giovedì 15 dicembre 2011

Maggio 2007

mercoledì, 16 maggio 2007

Quando vado in pensione vado anch'io, a guardare i cantieri.
Sul margine della fettuccia di recinzione, sull'orlo dello scavo, le mani dietro la schiena, l'espressione seria. Ogni tanto dare qualche consiglio anche, un po' a mezza bocca: "La trave là va fissata bene eh, che vien giù." O scuotere appena appena la testa, che quel mestiere che ha fatto quel ragazzo lì, quel magrolino, non mi convince mica.
Non vedo l'ora. Perché adesso ho capito perché lo fanno: per passare il tempo si può anche andare a giocare a bocce, non è quello il punto. 
C'è da spendere un sacco di tempo e di concentrazione invece, di attenzione vigilissima, per capire quello che vorrei tanto capire anch'io. Capire come fanno.

Come fa un manipolo assortito di bergamaschi e algerini, di sessantenni brembani, diciottenni rumeni e torvi quarantenni magrebini a costruire un grattacielo, un raddoppio ferroviario, un'autostrada senza che nessuno gli dica cosa fare.
Qualche cantiere l'ho guardato anch'io, per qualche tempo - sai mai che mi capiti un prepensionamento - e non ho mai visto qualcuno che desse ordini più complessi di quanto può stare in una frase di tre parole, sovente gridata su e giù da un ponteggio: "Tira süü!" "Molla... ancora, ancora... Bona!"
Le istruzioni - molto laconiche e spesso limitate a gesti e suoni gutturali, cosa perfettamente funzionale dato il comprensibile gap linguistico - sono relative ad una azione o a una limitata serie di azioni, e sembrano sufficientemente adeguate allo scopo.
Ma io mi domando come possano correlare con tanta apparente decisione questi frammenti di gesti, quel secchio proprio adesso, quel buco grande così e non di più, col quadro generale: non cesso di domandarmi chi di loro abbia in mente il piano complessivo.

Sono mesi e mesi che, un quarto d'ora ogni mattina, seguo con attenzione i lavori di raddoppio ferroviario. Roba complessa, mica un muretto di cinta: sbancamenti fondi come case di tre piani, posa di immense travi metalliche trasportate e messe in opera da mezzi giganteschi, poderose gettate di cemento con betoniere a torre, chilometri di tondini da saldare, gru, escavatori, perforatori pneumatici, decine di uomini che lavorano, uno qua, tre là, due là in cima, quattro lì in fondo. 
E mai, mai ho visto un disegno.
Mai, in tutti i cantieri che ho osservato in vita mia ho visto un solo pezzetto di carta, uno schizzo, un foglio di bloc-notes.
Nelle pubblicità si vede sempre uno con la faccia da ingegnere e il caschetto giallo che squaderna un disegnone davanti a uno con la faccia da capocantiere, e subito dietro quelli con la faccia da capomastri osservano attenti, tutti col caschetto giallo, mentre i raggi del sole indorano il pulviscolo e i loro rudi e franchi visi abbronzati.
Nella realtà evidentemente ingegneri pallidi e furtivi mostrano di nascosto i disegni al capomastro nottetempo, laggiù nella baracchetta di lamiera, rapidi e in silenzio, al riparo da occhi indiscreti. Il geometra fa il palo sulla porticina e quando l’oscura transazione è terminata mastica e inghiotte il foglio per non lasciare tracce.
Il capomastro poi, la mattina, avendo memorizzato perfettamente tutto il grattacielo, arriva in cantiere e sa esattamente di che misura far tagliare i tondini a Ivan e in che punto Ahmed deve fare la gettata. Nemmeno glielo dice, però. Basta uno sguardo.

Quando c'è, un capomastro. Nella più parte dei cantieri - in quelli delle opere pubbliche direi nella totalità - ci sono operai variamente sparpagliati, ognuno intento al suo lavoro, generalmente, va detto, con molta concentrazione, ma apparentemente nessuno che tiri le fila, che spieghi una procedura in vista di uno scopo, che anche solo a gesti mimi una direzione, una forma, un'altezza.
Rarissimo, tra l'altro, veder qualcuno che prenda una misura. La gettata ecco, fino a lì, questi due dove li saldo, li saldo qui e poi vado avanti a giuntarli fino là, diciamo.
L'altro giorno per questo ho osservato affascinata di stupore la cura con cui un tarzanetto attempato misurava dei pezzini di legno prima di passarli sotto la sega circolare. E poi li accostava uno all'altro e li guardava attento, che fossero bei pari. 
Gliel'avrà detto l'ingegnere all'alba "Falli lunghi un metro e trentatrè", o il capomastro ieri sera sul tardi mentre lo salutava dal furgone, o il capocantiere tre mesi fa, prima di svanire nell'oblio? 
Di certo io non ho visto nessuno che glielo dicesse. Lo sa, ma certo. Sa che per costruire un sottopassaggio automobilistico a tre corsie - in curva - sopra a cui passano due treni van tagliate cinquantasette assicelle lunghe un metro e trentatrè.

E allora mi consolo.
E mi rilasso. 
Incrocio le mani dietro la schiena e mi colma una infinita pace: il capomastro nessuno sa chi sia, il capocantiere non si fa mai vivo e l'ingegnere forse nemmeno esiste, nessuno ha mai visto un disegno e io e Safran qui, che mi tiene la trave, non parliamo nemmeno la stessa lingua. Eppure lo tiriamo su, sto cazzo di grattacielo.

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mercoledì, 02 maggio 2007

Che volete farci, è un periodo di little less conversation.
(more action)
(less connection)

Però tra poco arrivo.

Appunti:
telenovele
afidi
bello
cornacchie
stupri
giocare alle signore/1
giocare alle signore/2
calendari e fusi orari
sms
il protocollo bidella nella pulizia etica
essere qualcun altro
piani di simmetria
vetrinizzazione sociale
dimmi come parli
cincischiare
spadone
bestioline

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mercoledì 14 dicembre 2011

Marzo 2007



 venerdì, 16 marzo 2007


L'odore della paglietta che sfrega il sugo di pomodoro.
L'odore della birra sullo strofinaccio nell'angolo del pavimento.
L'odore dell'aglio che salta nell'olio bollente.
L'odore del vino rosso rimasto sul fondo dei bicchieri.
L'odore delle torte che cuociono nel forno.
L'odore della sera dalla porta.
L'odore del prezzemolo e del pepe.
L'odore dello Splendor Piatti dentro i polpastrelli.
L'odore dell'acqua bollente già salata.
L'odore del formaggio che fonde e carbonizza sulla piastra.
L'odore della cantina.
L'odore di pane della bruschetta.
L'odore del frigorifero aperto.
L'odore della schiuma del latte che bolle e fischia.
L'odore del sudore di chi lavora accaldato.
L'odore del campari col bianco.
L'odore della sigaretta che entra assieme all'aria fredda.
L'odore del burro sciolto con la salvia.
L'odore dello straccio azzurro in fondo al lavello.
L'odore del turacciolo prima di versare.
L'odore di ferro dei coltelli.
L'odore di vapore che sbuffa dalla lavapiatti aperta.
L'odore del dopobarba di chi ha fatto la doccia prima di andare al bar.
L'odore delle padelle mentre le asciughi.
L'odore delle patatine nella ciotola.
L'odore di ghisa rovente dei fornelli.
L'odore del legno dei tavoli.
L'odore dei posacenere quando li svuoti.
L'odore di tutti i salumi a brandelli dietro la lama dell'affettatrice.
L'odore del filtro della lavastoviglie.
L'odore dei grembiuli quando li togli.
L'odore del whisky di dodici anni.
L'odore del fondo del caffè che è il rumore di quando lo sbatti, giù in quel pozzo, che chissà dove mai andrà a finire ancora non lo so.

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martedì, 13 marzo 2007


Il fatto è che un sacco di gente lavora troppo poco.
Tolto chi sgobba in fabbrica e nei cantieri, tolto chi lavora nei campi e chi bada e pulisce, a cui va la mia eterna stima (che son pur tanti, ma quanti qui da noi, in percentuale, quanti? Vogliamo dire il cinquanta per cento? Per me son molti meno) gli altri, tutti gli altri, sostanzialmente non lavorano.
O perlomeno non nel senso del lavoro in quanto fatica: non faticano, non sudano.
Diciamo le cose come stanno: gli impiegati (tutti, me compresa quando sto in ufficio) non fanno sto gran faticare. Hanno la seccatura della presenza e degli orari, certo, devono arrivare e poi restare lì. Ma non è faticoso, no. Noioso, a volte. Spesso innervosisce, talvolta irrita, quasi sempre snerva. 
Ma la fatica è un'altra cosa.
Il novanta per cento delle persone che conosco non ha mai versato una goccia di sudore in vita sua se non per il caldo - e in ogni caso raramente, e frignando molto.
Non ha mai provato a fare uno sforzo da far male ai muscoli se non sulla moquette di una palestra - mezz'ora, vestito in lycra, ascoltando shakira nelle cuffie.
Non che io voglia dare un senso morale alla fatica fisica (anche se, in fondo, perché no?) ma trovo ci sia qualcosa di sbalorditivo nel fatto che milioni di persone si accascino gemendo ogni sera la loro stanchezza dopo essere stati seduti otto ore su una poltroncina imbottita.

Certo, lo stress. Parola non a caso inventata non da molto: prima non serviva. E il bisogno di inventare una nuova parola senza che sia stato inventato o trovato alcun nuovo oggetto mi insospettisce sempre. Inventata per dare un nome a quella somma di noia e agitazione, frustrazione fisica e languore psichico che proviene dall'aver costretto mente e corpo a non fare pressoché niente tutto il giorno, inventando risultati e traguardi e aspettative a cui rispondere perché un senso lo si dovrà pur dare, a tutto questo.
Io ci ho lavorato e ci lavoro in ufficio, anche. Lo so com'è. Si legge una mail, si naviga un po', si parla moltissimo, ci si concentra per qualche momento - magari anche a lungo per carità, alcuni sono anche coscienziosi - su una questione da risolvere, ci si pensa, sì. Si fa fatica a pensare, sì. Si fa un po' fatica. Mica tanta, dai. Tensione, pressione, scadenze: fastidio sì, ma fatica, andiamo, no.
C'è tanta gente, davvero tanta, che nasce e cresce e vive senza mai aver fatto uno sforzo, uno vero.
Che pensa che metter su due sofficini per cena dopo essere stata seduta ad una scrivania sia devastante. Che ritiene quasi insostenibile portar giù in ascensore quattro etti di immondizia dopo aver passato la giornata nell'aria condizionata di una sala riunioni.
Che considera il logorìo mentale del pensare a una campagna pubblicitaria, la noia di dover timbrare bollettini di conto corrente dietro uno sportello postale, lo stress di un contratto commerciale, la ripetitività di un tran tran di segreteria come uno sforzo in grado di alterare l'integrità psicofisica, una cosa debilitante al punto di aver tutte le ragioni per essere esausti la sera e trattar male coniugi e figli, per non aver voglia di pensare a niente, per essere cupi e taciturni, per essere troppo stremati per fare l'amore.

