come uscire dalla condizione di apolide. Ma non ne ho trovata alcuna sul come si faccia ad acquisirla per libera scelta, quella condizione.
Perché? Per quale motivo la cittadinanza deve essere un obbligo? E non è una forma insopportabile di coercizione della libertà di un individuo obbligarlo ad essere per forza cittadino di una nazione o di un'altra?

A me essere apolide piacerebbe, per esempio. Se qualcuno sa come si fa me lo dica, per favore, ci tengo. Magari ci va di diventare apolidi in tanti, chissà.


Allego, così per gradire, questo pezzo che Ralph Linton, usava come introduzione al suo corso di antropologia culturale.




Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell'India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente domesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell'Est. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egizi.
Tornato in camera da letto,  prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell'Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell'Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell' antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civilta' classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del XVII secolo. [...]
Andando a far colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un'antica invenzione della Lidia. Al ristorante  il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell'India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell'originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l'idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti secondo una tecnica scandinava con il frumento, originario dell'Asia minore. [...]
Quando il nostro amico ha finito di mangiare si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un'abitudine degli indiani d'America, consumando la pianta addomesticata in Brasile. Fuma la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille attraverso la Spagna. Gli portano il conto, scritto con cifre inventate in Arabia, e mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina  secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all'estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano.


A piacere, sostituire americano con padano o altro, a scelta.

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domenica, 17 aprile 2011


Quando si è immaginato il Panopticon il buon Jeremy Bentham l'ha immaginato come un carcere, anzi come l'ipotesi di carcere perfetto.
Una possibile visibilità assoluta per lui - e con tutta probabilità per tutti gli uomini del suo tempo - non poteva che essere associata ad una condizione punitiva, ad una reclusione, alla massima limitazione concepibile della libertà personale.
L'essere visti in qualunque momento e peggio ancora, forse, il non sapere mai con certezza in quale momento e da chi si è osservati gli pareva ovvio fosse lo stato di un coartato, di un prigioniero.
Chissà cosa pensa adesso, guardando noi affannarci per ottenere più visibilità, e ancora, ancora di più. Per condividere, come si dice ora, quanti più momenti nostri e stati d'animo, e immagini, e pezzi di vita possibile.
Io mentre bacio il fidanzatino, tu mentre ti tagli le unghie, lui che canta strillando stonato, la famosa struccata durante una crisi di pianto e  la nonna il giorno del suo compleanno, Ali e Giuli abbracciate nella sbronza di sabato scorso, e la prima cacca nel vasino del nostro Kevinino (come si faranno in italiano i diminutivi affettuosi per bambinetti con idioti nomi stranieri?)
E ogni volta che guardi una mail o una foto, che ascolti una canzone, che scrivi una frase, qualcuno ti chiede garrulo 'vuoi condividere questa bella cosina?': ma certo, ma subito, la facebucco, la tuitto, la coso, non vedo l'ora che tutti sappiano che mi piace la foto del gattino che dorme, che mi piace la battuta che ha fatto Giancarlo.
E google earth, e street view e earth cam, e ogni volta che cammini per strada e ti scaccoli pensoso, ogni volta che tagli il prato in costume, ogni volta che ti affacci alla finestra tutto spettinato pieno di cispe, ogni volta che fai fare al cane la pupù sul marciapiede, qualcuno ti guarda. Forse. Probabilmente. Chissà dove, chissà chi. Che bello.
Jeremy pensava che l'essere costantemente osservati avrebbe fatto in modo che i prigionieri non potessero che comportarsi bene. Anche il grande fratello la pensava così.
Resta da capire dove sbagliassero.
E come mai noi, prigionieri volontari e festosi, continuiamo a comportarci così male. E facciamo anche ciao con la mano.

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sabato, 09 aprile 2011

Questi - diciamo - tre anni sono stati come essere proiettati a incontrollabile velocità a bordo di un mezzo di cui non si conosce affatto il sistema di pilotaggio, in direzione di una meta solo approssimativamente nota posta a distanza sconosciuta, senza avere la minima idea se la strada sia quella giusta. Bendati.

Adesso però faccio una pausa. Fermo il mezzo (ci sarà pure un modo), mi ripettino i capelli che il vento mi ha ingarbugliato negli occhi e nei pensieri, accendo una sigaretta e sto seduta un po'.

C'è sicuramente un plaid nel bagagliaio, ci dovrà ben essere da qualche parte un bagagliaio.

Un pic nic, sul margine dello stradone.

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Agosto 2009

lunedì, 17 agosto 2009

Notte buia e calda di pipistrelli e stelle, il sudore si asciuga addosso piano piano, il ghiaccio si muove nel bicchiere. Ha lo stesso suono della sfera che porto al collo, Venere mi saluta e cammina come me: poi verrà la luna. Un respiro e un soffio nella nuca, cera calda a gocce, questa notte sfatta madida e slacciata di falene e grilli. Com'è breve un anno, e com'è largo.

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Giugno 2008

martedì, 24 giugno 2008

Le gite in montagna dello zio Cino erano sempre in salita.
Non nel senso ovvio che le montagne sono alte per cui per arrivare in cima bisogna salire, nel senso che le escursioni organizzate da lui erano tutte e soltanto in salita.
Con lui la gita aveva sempre lo stesso svolgimento: quattro o cinque ore di avvicinamento in forte pendenza, un paio d'ore di falsopiano in salita, poi inizia l'ascesa vera e propria, durissima e quasi verticale. Arrivati in vetta, altre tre o quattro ore di contropendenza a salire, poi un ultimo faticoso strappetto, e lì in cima al pendìo c'è la macchina.
Nessuno ha mai capito come facesse ma era molto bello andare in montagna con lui e quindi si continuava a farlo, anche se per interi anni nessuno ha mai tolto le pelli di foca da sotto gli sci.

Resta il fatto che in fin dei conti aveva ragione: è tutta salita.
Quelli che dicono guarda adesso si fa quest'ultimo sforzo, questa tirata, poi è tutta discesa, ti imbrogliano. O quantomeno non sanno la strada.
È tutta salita. Ma è vero che si arriva in vetta, intanto, e che a metà strada si slacciano gli scarponi e si mangia guardando le nuvole.
E in cima c'è poi pur sempre la macchina. Per tornare su, verso casa.
A metà mattina ho levato i calzoni di lino bianco leggero e i sandaletti col tacco coi quali avevo firmato contratti e discusso condizioni bancarie e rivestita di maglietta da muratore ho recuperato alla stazione Patricia - gentile peruviana un po' appesantita ma di lunga tenuta, assoldata per la bisogna - e ho passato con lei sette ore filate senza pause né pranzi o merende, con guanti al gomito e detersivi da viaggio psichedelico a fare pulizie di grosso, di quelle dove si strofina, forte. E non siamo nemmeno a metà.
Per il resto, andrò a letto presto. Che c'è molta salita da fare e la vedo già da qui, mentre bevo il bicchiere di vino che saluta il tramonto, e i gelsomini e le zucche sono contenti e innaffiati, la vedo da qui, tutta a tornanti. Che bello.