Io sono a favore dell'introduzione obbligatoria dei campi di lavoro.
Non come punizione, non sia mai. Come opportunità.
Un master in fatica.
Gratuito e obbligatorio.
Sei mesi, un anno, a sudare. A mietere, a raccogliere i pomodori, ad asfaltare le strade. In officina e in fabbrica (ci sono ancora le fabbriche? sì tesoro, ci sono ancora, sono rumorose e sporchine e quando esci pare ti facciano male le gambe e le mani, ci sono ancora, sì).
Perché?
Perché ritengo vada considerevolmente ridotta la quantità di gente grande a grossa che dorme dalle undici alle otto e si lamenta che si alza presto, di gente che guaisce nevrotica "insomma, ho lavorato tutto il giorno!" quando il lavorìo consisteva nello star seduti a pastrugnare su una tastiera, a giocherellare con word e power point appoggiati al piano levigato di un tavolo laminato frassino.
Diventi grassottello e pallido e bisinfio, poi. Non ti fa neanche bene. Ti vien la cellulite sulle cosce se le tieni troppo ferme, sai, inguainate in collant e tacchi incollati a una seggiolina.
Otto mesi di cantiere e mi ritorni un fiore. E vedrai come mi dormi bene la sera, invece di tremare tutto mentre butti giù una pastiglia davanti al televisore "Sono stanco ma non ho sonno, non so, son teso, sono agitata, ho l'insonnia, forse sarò depressa".
Un anno di macchina utensile, di servizio ai tavoli, di scale da lavare, di padelle, di tetti, di siepi, di asfalto, di mattoni.
E poi davvero l'happy hour ti parrà un'ora felice.

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martedì, 06 marzo 2007

(Quanto segue era nato come risposta, ovviamente troppo lunga, ad un commento del post precedente, di cui cito solo la frase iniziale: "e se lo sconsiderato gesto fosse reazione ad una insostenibile tensione, dovuta all'ingestibilità della classe?")

Beh, parlare di ingestibilità di una quindicina di bambini di sette anni mi pare davvero eccessivo. Se a qualcheduno la gestione di un gruppetto di marmocchi risulta insostenibile non credo dovrebbe mettere tra le sue ipotesi professionali l'insegnamento.
Ho insegnato e insegno a ragazzi ben più grandi, e mi è capitato di dovermi confrontare anche con faccende più preoccupanti di uno scolaretto rumoroso (ho avuto studenti abituati a dar fuoco ai barattoli di colla sui davanzali dell'aula, ho visto portare in classe e poggiare ostentatamente sul banco una pistola - che tuttora non so se fosse vera o finta, carica o meno -, ho raccolto confidenze di ragazzette che temevano di essere incinte e si auguravano che il padre fosse il compagno di scuola e non un parente prossimo, e via discorrendo).
Però, ripeto, nessuno obbliga nessuno a doversi rapportare con bambini o adolescenti più o meno intrattabili: si può fare la commessa, l'impiegato, la ricamatrice, l'illustratore, l'estetista.
Non nego nessuna, nessunissima delle carenze, inadeguatezze o assurdità del nostro sistema scolastico, anzi. Però diciamo la verità: la maggioranza (va bene, va bene, non la maggioranza, diciamo una larga parte) di chi si mette a insegnare lo fa senza la minima vocazione o talento pedagogico, didattico o educativo ma semplicemente perché a) non ha trovato di meglio; b) trova molto comodo guadagnare un migliaio di euro al mese, come minimo, per lavorare diciotto ore la settimana c) trova altrettanto comodo un lavoro dei cui risultati non è tenuto a render conto a nessuno e che può svolgere - o non svolgere - con le modalità che ritiene più opportune, dietro la porta chiusa di un’aula.
Conosco a memoria i vari “Ah, ma non son diciotto ore: c’è la programmazione, ci sono le ore di presenza, ci sono i compiti da correggere….” e posso ammettere che per taluni - anche molti - sia così. Ma i colleghi che ho avuto si sono – quasi tutti, quasi sempre - mostrati esilarati dal fatto che io ritenessi che nelle ore di presenza di norma si dovesse essere presenti, o che le riunioni per la programmazione oltre a scriverle su un foglio si potesse anche provare a farle.
I bravi insegnanti ci sono, così come ci sono i bravi genitori, i bravi presidi, le brave bidelle (e i bravi ragazzini, anche: qualcuno ce n’è che non ha in mente né di violentare né di squartare la maestra).
Però ci sono anche torme di sciurette - l’Italia è l’unico paese dove l’ottantuno, dicasi ottanuno per cento degli insegnanti è donna, a fronte del fatto che rispetto ad altre nazioni sono relativamente poche le donne che lavorano: son tutte lì, a scuola - brave matrone di mezz’età (risulta giustappunto che siamo anche l’unico paese dove la stragrande maggioranza degli insegnanti veleggia sulla cinquantina) che non sapendo neanche bene come si usa un cellulare si trovano comprensibilmente in difficoltà dovendo proibire di usarlo in classe. Ci sono anche un numero spaventoso di insegnanti che ripetono da trent’anni la stessa lezione (le statistiche relative al numero di libri letti dagli insegnanti italiani fanno rabbrividire) e ritengono, nel terzo millennio, che Il giovane Holden sia “forse un po’ troppo moderno per ragazzi di quest’età….” O che Blade Runner sia “un po’ difficilino per dei quattordicenni… anche un po’ crudo, forse…”.
E ho frequentato un numero sufficiente di consigli di classe, collegi dei docenti e consigli d’Istituto per essermi fatta un’idea della composizione media del corpo insegnante: un’idea certo non statisticamente rilevante, ma empiricamente, percettivamente, piuttosto verosimile.
Anche per questo inizierei a essere un po’ stufa di tutta questa marea di insegnanti che frigna di esser sottopagata - il che non mi pare poi così vero, tutto considerato – che piagnucola sulla scarsa considerazione del fondamentale ruolo svolto nella società (e mi chiedo: se fino a qualche decennio fa “la Signora Maestra” o “il Professore” erano rispettati tanto da essere tra i notabili del paese, pur avendo magari venticinque anni e non guadagnando certo cifre da nababbi, ci sarà pure un motivo perché non sia più così), che si lagna ininterrottamente dei programmi e dell’organizzazione del sistema scolastico.
Perché il “sistema scolastico” alla fin fine è da loro che è costituito. Che si diano da fare per cambiarlo se lo trovano tanto inadeguato.
Le autonomie dei singoli istituti sono molto ampie ora, così come le autonomie di programmazione dei singoli insegnanti: che l’adoperino, questa ampiezza. Che facciano la scuola ideale che tutti hanno tanto bene in mente: cosa glielo impedisce? I soldi? Non mi risulta che Don Milani o la Maria Montessori avessero budget miliardari, e non mi par di ricordare che il professor Keating de “L’attimo fuggente” avesse bisogno di materiali costosi per far scuola ai suoi studenti. 
Quando non vedrò più il fuggi fuggi al momento di stabilire chi vuol seguire una qualunque attività integrativa o accompagnare i ragazzi in gita - “Una faticaccia, una responsabilità… e poi il museo egizio l’ho già visto sei volte” “Beh, allora portiamoli al museo del cinema” “Ma figurarsi, e cosa gli raccontiamo del cinema? E mica è nel programma: io non ne so niente. E poi chissà che confusione fanno in un posto così. Facile anche che si faccian male: sai che responsabilità?” - o addirittura in giardino, alle elementari “Ma perché non uscite mai in giardino?” “La maestra ha detto che poi sudiamo e i genitori si lamentano e lei non vuole responsabilità. E poi se ci facciamo male la responsabilità è sua” “Quindi l’intervallo in classe?” “Sì: anche nei corridoi non si può, che poi corriamo e se qualcuno si fa male, guai, la responsabilità è loro.” *
Quando vedrò uno sciopero degli insegnanti proclamato per rivendicare istanze didattiche, strutturali, culturali, quando li vedrò gridare compatti per pretendere una scuola migliore e non per cinquanta euro in più con il posto fisso a tutti garantito allora forse mi parrà meno ridicolo parlare di frustrazione di alti ideali formativi.

*Sarei anche, in generale, molto stufa di questo non aver mai, nessuno, la responsabilità diretta e precisa di niente: quando si prova ad attribuirla a qualcuno immediatamente costui spalanca le braccia per mostrare le piaghe della crocifissione e strilla che si vuole “scaricare” la responsabilità su di lui. L’ipotesi che quella responsabilità in qualche momento se la sia assunta, che sia di fatto sua per il ruolo che ha o i compiti che svolge non è contemplata.
La vecchia e sana piramide gerarchica in cui più stavi in alto più responsabilità avevi è diventata uno scivolo: la colpa è sempre di chi sta più basso. L’industria va maluccio? Sarà colpa degli operai. La scuola è uno schifo? Colpa di quei maledetti scolaretti.

P.S. del 7 marzo. È sui giornali di oggi che un bimbo di quattro anni - quattro - è stato espulso dalla scuola materna perché troppo violento. Il quotidiano dice testualmente "le sue vittime, due maestre...". Chissà, chissà come sarà atterrito quel bambino scoprendo che gli adulti sono spaventati da lui. Chissà come si sentirà indifeso dai pericoli del mondo scoprendo che i grandi sono incapaci di difendersi da uno piccolo come lui.

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venerdì, 02 marzo 2007

- Mamma, quando arriva il lupo a mangiarmi?
- Ma cosa ti viene in mente, Luigino?
- La nonna ha detto che se non faccio il bravo viene il lupo e mi mangia.
- Ma non faceva sul serio, sono cose che si dicono per dire, sciocchino…
- Sì, sì. Dicevi così anche quando la maestra ha detto che se non stavo zitto mi tagliava la lingua.

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giovedì, 01 marzo 2007


Non è che gli alieni non arrivino. È che scappano subito.

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Febbraio 2007


mercoledì, 14 febbraio 2007

Allora mettiamolo in prigione, Tom Sawyer. E della cella di Huckleberry Finn meglio addirittura buttare la chiave. Rinchiudiamo Giamburrasca, sbattiamo in riformatorio Cosimo Piovasco di Rondò e in isolamento i ragazzi della via Pal, tutti, compreso l'unico soldato semplice Nemecsek.
Lasciamo Pinocchio impiccato alla quercia grande, che se lo merita.
Fuciliamo Franti, il peggiore di tutti, il re dei bulli.

Ho fatto un intervento molto sgradito l'altra sera in Consiglio d'Istituto, in seguito alla proposta di un genitore che promuoveva per le prime classi elementari una serie di incontri con degli psicologi per affrontare il fenomeno del bullismo, istanza accolta con generali cenni di assenso e ribadita da una genitrice che sottolineava, orrificata, di aver assistito personalmente alla raccapricciante scena di due bimbetti che dicevano a un paio d'altri "tu sei mio amico, tu no." sottolineando le parole col gesto del pollice diritto e del pollice verso. "Una cosa di una tale violenza psicologica che io, io mi domando e dico, che effetto potrà fare sulla personalità di un bambino, diomio!".
Il mio intervento, che ha raggelato l'uditorio, esprimeva semplicemente la considerazione che a mio personalissimo parere il fenomeno del bullismo non esiste, se non come l'ennesima mediatica falsa emergenza la cui sproporzionata eco è dovuta probabilmente a una mole impressionante di sensi di colpa di genitori che si sentono - e forse sono - inadeguati alla bisogna.
Ma riconoscevo che questa poteva benissimo essere una mia opinione, legittima tanto quanto quella di considerare che il prossimo scontro di civiltà, passata la foga di quello coi musulmani, sarà quello coi ragazzetti.
Quello che mi premeva rilevare invece, e che ho perlappunto rilevato, è che ritenevo che l'insegnare a un bambino a) che non si deve essere prepotenti e b) che non si devono subire le prepotenze, siano due delle non più di tre o quattro cose che stanno alla base di ogni processo educativo, di ogni tentativo di avviamento al convivere civile.
Che, in altre parole, non può che essere implicito e scontato che vengano trasmesse. E che pertanto se io avessi sentito il bisogno che venisse uno psicologo per dirmi che i figli oltre che vestirli bisogna anche educarli mi sarei sentita una cretina.
Precisamente come mi sarei sentita molto a disagio se fossi stata un'insegnante e qualcuno mi avesse dovuto dare la sconcertante notizia che se oltre a scrivere le addizioni sulla lavagna non sei capace di far capire a un gruppo di ragazzini che non accetterai che ribaltino i banchi probabilmente non era l'insegnante il mestiere che dovevi fare.
Ritenere che sia insopportabilmente violento dire a un compagnuccio "tu non sei mio amico" mi fa venire i brividi. Ma ancora più mi preoccupa che sia dato per scontato che il bimbetto in questione ne rimanga segnato per tutta la vita.

Stiamo allevando una generazione di vittime.
Perché il problema del cosiddetto bullismo, il problema vero, non è che un prepotentello ti dia uno spintone. Il problema è che tu a quello spintone non reagisci: ti accoccoli, piangi, e alla successiva occasione ti lasci spingere ancora più forte, e ancora di più. Perché tu, poverino, sei buono e gentile, sei una piccola vittima, tu.
E succede che ora fin dalla scuola materna uno si senta obbligato a dover scegliere, e sia una scelta univoca, un destino: o vittima o carnefice.
Che l'alternativa alla prepotenza sia e possa essere solo l'acquiescenza mi esaspera. Se c'è una cosa che ritengo valga la pena insegnare, fosse anche solo quella, è che non si è mai prepotenti con nessuno e che non si accettano senza reagire le prepotenze di nessuno, mai, se non in pericolo di vita.
La mia linea è sempre stata: Parlaci, mettiti d'accordo. Se non puoi metterti d'accordo gira al largo. Se non puoi metterti d'accordo né girare al largo, se ti mettono nell'angolo, picchia. Forte.
Non penso che il far finta che non esistano - giacché esistono da milioni d'anni - l'aggressività, il controllo del territorio, il bisogno di stabilire delle dominanze e delle gerarchie, le invidie, le gelosie, la voglia di fare i dispetti, possa funzionare.
Non penso che il far finta che esista un mondo dove non avresti voglia che quella maestra odiosa finisca sotto un camion, dove quel tuo compagno non ti stia antipaticissimo, dove a quella bambina quelle treccine gliele strapperesti, dove non avresti mai voglia di fare uno scherzo a quel ragazzino e farlo strillare, dove non ti verrebbe mai l'irresistibile impulso di fare un dispetto a tua sorella, il far finta che quel mondo sia questo, e che la civiltà non consista nel regolare i propri impulsi ma nel non averne e se li hai sei un reietto, un mostro, un bullo, ecco, non penso sia proficuo.

Penso che si debba insegnare la differenza.
La differenza tra aver voglia di tirare un sasso e il farlo. E la differenza tra il tirarlo per giocare o per far male. E la differenza tra il tirarlo per essere cattivi o per difendersi (perché allora David, quel bulletto, sempre in giro a tirar sassi con 'sta fionda).
Perché se non si chiariscono le differenze, se si mette tutto insieme, se tra il mandare un mazzo di rose con un bigliettino malizioso alla compagna e lo stuprarla non si fa differenza e si chiama la polizia comunque, se si grida al lupo troppo, e troppo spesso, e sempre, poi finisce che i lupi veri non li si distingue più.
E nemmeno loro lo sanno più, questi poveri lupetti, che se tirano i codini alla compagna di banco o portano via il secchiello all'infante dell'ombrellone vicino finiscono sui giornali, e arrivan le volanti. A quel punto, delinquente per delinquente, tanto vale spaccarglielo sulla testa quel cazzo di secchiello.

Che poi si parla tanto, con tanti grassetti e corsivi, del branco, laddove se c'è entità facile da gestire è un branco: basta diventare il capobranco. E forse il problema è proprio quello, che chi non è capace di fare il capobranco pensa che la soluzione più comoda sia sterminare i cagnolini (Oh, Capitano, mio Capitano!).
Piuttosto, allora lasciamoli stare, non facciamoci i fatti loro se non abbiamo la capacità, il tempo o la voglia di conoscerli, ma bene, fino in fondo. 
Se non sappiamo un accidente del loro mondo lasciamo che quello se lo organizzino loro. Perché se la cavano benissimo da soli: a fare a botte nei cortili, a stabilire le loro regole e decidere chi comanda e a piangere di frustrazione, anche, finchè non gli vien voglia di prendere a calci chi li fa arrabbiare (e se le prendo chissenefrega: non conta chi vince, conta quel che ci siamo detti: "Tu: sarai una vittima, tu?" "No, testone di cazzo, le prenderò anche ma una vittima tua, pirlone, te lo sogni"). 
E tu, vittima predestinata, in quale mondo di stucchevoli favole di trenini giocondi sei cresciuta, per non sapere che questo è un posto pieno di insidie e che se ti imbamboli a pensare quanto sei poverina faranno in tempo a farti a pezzi o quantomeno a riprenderti col cellulare?
Non ti ha mai detto nessuno che non solo perché qualcuno è un po' più grande e aggressivo e forte debba per forza vincere sempre?
Perché allora, sai, Pollicino e Hansel e Gretel e il Gatto con gli stivali e la moglie di Barbablù avrebbero dovuto dire Oh cazzo, quanto è grande e forte questo orco, questa strega: tocca che mi metto qui tranquillo e mi faccio mangiare.
Mi sa che ti han raccontato le favole sbagliate.

Lasciateli in pace, lasciate in pace Tom Sawyer e Pinocchio e Pippi Calzelunghe: sono un po' discoli, fanno a botte, bigiano la scuola e fanno gli sberleffi, fanno i brighella, sì. Poi trovano qualcuno più grande di loro, più cattivo, e in qualche maniera se la cavano.
Né carnefici né vittime, mai. E che sappiano riconoscere Shere Khan. E si guardino, si guardino dalla guazza, e dagli assassini.

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giovedì, 08 febbraio 2007

Però, pensavo: se a una fa tristezza star da sola vuol dire che considera la propria compagnia quella di una persona ben triste.

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lunedì 5 dicembre 2011

Gennaio 2007

mercoledì, 31 gennaio 2007

Si pregano i signori condomini di pulirsi il sangue dalle scarpe prima di utilizzare l'ascensore.

Italiani brava gente.
Gente per bene, che non ruba, che non si droga.
Che parla poco e dice poche parolacce, che si veste come si deve, che tiene bel pulito.
Gente che sta nel suo, che va a letto presto e fuma poco, lavoratori, gente che il biglietto del tram lo paga.
Tutta gente onesta, cattolica, battezzata e cresimata, sposata nel modo giusto, in chiesa.
Mica come quei senza dio che manipolano gli embrioni. Loro i bambini preferiscono manipolarli a coltellate quando son già nati, che dà più soddisfazione.
Mica come quei delinquenti dei pacs, che distruggono la famiglia. Loro le famiglie le fanno a pezzi a sprangate, che si fa prima.
Brave persone che fan poco rumore, bravi giovanotti mansueti e un po' torpidi che portano gli zii a fare una gita in macchina, a pezzi nel baule.
Brave mammine casalinghe perfette con la frangetta lustra, che mettono le pattine e lavano col vim il martello con cui hanno rotto il crapino di quel discolo del figlioletto.
Brave ragazzine belline che col fidanzatino non perdono tempo a limonare perché hanno da affilare le lame per scannare mamma e fratellino.
Bravi e robusti operai che quando han bisogno di soldi invece di cercare un finanziamento in banca cercano un bebè da rapire e però siccome coi bambini proprio non ci san fare per farlo smettere di piangere non gli sovviene altro che prenderlo a badilate.
Non so voi, ma io preferisco i lupi, di cui ho ben presente dove e come sono gli artigli e i denti, a questi cupi agnelli da appartamento con la mannaia nel sacchetto dell'Esselunga.
Preferisco qualunque lupo a questi pecorelloni mansueti e sanguinari, a queste agnelline con gli occhi di ardesia gelata.
Da un sondaggio recente risulta che tra le paure della gente ai primissimi posti figurano i terroristi, gli stranieri, gli zingari. Mammamia gli zingari. Rubano i portafogli, aiuto. Rubano i bambini.
Non so voi, ma se io fossi un bambino preferirei - molto - essere rubato dagli zingari piuttosto che macellato dalla dirimpettaia.


E non mi interessa qui, ora, il fatto di cronaca in sè, o la psicopatologia criminale, o il perchè e il percome.
Ma il fatto che forse abbiamo un po' perso il controllo di ciò di cui è adeguato aver paura.
Dal rapporto Eures-Ansa 2006 si evince che due omicidi su tre sono in ambito familiare: molti molti di più di quelli causati dalla criminalità comune.
Eppure abbiamo paura dei delinquenti e non dei parenti.
E su 600 morti o giù di lì un terzo sono stranieri, rumeni, marocchini e albanesi ai primi posti: per gli stranieri il rischio di morte è 7 volte superiore rispetto a chi è di nazionalità italiana.
Eppure abbiamo paura degli extracomunitari, quando sarebbero piuttosto loro a dover essere terrorizzati.
Negli ultimi anni in Italia ci sono stati zero morti per terrorismo e una media di 5.000 morti all’anno per incidenti stradali. Eppure abbiamo paura dei terroristi e non degli automobilisti.
Si sono verificati in Italia zero casi di contagio da aviaria e grosso modo 12.000 casi di salmonellosi all’anno.
Eppure abbiamo paura dei cigni e non delle cozze.
Abbiamo un folle terrore di essere rapinati e ci incamminiamo in ciabattine sulle vette (una ventina di morti all’anno in montagna e 25/30.000 incidenti sugli sci).
Attrezziamo tecnologici e costosissimi presepi di antifurti affinchè nessuno penetri nella villetta costruita nel letto del fiume, ai piedi della frana, sulle pendici del vulcano.
Teniamo la pistola e l'archibugio carichi per difenderci dall'eventuale furto di una catenina, li teniamo proprio lì sul comodino di fianco all'orsacchiotto del bambino, che così è comodo a giocare con tutti e due, guarda com'è carino quando fa bum bum.

È pericoloso avere paura, perché si diventa pericolosi.
È molto pericoloso avere paura, perché si diventa stupidi.
Ma ancora più pericoloso è avere paura delle cose sbagliate.

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mercoledì, 24 gennaio 2007

(Interno sera. Il tredicenne vortica per la cucina, ha una manciata di biscotti in mano che alterna al formaggio rubato dal tagliere, tra i piedi fa saltellare una pallina blu.)

- Per cortesia, riesci a ballonzolare un po’ più in là, che mi intralci? O almeno a non far andare dappertutto sta pallina?
- No. Sono allegro.
- Vedo.
- Sì. Stasera mi sento molto smilzo e vispo.
- Ah, bene. Come mai? Spostati che devo aprire qui.
- Non so. Ho pensato delle cose. Penso un sacco di cose ultimamente.
- Beh capita, diventando grandi, di pensare un po’ di più. Oddio, non a tutti capita, in effetti. Che genere di cose?
- Mah, cose. Tipo pensieri di filosofia.
- Addirittura. Basta spizzicare formaggio, che poi non ce n’è più per i pizzoccheri.
- Sì. Solo un pezzetto. Tipo, avevo fatto un pensiero sullo spazio, però non me lo ricordo tanto bene, dovrò ripensarci.
- Ho detto basta.
- Sì. Solo uno. Invece ne ho fatto uno proprio bello sul tempo.
- Cioè?
- Tipo, sai quando parlavamo del tempo e tu dicevi che è relativo e tutte quelle cose lì, ti ricordi? E dicevi che tipo quando uno fa una cosa noiosa come non so, le ore della Galli, il tempo gli pare lunghissimo e invece quando fa qualcosa che gli piace gli sembra che passi in frettissima, ti ricordi?
- Sì. E?
- Ecco, ho pensato che non è che sembra. Passa davvero più in fretta.
- Sarebbe a dire? Attento alla padella, che scotta molto.
- Sarebbe tipo che la vita è lunga uguale per tutti, lo stesso tempo preciso.
- Mh.
- Sì. Solo che quando sei felice il tempo passa più veloce, quando sei scontento più adagio. Quindi poi uno vive di più o di meno a seconda della sua contentezza: a seconda di quanto in fretta gli è passato il tempo.
- Ah. Un po’ come se il tempo che uno ha fosse dentro una bottiglia, una bottiglia di capacità uguale per tutti, e quando sei triste cola goccia a goccia e quando sei felice scorre a getto?
- Ecco. Proprio proprio così. Brava. Bravissima.
- E quindi chi è molto spesso contento consuma il suo tempo più in fretta?
- Mica “consuma”. Lo usa forte. Quando esce dalla bottiglia forte ne esce di più, eh.
- Eh già. Una teoria interessante.
- Non interessante. Bellissima. È bellissima.
- Ci dovrò pensare. Ma quindi, stando così le cose, tu preferiresti una vita breve ma piena di contentezza o una tristanzuola ma molto più lunga?
- Una molto più corta ma molto piena di cose felici. Ovvio.

Ovvio.

(La luce della lampada, colpita di striscio dalla pallina, ondeggia piano. Il ragazzetto disegna sulla lavagna un pisellone, poi lo cancella e mette in bocca i biscotti, tutti insieme. La ragazzetta sdraiata sul tappeto cincischia col libro di storia e si produce in una versione a bocca chiusa di una canzone non identificata. Dallo stereo la colonna sonora è “One”, degli U2, nella versione dei Cowboy Junkies. Il dialogo è riportato parola per parola.)

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domenica, 20 gennaio 2007

Sia chiaro, a me che quel qualcuno di cui parlavo ieri assuma giornalmente una quantità di principi attivi bastante a mantenere in attivo il bilancio di una casa farmaceutica non dà nessun fastidio.
Sono fermamente del parere che finché non reca danno ad altri ognuno di sé stesso possa fare ciò che più gli aggrada, che sia travestirsi da maialino rosa e farsi frustare da una comare baffuta o bersi due bicchieroni di gin a colazione ogni mattina.

Che trovo rilevanti sono due aspetti. Il primo e più evidente è che costoro siano graniticamente convinti di condurre vite sane e pulite e che i drogati siano gli altri (con tutto il seguito di giudizi morali e sopracciglia alzate che ne viene).
Vale a dire che a mio parere, riguardo al concetto di doping e di droga c’è un problema di percezione parecchio falsata (in molti casi strumentalmente falsata: nessuna casa farmaceutica ha probabilmente voglia di recitare in coda allo spot “È una droga, dà dipendenza, assuefazione e pesanti effetti collaterali soprattutto dopo uso prolungato”).

Il secondo è che bisogna forse fare delle riflessioni sulla reale diffusione di tali pratiche.
Conosco una gran quantità di ragazzotte salutiste rigorosamente non fumatrici, astemie, che non bevono caffè (alcune di loro anche vegetariane) che hanno sempre nella borsetta una confezione di aulin alla quale attingono più volte al giorno. In genere queste sono quelle a cui piace la melatonina (però no, la pillola no, sai non mi va di prendere ormoni).
Conosco frotte di brave mammine che propinano ai loro bambini anche appena svezzati - alcune saltuariamente, molte con serena continuità - allegre porzioni di psicofarmaci. Così dorme meglio. Era un po' agitato. Il medico mi ha detto che aiuta a rilassarla.
Apprendo che in Italia si consumano ogni anno sei milioni di dosi di viagra: e in larghissima misura sono uomini nel fiore degli anni ad assumerle.
Si legge che ammonta a seicento milioni di euro il mercato italiano dei farmaci illegali e sottobanco, e risulta che sia solo una minima parte quella che va agli sportivi professionisti, la fetta più larga se la prendono le palestre e gli sportivi amatoriali (i ciclisti della domenica quindi, i giovanotti palestrati che li vedi e scoppiano di salute, quelli che quando li guardi ti vien da dire santocielo dovrei mettermi anch'io a fare un po' di sport, faccio una vita malsana, vedi come sono in forma loro).
Qualche tempo fa una bella inchiesta riportava che moltissimi muratori - e quasi tutti i cottimisti - si fanno e strafanno per riuscire a fare per dieci, undici ore al giorno un lavoro massacrante. I muscolosi e abbronzati bergamaschi e bresciani che rilucono sui tetti come bronzi di riace - gente sana, lavoratori - traboccano di cocaina, altro che lapo.
Un amico che ha lavorato per molti anni in fabbrica mi garantisce che negli spogliatoi dei turnisti gira con sbalorditiva abbondanza ogni genere di sostanza pesantemente psicotropa (all'inizio del turno per star svegli e rendere, alla fine del turno per riuscire a dormire che, cazzo, è mezzogiorno e stasera sono di nuovo qui).

Ora, io non ho nessun particolare pregiudizio contro il doping.
Il "prendere qualcosa" che migliori la prestazione quale che sia, che faccia sentire meno la fatica, che faccia stare meglio di mente e di corpo, che renda vispi o faccia dormire bene è cosa che dagli albori dell'umanità si è sempre fatta. Che quello che si mastica o si fuma, si beve, si inietta sia una foglia o una pastiglia mi sembra faccia ben poca differenza.
Il fatto che sia un'abitudine inveteratamente umana, e da millenaria pezza, quanto meno dimostra che è un po' ridicolo spalancare gli occhioni e parlare di "piaga". Se tale è, lo è ormai da tanto tempo che ci abbiamo fatto il callo e non sarà probabilmente per questo che ci estingueremo.
E altrettanto buffo mi sembra mettersi a farne questioni di morale farmacologica: il fatto che io ami più il single malt o il barbaresco rispetto all'ecstasy non mi fa minimamente sentire su un livello etico più elevato. E che ti faccia star meglio un antiinfiammatorio di un anabolizzante, il trovar più gusto in un integratore piuttosto che in una marlboro rossa la ritengo questione di gusti, non di accesso al regno dei giusti.
Ci droghiamo tutti, via. Chi più, chi meno.
Persino quando cammini veloce in salita per due ore e arrivi alla meta sguazzando nelle endorfine lo fai anche anche perchè ti piace - e molto - quel flusso chimico che ti inonda tutto.
E l’abbiamo sempre fatto, oltretutto. Nella nostra adolescenza di genere umano giocherellando con fiori e fogli e funghi, nella nostra adolescenza personale pasticciando con quel che passava il convento di quei tempi (vino e sigarette rubate per i nonni e le nonne, spinelli o quant'altro per noi )
Del resto siamo cresciuti con Braccio di Ferro, fulgido esempio di come un doping puntuale ed efficace dia risultanti di grande soddisfazione.

Però, però a me piace fare distinzioni e differenze. Mi piace ravanare per trovare le linee di confine.
E mi dico, posto che non ci sia problema morale nell’aggiungere qualche molecola qua e là (altrimenti ci sarebbe anche per il moment, per la birretta, per la camomilla), posto che del suo corpo e della sua salute ognuno possa disporre come crede, dove stanno i confini?
Ecco, non è facile.

Uno è forse quello che potremmo dire distingua il doping dalla droga, vale a dire la linea che corre tra quanto assumi per migliorare una prestazione e quanto assumi perché ti fa stare bene.
La differenza principale tra le due probabilmente sta nel fatto che l’una ti aiuta ad essere più presente e più efficacemente immerso nel mondo, l’altra ti aiuta a sganciarti dal mondo stesso, a sollevarti in qualche modo dai suoi gravami. Scegli di fatto tra l’essere più presente o più assente.
La prima opzione ha le sue ragioni in quanto è una scelta in qualche modo razionale, la seconda le ha in quanto emotiva.
Il rischio della prima, penso, è di sopravvalutare l'importanza della prestazione. Che forse non avrebbe avuto bisogno di ausili esterni, o forse non era così importante in assoluto.
Il rischio della seconda è di delegare a qualcosa d'altro il tuo stato emotivo, di subappaltarlo. Di perdere il contatto con quello che davvero senti, impanato, fritto e ricoperto dalla salsa vischiosa di una molecola esterna che ne cambia il sapore.

Il secondo confine – forse, chi lo sa - sta tra il piacere e il bisogno.
Se mi piace bere un bicchier di vino prima di dormire, se mi fa dormire un bel sonno ogni tanto una pastiglia, se mi diverte prendere un viagra e giocare per una sera allo stallone, se mi rilassa dal pensiero degli esami e i soldi e gli scazzi coi miei farmi una canna, se il mal di stomaco per una vita che tutto sommato mi schifa giusto per un pomeriggio voglio farmelo passare, se ho voglia di fare il troppo figo in discoteca ballando una notte senza stancarmi mai, se ci tengo tanto ma davvero tanto a vincere quella gara che sono mesi che mi alleno e non penso ad altro, forse va bene. Non lo so, ma forse.
Se non riesco però più a far l'amore senza una pastiglia, se sto tutta la notte ad occhi spalancati se non mi son dato un aiutino, se non riesco a ridere con gli amici a meno che non sia ubriaco, se non riesco a non tremare dallo stress, a non farmi venire la diarrea, a sopportare mio marito, ad alzarmi per andare a lavorare, a reggere il ritmo, a superare la paura, a sopportare l'ansia, a farmi passare il mal di stomaco e di testa, se non riesco a venire a patti con me e con la mia vita senza aprire un flacone, un'armadietto, una scatola, una bottiglia, forse, forse è allora che non va.

Ma non lo so, ipotizzo.

E forse l’arrivare a stabilire in generale qual è il confine tra il piacere e il bisogno, tra il desiderio e la necessità, tra la gioia di sentire qualcosa e la sensazione di non poterne fare a meno, è una di quelle cose che quando la troviamo allora sì, che c'è da brindare.

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sabato,19 gennaio 2007

Appena sveglio un bel caffè, lo dolcifico con l’aspartame perché mi piace stare in forma. Intanto si scioglie nel bicchiere la compressa di multimineralimultivitamine, col suo bel colore arancio acceso. Oggi è lunedì quindi niente pastiglia per regolare l’intestino (con tutto quell’aspartame almeno un giorno sì e uno no va presa, se vuoi star bene).
Mi è parso di avere come un accenno di tosse perciò a metà mattina devo ricordarmi che ho deciso di partire con l’antibiotico, giusto per prevenire tutta questa influenza che c’è in giro. A pranzo un’insalata per star leggero, tanto a darmi l’energia per il pomeriggio bastano il guaranà e il ginseng (ne prendo il doppio di quello che sta scritto sulla confezione, così vado sicuro).
Col quarto caffè, mi piglio anche un paio di moment: le riunioni mi fan sempre venire il mal di testa, preferisco tenermi pronto. Il quinto lo bevo poi prima di uscire per la palestra, insieme a un aulin, perché la riunione è stata parecchio tesa e mi ha fatto salire un po’ di mal di stomaco. E invece devo essere in forma, che il trainer giusto oggi mi fa provare questo preparato nuovo, di importazione, che pare sia una bomba. Per i muscoli tonici, sai. Che a quelli ci tengo, devi vedermi in discoteca poi: con quattro redbull non mi ferma più nessuno. E combino sempre, altrochè. Del resto son cavaliere e le tratto bene le donne: due viagra e le faccio felici. Non che abbia mai avuto problemi, eh, ma non si sa mai, meglio prevenire. Stasera no però: giusto un’aperitivo in centro, ai soliti tre negroni con gli amici non rinuncio. Poi a letto presto, mi piglio anche la mia bella melatonina che fa dormire e fa bene.
Non fumo ci mancherebbe: mi piace la vita sana, mi piace stare in forma (che vado in palestra l’ho già detto?). Mica come quei ragazzini che si fanno gli spinelli. Altro che liberalizzare, tutti in galera li dovrebbero sbattere. Drogati.

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domenica 4 dicembre 2011

Dicembre 2006


venerdì, 15 dicembre 2006

È impellente che venga fatta (se già non c'è, va a sapere) una storia sociale dell'ingiuria.
A quanto mi risulta alcuni insulti si sono improvvisamente estinti e considerando per quanti secoli sono stati offese sanguinose, da lavare col sangue, c'è di che rimaner stupefatti.
Fino a quando ero io ragazzetta, ad esempio, l'appellativo di "vigliacco" era un affronto insostenibile: non puoi, non puoi dirlo senza conseguenze, le peggiori che io - monello o cavaliere, ussaro o malavitoso, cowboy, principe o cosacco - riesca a infliggerti.
Ora è scomparso, come il vaso da notte, come il dodo.
Da quanto tempo non sentite dire a qualcuno "Sei un vigliacco!" (un vile, un fellone)? 
Per un sacco di tempo poveri e ricchi, acculturati e incolti, placidi e iracondi potevano accettare, se le circostanze lo indicavano prudente, quasi ogni genere di insulto, dal cornuto al lazzarone, dallo sfrontato alla troia, dall'incapace allo stolto, al ladro, al peccatore, all'inetto, al vizioso, al maramaldo, ma perdevano il lume degli occhi e della ragione se gli si dava del vile.
Quanti convegni all'alba hanno visto i conventi delle carmelitane, quanti "ripetilo se hai il coraggio" con un sasso in mano e la furia negli occhi hanno ospitato i cortili, quante lame sguainate i tavoli di osteria, a quante furie improvvise di pugni e calci nella polvere hanno assistito vicoli e piazze: e colpi di pistola e ciocche di capelli ai lavatoi.
Adesso niente, la vigliaccheria è scomparsa: nessuno più in fabbrica o in ufficio, al campetto o per strada dice a nessun altro che è un vigliacco.
Gli dice coglione, testadicazzo, sfigato, e una serie assortita di altre cose. Che hanno in comune, più o meno volgari che siano, il fatto di essere in qualche modo attributi della persona, cose che uno "è", non che uno "fa".
Coglioni, per intenderci, si nasce, vigliacchi si diventa.
L'ingiuria del terzo millennio colpisce un modo di essere, non un comportamento. E questo mi preoccupa, un po'.
E non solo questo. Perchè la vigliaccheria è un comportamento orrendo, il peggiore forse (o perlomeno così per una gran quantità di tempo è stato considerato: meglio malvagi che vigliacchi, meglio ladri, briganti, malversatori, predoni che vigliacchi, meglio violenti, rissosi, assassini che vigliacchi) e il primo problema è che non è scomparso affatto.


La viltà e la fellonia sono più che mai presenti ed eclatanti. Hanno solo smesso di essere considerate un problema. Se io oggi dicessi a qualcuno che è un vile invece di volermi uccidere si metterebbe a ridere. E questo mi sconvolge.

Il secondo problema è il fatto che le ingiurie stiano pericolosamente sbilanciandosi dall'agire all'essere.
Se dico a qualcuno che è un vile, un fellone, un ribaldo gli faccio carico di un comportamento negativo, di un modo di agire che in altre circostanze e con un po' di buona volontà nulla vieta possa essere corretto. Quanti romanzi, quanti racconti e film abbiamo visto in cui il vigliacchetto, il meschinello del primo capitolo si riscattava alla fine addirittura diventando, nelle versioni più edificanti, un eroe? 
Se gli dico che è una merda o uno sfigato gli attribuisco un modo di essere, invece: quasi un'impronta genetica, un destino.
Posso pensare a come poter fare per non comportarmi più da vigliacco, mi vengono in mente abbastanza facilmente dei modi, delle possibilità, ma uno sfigato? Come accidenti si fa per non essere sfigati? Si tratta di scarpe, di corporatura, di pettinatura, di soldi, di forma delle spalle, colore dei capelli, cilindrata, senso dell'umorismo, taglia di pantaloni, occhiali?
Quante volte abbiamo sentito dire "Può fare quel che vuole ma resterà sempre uno sfigato"?
Il buon vecchio "puttana" aveva possibilità di redenzione, "sfigata" non ne ha quasi nessuna: chiedetelo a qualunque ragazzina che darebbe la mano destra per scegliere, potendo scegliere, il primo insulto piuttosto che il secondo. E avrebbe anche ragione: di comportarmi in una certa maniera posso - volendo - smettere, di essere come sono, diosanto, come faccio?
E dire che sfigato, letteralmente, vuol dire sfortunato, svantaggiato: condizioni alle quali andrebbero rivolti comprensione, appoggio e solidarietà. Ed ecco che invece si è tramutato in ingiuria.
Il fatto che un attributo cessi di essere - o diventi - un insulto andrebbe forse maggiormente considerato: di certe parole andrebbe tutelata la significanza offensiva, certe ingiurie andrebbero accudite e protette come un prezioso patrimonio, innaffiate e concimate.
Io non voglio che la categoria della viltà si estingua, ad esempio. Voglio che la gente si vergogni, di essere vigliacca. Per favore. Ci tengo molto.

(E invece accidenti, vedi: mi accorgo solo adesso dicendolo che in silenzio e senza nemmeno un lamento ci si è estinta, ci è morta di consunzione anche la vergogna.
Da quanto tempo non sentite dire a qualcuno "Vergognati!"?)

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mercoledì, 13 dicembre 2006

A me fa dispiacere se i papi si arrabbiano, se si rattristano. Davvero, mi turba. Anche se vedo angosciati i dalai lama, o i pope, gli imam, i guru, io ci resto male.
Il fatto che io sia atea non mi esime dal dolermi nel vedere chiunque, pontefice o vescovo, gran sacerdote, monaco o predicatore che perde la sua serenità, che si fa sangue amaro. Son cose che non dovrebbero succedere, davvero.
Perciò dico: sistemiamola, 'sta cosa.
È semplicissimo, ci vuol niente.
Tanto per cominciare, non chiamiamola matrimonio. Chiamiamola, che so, Peppuccio.
Peppuccio si occupa di faccende pratiche, di questioni tra le persone e tra quelle e lo stato, robe noiose e prosaiche come le cartelle delle tasse e i subentri nei contratti d'affitto, incombenze necessarie ma anche un po' tetre come le beghe ereditarie e le pensioni di reversibilità, impegni non sempre gradevoli come le visite in carcere o al capezzale di un malato, seccature così: niente di sacro, nulla di mistico.
Brighe di soldi e di contratti, spese condominiali e dichiarazioni dei redditi: questioni da notaio, da ragionere pelato, da commercialista.
Cosa c'entrano i papi in tutto questo? Niente, appunto. Lasciamoli tranquilli che hanno altro di cui occuparsi, hanno da fare apostolato, che qui non c'è più nessuno che crede in niente, cara mia, e ha visto quanta gente c'era a messa l'altro giorno? Quattro vecchiette e settimana prossima facile siano tre, che la Lina l'ho vista proprio male.
Così risolviamola senza dar disturbo a sacerdoti e santi: si combina che un paio di persone (o anche più, perché mettere limiti all'affetto reciproco) a un certo punto vanno in comune e firmano un Peppuccio, dichiarando che hanno deciso liberamente e di comune accordo di mettere in comune un po' di vita - mica detto necessariamente tutta, un Peppuccio oggi c'è e domani chissà, un po' come il lavoro - poi escono tutti contenti e vanno a casa e magari strada facendo si fanno anche un brindisi col prosecchino, perché no.
Ci sono poi alcuni che hanno fedi e credenze, che sono fermi e convinti nella loro professione religiosa e che pertanto si accorderanno con un ministro del loro culto per organizzare un particolare rito, lieto e commovente, che officieranno adeguatamente con una millenaria procedura di promesse e voti, l'unica che legittimamente ritengono adeguata a sancire davanti a dio l'unione di due persone (liberissimi, naturalmente, di chiamarla Matrimonio o Qumkwathkz o Arabella) e che poi, felici e contenti tra baci abbracci e congratulazioni torneranno a casa, con o senza sosta per il prosecchino o per il sacrificio rituale di un vitello e due galline.
Se oltre alle fedi al dito (o a un velo, un braccialetto, un tatuaggio, una tiara, due gocce di sangue, una cordella intrecciata) metteranno nel cassetto della credenza - prima o poi - un Peppuccio è affar loro, mica nostro.
Tutti contenti, tutti a posto con gli affitti e con gli dei, tutti felici.
È così facile. Facciamo uno sforzo, non facciamoli piangere i prelati, dai, che è natale anche per loro.

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Novembre 2006

lunedì, 27 novembre 2006

Le pentole e i piatti, le facce delle persone, le bottiglie che ho imparato a stappare col cavatappi giusto, i bicchieri, i cucchiai di legno, il caldo del ragù e il freddo di sera bagnata della sigaretta fumata fuori, stretta nel grembiule.
Gli ometti della domenica, tre bicchieri di vino rosso e tre caffè, uno amaro perché amaro il caffè e dolci le donne: e ti fa l’occhiolino, ottant’anni e galanti.
I ragazzi e le birre, e le torte delle coppie, sempre una ma poi, oh che bella, ci dia un’altra forchetta per favore. E il profumo della cucina, cosa fai stasera il cous cous, ma qui siam brianzoli, mangiam mica come gli arabetti, mangia che l’è bun, ah, l’è bun de bun.
E l’unto delle padelle rappreso nei piatti e la vampa del forno. E i bicchieri, riempili meno - no, li riempio di più, diosanto come sei avaro - ecazzo, così da una bottiglia ne vengono cinque, ci rimetto, vabbè, quando sono al banco io e nessuno mi vede c’è un centimetro, o anche due, di vino in più. 
C. che ha fatto la lezione di danza e vuol farci vedere la coreografia del fiore, inginocchiati nel viscido della cucina e R. che entra per far la bruschetta, ma che cazzo fate, vapore, ridere ed essere efficientissimi e cretini.
E i sorrisi dei ragazzetti e della signora e del vecchietto che chissà per quale malanno non parla, bisogna leggergli le labbra e il mormorìo, e mi hanno detto stai attenta, che fa anche un po’ in modo di non farsi capire così ti devi avvicinare e lui ti dà un bacio, ma io ho capito che diceva una spuma nera piccola, e poi anche se fosse, un bacio, e vabbè, che vuoi mai che sia.
E l’ora del grog, la più bella, liquore caldo e cannella sul piano di inox appena lavato, e un’altra sigaretta sulla soglia, controluce tra il buio e la nebbia, un brivido non solo di freddo.
Concentrazione fervida e assoluta e sette ore senza sedersi mai e sorrisi in cambio.

Sono alla domenica sera avendo dormito un numero irrisorio di ore, fremente di adrenalina e di stanchezza e sonno, ogni volta incomprensibilmente felice.
Nebbia fittissima fuori, mormorante di suoni felliniani, ci sono cammelli e lama, ci sono davvero: c’è un circo appena qui dietro.
Sonno e un bicchiere di vino e musica bella, l’adrenalina scende adagio gocciolando, la pelle tutta sa, ricorda e canta.

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giovedì, 23 novembre 2006

La tengo per mano per accompagnarla all’allenamento: è già buio, camminiamo sulle foglie gialle. Margherita fa le sue considerazioni.
- Certo che a vivere, tipo, tra mille o duemila anni, ci sono vantaggi e svantaggi.
- Sì, immagino di sì.
- Ad esempio. C’è di bello che ci sono tutte le cose belle “del futuro”. Astronavi, tipo, tutte quelle cose belle lì.
- Ah, sì. Il futuro è per forza bello, giusto?
- Eh certo! È il futuro.
- Giusto. Giusto. E gli svantaggi?
- Beh, c’è lo svantaggio che devi studiare duemila anni di storia in più. Anche se…
- Anche se?
- Anche se non è che avremo - cioè, avranno: io non ci sarò (ride, tutta esilarata) – tanto in più da studiare, secondo me.
- In che senso, scusa?
- Beh, dei tempi di adesso, dico. Non sta succedendo niente.
- Non sta succedendo niente?
- No, di cose di storia, tipo. Non succede niente.
- Ma sì che ne succedono di cose, stellina… Non so, studierete – voglio dire, studieranno (non rido, io) per esempio il crollo dell’impero americano e la nascita delle superpotenze India e Cina…
- Oh, la Cina lo sapevo che era forte, anche l’India è forte?
- Forte, sì. E lo diventerà di più, pare. Poi studieranno, che so, la guerra in Iraq, in Afghanistan…
- Ah, ma la guerra in Iraq, quella c’è sempre stata. E ci sarà sempre.

Dall’alto della montagnola di una decina di anni il paesaggio del tempo è molto diverso davvero.



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mercoledì, 08 novembre 2006

Quando si parla di Carriera (come in alcune ramificazioni dei commenti precedenti) istintivamente mi viene da ritrarmi: un passo indietro di scatto, le mani dietro la schiena, dalla testa ai piedi tutto un moto di negazione.
Poi mi chiedo perché e cerco di farlo freddamente e con ragionevolezza, superando l'immediata ripulsa: un po' come mi sforzo di fare con le barbabietole.
Forse è il termine che già mi piace poco, fatico a dissociarlo dal "di gran". E una cosa - qualunque - fatta "di gran carriera" mi fa pensare a un improvviso scalpicciare, un rimbombo di scarponi che corrono sollevando zolle e pestando germogli di insalate, un rumoroso affanno che travolge quel che incontra e la cui meta, in lontananza, non si scorge perché le fa velo un gran polverone di terra ribaltata e smossa.
Credo in vita mia di non aver mai visto una sola cosa fatta 'di gran carriera' che fosse anche fatta bene. Ma ammetto senza difficoltà che il fastidio terminologico sia di poco conto.
Diciamo allora che a irritarmi sia il concetto di raggiungere un vertice, di primeggiare? Non direi. Mi piacerebbe molto meritarmi un Nobel, o essere chi corre i cento metri più veloce al mondo o la miglior cantante di fado che sia mai nata, o il miglior pescatore di trote che ci sia o la più brava ibridatrice di rose.
Mi piace vincere, mi piace molto, anche solo a scala quaranta.
È che la parola "Carriera" non mi fa in effetti venire in mente una vittoria, un traguardo, l'esplosione di gioia animale e pura di tagliare senza fiato la linea del fotofinish, di raggiungere dopo l'ultimo tratto di corda una vetta ghiacciata, di un tiro di palla perfetto e travolgente, di un salto mortale, di un tuffo, di un orgasmo.
No, mi fa venire in mente una scala lunga diritta e affollata di cui salire ogni gradino un piede avanti all'altro facendosi largo coi gomiti, le mascelle serrate nello sforzo di guardare solo avanti a sè, con continui rallentamenti e soste e ogni momento ti tocca strangolare da dietro questo per potergli passare sopra, e poi spingere da parte quest'altro per superarlo, e stare attento che nessuno faccia con te la stessa cosa, per anni e anni, sulla stessa scala, tra le stesse pareti, con gli stessi muri intorno, e se ti fermi ti sorpassano e se scopri che non te ne frega poi niente o che ti stufi a morte a quel punto devi continuare lo stesso, se non vuoi aver buttato via tutto quel tempo, tutti quei gradini.
Ecco, una cosa così a me pare di una noia insostenibile. Ma magari così non è, magari è esaltante davvero raggiungere poi il top (altra parola che trovo francamente buffa: Dove sei? Sono al top. Ah, che meraviglia, beato te, il top.)
Forse allora è che la carriera implica praticamente sempre la leadership, il comando: allora il punto è che non ami comandare? Eh no, comandare mi piace eccome, sai. Mi piacerebbe da matti l'idea di comandare una cucina, una nave, anche la guarnigione di una fortezza, per dire. L'idea di comandare mille impiegati di un'azienda mi procura il voltastomaco, invece.
Perché quello che mi piace è il comando effettivo e immediato, agente ed efficace: Fai! Fatto.
La Carriera mi da invece l'idea di una serie interminabile di ore a fare e dire cose i cui effetti rimbalzati, parcellizzati, delocalizzati e redistribuiti vedrò, dopo mesi, forse - forse, se tutto va bene, se tutto va bene, miodio non voglio pensare se no - tornarmi sotto forma di benefici monetari e di prestigio o presunto tale (ammesso di sapere che cos'è esattamente, che al momento mi sfugge la definizione, ma magari poi).
Intanto in macchina alle nove di sera, frastornato, mi chiedo cosa cazzo ho fatto oggi, di preciso, e mi viene lo snervante dubbio che il mondo sia esattamente uguale a quando la tangenziale, stamattina all'alba, l'ho percorsa in senso inverso. E mi viene un po' voglia di picchiare qualcuno, anche. La moglie? No, che poi mi pianta una grana e mi tocca lavorare il doppio per mantenerla tutta la vita a far la carriera della divorziata. I figli? Ma li ho, dei figli? Mah, sì, devo averne un paio, mi è parso ogni tanto di intravedere della gente in casa.
Non è così, dai. È bello. Hai prestigio, sei arrivato, hai soldi, hai potere. È una figata, credici. Vale la pena.
Non dubito, è splendido.

Poi mi viene in mente - e qui torno al punto da cui il pensiero era partito - mi viene in mente mio padre, che ha passato tutta la sua età adulta e la nostra infanzia e adolescenza "al lavoro". Non per il puro mantenerci (oggi probabilmente sarebbe così e presumibilmente da solo non ce la farebbe) ma per fare, nel suo ambito, nel suo piccolo, carriera. Perché diventare un dirigente commerciale era un passo avanti, anche se implicava essere molto, molto spesso via. Perché a prescindere da quanto lo volesse le pressioni familiari, sociali, culturali, le si chiami come si vuole, lo spingevano - lo ruzzavano forte e brutalmente, diciamolo pure - ad "andare avanti". 
Io so benissimo che a lui la competizione è sempre piaciuta, mica gli dispiaceva arrivare uno. E però so anche, per certo, che avrebbe dato - darebbe, se potesse - tutte le scrivanie e i traguardi aziendali per averci potuto portare a scuola la mattina, ogni mattina, e comprare la focaccina in panetteria e darci il bacetto e poi venirci a prendere e guardarci uscire e andare ai giardinetti con la palla e studiare a memoria la poesia.
Lui, certo, perché è un sentimentale, un tenerone, un affettivo da contatto. Ad altri, non dubito, non gliene frega niente.
Però io lui non l'ho mai visto perché ero a casa sul divano con la mamma, ma ne ho visti poi tanti negli anni, così: signori benvestiti in giacca, con la ventiquattrore al fianco, mangiare da soli in ristoranti e alberghi, tovaglie rosa e l'assordante silenzio del tintinnio delle posate, in città sconosciute e fuori è sera, un contratto firmato in tasca e la telefonata, tra poco, per dar la buonanotte, e tu e voi siete là e io che cazzo ci faccio qui, con fuori la macchina aziendale che sa di fumo e di plastica e deserto.
Quello che mi viene in mente, e certo sarà parziale e inficiato e fuorviato da mille considerazioni non pertinenti, però resta questo alla fin fine: io non voglio parlar di generi, l'ho detto, ma di persone. 
Però mi chiedo, se le persone che oggi dicono - e legittimamente rivendicano - il diritto di far carriera senza rinunciare ai figli, alla socialità, alla possibilità di gestirsi le giornate e di prendersi 'i propri spazi' pensino mai al fatto che a intere legioni di altre persone non è stato ipotizzato nemmeno di domandare se tale diritto potesse interessare.
Forse l'oppressione dell'obbligo di un ruolo e di un percorso non è stata mai solo da un lato, ma da entrambi.
Forse l'obbligo di fare dieci figli alla fine è andato in pari con l'obbligo di uscire alla mattina all'alba con l'alabarda o col piccone per farsi sbudellare nella brina.
Per questo dicevo che forse se da questi obblighi ci siamo - e secondo me ci siamo - svincolati è insensato e anche un po' ridicolo continuare a insistere su chi avrebbe voluto fare altro e non ha potuto. Su chi ha costretto chi ad una vita che trovava desolante.
Adesso se dio vuole la libertà di non far carriera l'abbiamo, finalmente, tutti.

venerdì 2 dicembre 2011

Ottobre 2006

martedì, 31 ottobre 2006

fata, strega e vaffanculo.

Nell’insofferenza che ultimamente provo per la narrativa (di cui magari poi racconterò) ci sono anche punte di irritazione più specifiche, temi precisi di cui non sopporto più di sentir parlare.
Ho letteralmente buttato per terra (e se non l'ho raccolto è ancora lì nell'erba) il libro dove ancora una volta veniva delineata (con bella sintassi e più che valido ricamo letterario e lessicale, beninteso) questa ennesima figura di donna tutta istinto, tutta indomabile ed energica magia.
Basta, per l'amor di dio.
Basta con queste donne capaci e risolute ma evanescenti nella loro arcana ieraticità, sempre avvolte da questa glassa di impenetrabile mistero fatto di irrazionalità vincente perchè presunta provenire da chissà quali profondità genetiche e uterine, al tempo stesso solide madri possenti capaci dar ordine all'universo e simboli erotici di leggiadra - ma forte ed inviolabile - misteriosa femminilità.
Se leggo ancora una volta espressioni come "fragile e fiera", "tenera ma indomita", "imprevedibile come il vento" "orgogliosa e inavvicinabile, incostante e irresistibile", "strega", "maga", "fata", "divinità della natura" "occhi brucianti di un fuoco imperscrutabile", "sapienza antica", e siffatte immaginifiche fole il libro non mi limito a metterlo per terra ma lo scaravento giù dalla finestra.
Donne del genere o esistono solo nell'immaginazione degli uomini (che le vorrebbero così ) e delle donne (a cui piacerebbe moltissimo essere così) o devono essersi tutte nascoste in qualche posto ben lontano, perché io non ne incontro mai.
Non so, guardatevi intorno - ma con attenzione per una volta - in ufficio o in metropolitana, ascoltate le chiacchiere ai giardinetti o al supermercato: se ci sono, queste semidee evidentemente si mimetizzano con cura.
Mi preoccupa un po' questa idea di donne dee madri che in virtù di potenti e inconosciute forze e di arcane sapienze siano quelle che hanno tenuto in piedi finora - e si presume prima o poi salveranno - il mondo. Io sarò anche una donna, avrò anche ancestrali saggezze che non so di avere, ma non ho la minima idea di come si salvi il mondo. E non ho nemmeno tutta sta gran voglia di farlo, tra l'altro, che ho già tante cose a cui pensare.
Però vedo con turbamento diffondersi nell'immaginario collettivo, forse dovuta all'eclissarsi progressivo di dei e partiti in cui confidare, questa strana forma di femminismo mistico a cui anche molti uomini aderiscono con sconcertante dedizione: come se dopo aver detto per cinque o sei millenni "non vi si capisce quindi si vede che siete un po' sceme" ora la teoria sia "non vi si capisce quindi in qualche modo siete esseri superiori".
Il che comporta da un lato una fastidiosa dismissione di responsabilità, con uomini che si rilassano tutti contenti e si accoccolano in un cantone dicendo con gli occhioni lustri: tu che sei così saggia e bella e forte e che sai come va l'universo e guarda, sei anche un po' magica, adesso salvami, che io son qui tutto poverino e incerto (e adesso, cara mia, son cazzi tuoi).
Dall'altro lato provoca inconsulti moti di rabbia incontrollata, certamente deplorevoli ma non del tutto incomprensibili alla luce di un instintiva e talvolta forse giustificata reazione del genere "ma cosa ti credi di essere, cretinetta".
Di fondo è che sono un po' stufa di questa noiosissima questione degli uomini e le donne.
E noi di qui, e voi di là, e voi non ci capite, e voi siete diverse, e siamo più brave noi, e noi siamo più belli e voi siete più bastardi, e venere e marte, e la potenza della virilità e la magia della maternità, e voi siete cattivi e ci stuprate e però voi ci provocate e poi, anzi prima, da bambini ci castrate e poi sfido che veniam su male, e voi ci invidiate questo e voi ci invidiate quella: e basta, dai.
Tutti i razzismi si basano, dice l'antropologo, sulla voluta strumentalizzazione di alcune specifiche differenze e il deliberato ignorare le somiglianze, per arrivare ad una posticcia creazione di gruppi "a parte". Laddove se si trascurassero alcuni elementi e se ne prendessero in considerazione altri sarebbero tutt'altre le "razze" che emergerebbero. Dire "quelli di pelle bianca" o "noi padani" vale tanto quanto dire "quelli più alti di uno e ottanta" o "quelli coi capelli ricci" o "quelli intonati", per intenderci.
Sicché per come la vedo io uomini e donne hanno sì delle differenze, ma non tali da dover necessariamente essere distinti in base a queste: potremmo benissimo scegliere altri criteri, se proprio volessimo dividere in due l'umanità.
Tanto per capirci: che Nicole Kidman, Rita Levi Montalcini, Madre Teresa e la mia vicina dalla forma a barilotto e dagli occhi sporgenti, di volgarità inscalfibile e assoluta, ignorante come uno zoccolo di mulo e intellettualmente dello spessore di una vongola siano della stessa "razza", accomunate da una similitudine e sorellanza che le rende - indistinte e insieme - una cosa a parte da qualunque uomo, di qualunque tipo, esistente sulla terra a me pare con ogni evidenza una teoria improponibile.
Tanto ridicola che potremmo anche pensare di lasciarla da parte e concentrarci sulle cose importanti, che non vedo perché debbano necessariamente essere quanti piselli e quante tette hai o se quando ti riproduci stai da un lato o dall'altro dell'inseminazione.
E lasciamo perdere per carità queste ridicolaggini pericolose delle quote rosa azzurre e lilla: io personalmente non voglio entrare – non voglio essere ficcata a viva forza e obbligatoriamente, solo per questione genetica – in nessunissima quota di nessun genere.
Un vecchissimo e desueto slogan del femminismo d'antan diceva "né puttane né madonne, solo donne". Posto che sono mestieri faticosi e poco gratificanti entrambi, posto che ci sono un sacco di uomini che si prostituiscono e che di madonne se n'è per ora vista solo una - e di rado, e a me nemmeno è capitato - sarebbe anche ora di aggiornarlo e decidere che "né bastardi né stregone, solo persone".

(sono prolissa e polemica, di questi tempi, e non mi dispiace nemmeno tanto)

Postato da: sphera a 10:20 | link | commenti (38)

martedì, 17 ottobre 2006

casa.

Questa è casa mia, dici. Ci son muri di mattoni e una porta, ci torno ogni sera, l'ho anche pagata (non del tutto magari, ma chi non ha in piedi un mutuo, oggigiorno).
È casa mia, misura da qui a là, son metri quadri conteggiati precisi che vanno, piastrella dopo piastrella, dal piano di inox della cucina alla finestra del bagno con la sua tendina un po' spessa, che non guardino dentro.
E certo, così resta facile: c'è un atto in Comune, un foglio al catasto, un contratto del gas. Ci son tre mandate di serratura, le foto dei nonni e le tapparelle abbassate, ci son le mie pantofole usate e la mia coppa del torneo di calcetto.
Invece una sera su una spiaggia, in un deserto, tra i monti, metti un telo per terra, e un altro a far da coperta.
Intanto vien buio, un buio troppo pieno di soffi d'aria e fruscii, di fremiti e ombre, per essere vuoto. Hai spostato due grosse pietre per poterti sedere, e una è un tavolo dove appoggi il pane, il formaggio e il coltello. E hai acceso una candela (antivento, che se non sei scemo son diecimila anni da che hai imparato a non dar fuoco ai boschi).
Poi ti allontani, magari a far la pipì, ti immergi nel buio come nell'acqua, col volo bianchissimo e muto di un barbagianni che si fa i fatti suoi muovendo ali veloci nell'aria appena sopra di te, senza alcun rumore.
Quando ritorni vedi quel cerchio di luce, impreciso e perfetto, che contiene i due metri di terra dove dormirai stanotte e che per questo solo motivo sono il tuo letto, vedi il tuo cibo e la bottiglia del vino, vedi forse qualcuno con in mano una tazza.
Questo è il tuo territorio, la tua casa stanotte o, chi può saperlo, per sempre.
E lo difenderai tirando tutta la notte dei sassi, muovendo appena una mano per trovarne uno lì intorno, gettandoli ben dentro il nero di quei cespugli da dove arriva il muoversi di un ghiro o un coniglio. 
E non lo farai per fargli del male, nemmeno pensi a colpirlo, è solo un avviso: qui ci sto io, qui non devi venire.
La casa più antica, la prima, aveva pareti di buio intorno a una fiamma.
Ancora oggi continuiamo a saperlo, quando per sentirci caldi, sicuri e vicini smorziamo la luce perché crei un alone, quando accendiamo un lumino o un camino. Ancora adesso in tinello o al ristorante, quando sembra solo un gesto carino - se non quasi melenso, che ci pare di avere imparato dai libri e dai film - anche ora ci pare giusto il lume di una candela per chiamare qualcuno nel cerchio, perché diventi un po' nostro.
È lo stesso messaggio di promessa e minaccia, di calore e di sfida che vibra intorno a ogni tana, da prima del fuoco e per ogni animale: "Io, noi siamo dentro, tu, voi siete fuori".
A delimitare ciò che ti appartiene non sono i muri che costruisci, ma il raggio della tua luce.

Postato da: sphera a 13:11 | link | commenti (9)


lunedì, 09 ottobre 2006

Ci eravamo sbagliati, pensando fosse uno e grande: sono una moltitudine, i fratellini e le sorelline che ci guardano.
Un firmamento di occhietti che si osservano e sorvegliano l'un l'altro, luccicanti di frenetica attenzione.
La compagnia telefonica spia i suoi utenti e anche quelli degli altri; l'amica spia il fidanzato controllandogli assiduamente mail e cellulare, l'impiegata spia i colleghi occhieggiando nei loro computer, la mamma spia la figliola leggendo ogni mattina il suo diario segreto, il capo spia i collaboratori scandagliando il loro traffico internet, il marito spia la moglie dicendo che va via per lavoro e poi appostandosi dietro un portone a vedere dove va, la vicina spia ogni movimento, ogni andirivieni, ogni luce accesa e, minuziosamente, il contenuto del sacco viola.
Quello che fa un po' specie è che tutti indistintamente si sentano nel giusto, ritengano di esercitare un sacrosanto diritto, addirittura un dovere. Ma anche mettendo da parte ogni considerazione su questo modo di vedere le cose - quanto meno diversamente etico - quello che lascia perplessi sono le motivazioni, la motivazione anzi, che è sempre una soltanto: "Perché voglio sapere."
Senza entrare nel merito della dubbia equivalenza tra il volere e l'avere diritto, siamo poi così sicuri che sapere di più equivalga sempre e comunque a capire di più? Che l'accumulare ingordo e affannoso di informazioni su tutto e su tutti poi serva davvero a qualcosa? Siamo davvero certi che scoprire come si chiama di nome e cognome l'amante, e di che colore ha capelli e calze e dove abita e per chi ha votato ti avvicini di un passo a capire com'è che lei forse non ti ama o non ti desidera più?

Il bisogno di sapere, l'ansia di avere tutte, tutte le informazioni possibili è una ubriacatura a cui siamo stati assuefatti. Più sono, più son dettagliate, più ci siamo chissà come abituati a sentirci tranquilli.
Un incessante ronzare di telecamere, microfoni, satelliti, microspie, un torrenziale e indifferenziato brulichìo di registrazioni di dati, milioni di orecchie incollate alle porte, di occhi schiacciati sui buchi delle serrature.
Con esiti scarsi parrebbe tra l'altro, visto che frattanto si continuano a fare attentati, a stuprare, a barare sui fogli presenza, a rubare nei supermercati, a tradire la moglie, a bigiare la scuola come si è sempre fatto.
E però sempre più spesso si vedon persone - aziende, governi - annaspare semiannegati in paludi vischiose di notizie inutili, aggrappati all'idea che l'informarsi non sia un mezzo ma un fine. 
Un fine strettamente connesso, ormai fuso a quello di avere, di mantenere il controllo. Controllo costante, ossessivo, forsennato.
Mammamia, che paura che avete.
Rispondi al telefono e non dici "Pronto" ma "Dove sei?"
"Cosa stavi facendo?"
"A che ora ritorni, precisamente? E facendo che strada?"
"Con chi sei? Li conosco?"
"Hai mangiato? Cosa hai mangiato?"
"Cosa ti piace? Ti sta piacendo? Ti è piaciuto?"
"A cosa pensi? Cosa stavi leggendo?"
Se non sai esattamente dov'è, che cosa sta facendo e con chi e possibilmente cosa sta pensando tuo marito, tua figlia, il moroso, l'impiegato del tuo ufficio acquisti, il tuo concorrente, la tua portinaia, vai in ansia. In panico, anzi.
Sei convinto che perderai del tutto il controllo, che perderai il controllo di tutto, se solo ti sfugge qualcosa. Solo l'informazione totale ti fa sentire al sicuro.
Che poi trecento anni fa un contadino non aveva informazioni precise quasi su niente, nemmeno con esattezza sulla sua data di nascita, su come facesse a battergli il cuore o quale re o imperatore regnasse sul suo campicello. Ma è tutto da dimostrare che si sentisse smarrito per mancanza di dati, che temesse, che avesse l'angoscia di perder la rotta di sé e della sua vita.
Ci si culla noialtri invece nella fola che più abbiamo nozioni e notizie più tutto va bene, più siamo forti, furbi, sagaci e protetti.
Solo che non è mica vero.
Infatti eccola qui, ad esempio, l'aviaria (o la sars o il dengue) che arriva: migliaia di pagine, milioni di parole, fiumi di date, di mappe e statistiche, di frecce e di flussi, di pareri autorevoli. I nomi dei contadinelli e quanti polli avevano in casa e di quale piumaggio, il numero esatto cresta per cresta e becco per becco delle galline date alle fiamme nei più sperduti villaggi, con tanto di cartine e di foto, gli schemi riccamente illustrati del DNA di una vasta gamma di virus letali o meno, con note dettagliatissime sulla sequenza delle mutazioni dei cromosomi e approfondimenti circostanziati sull'epidemiologia nella storia.
Accidenti, sappiamo un sacco di cose. Non ci manca nessun dettaglio. Quindi noi, casalinghe brianzole, noi grafici editoriali, noi madri di famiglia, noi lavoratori flessibili, noi pendolari, adesso sì che abbiamo in mano la situazione. Tutto sotto controllo.
(O magari invece provare a ipotizzare di sapere due o tremila cose in meno ma capirne una di più, tralasciare trentamila informazioni o trecentomila per un solo sguardo, una sola osservazione diretta, una percezione: quella rilevante, quella che ti salva la vita.)
Tu prova a chiedere a qualcuno "Com'è il tempo?"
Ti risponderà citando dei dati: i sei siti di metereologia che consulta regolarmente, le previsioni per radio, il colonnello in tv, le mappe delle isobare riportate su ogni giornale, i trend delle temperature e delle precipitazioni negli ultimi duecento anni, l'effetto serra e il riscaldamento globale.
Fai la prova: c'è meno di uno su cento che guardi fuori dalla finestra e ti dica "C'è il sole però quelle nuvole che arrivano di là, fatte così, di solito portano pioggia. Ma mica sempre. Staremo a vedere."
Si dà il caso però che sia proprio quest'ultimo quello che dal temporale non si farà spaventare, perché l'ha messo in conto e non lo preoccupa molto, perché avrà con sè un ombrello o perché non gli importerà di bagnarsi.
A te invece hanno detto che devi avere molta paura. Di un sacco di cose. Che devi sempre avere paura, e che per fartela anche solo un pochino, un pochino passare devi sapere tutto quello che puoi. Devi informarti. Devi permettere che ti si informi, il più possibile, innaffiandoti a goccia, a getto, a pioggia diffusa. Devi consentire che ti siano forniti - o devi freneticamente procurarti, e in fretta - notizie molteplici e ridondanti, dati sovrabbondanti e precisi, così che tu abbia allo stesso tempo paura e sollievo, angoscia e presunzione di essere in salvo.
Rimane poi questo dubbio, tra l'altro: che quando l'informazione che hai è un po' troppa allora forse c'è caso che qualcuno stia controllando te.
Se sai in modo un po' troppo preciso cosa accadrà, se sei esattamente informato su cosa farai, a che ora e con chi, e cosa farà in ogni momento chi ti sta intorno, probabilmente sei in carcere. Oppure in collegio, in una caserma, un convento, un labirinto per cavie.

Quello che non sai di te stesso e degli altri - e di quel che sta succedendo o succederà - è forse il margine obliquo in cui il mondo ha spazio per muoversi. 
Quello che non hai bisogno di sapere, perché non ne hai paura, segna forse il confine della tua libertà.


Postato da: sphera a 10:23 | link | commenti (20)