venerdì 10 febbraio 2012

lavoratori di tutto il mondo.


Si parlava di lavoro, ultimamente. Qualcuno dice che molto di quello che oggi viene chiamato lavoro cinquant’anni fa sarebbe stato considerato passatempo, o forse nullafacenza. Qualcuno dice che no, perché il mondo cambia e cambia il senso di cosa si intende per lavoro. Qualcuno dice tutt’altro e altro ancora.

Allora così, siccome è venerdì e nevica, mi sono messa a pensarci un po’, a cosa possa voler dire “lavoro”.
Posto che non si possa più sovrapporlo pari pari al sudore, posto che non si possa nemmeno più identificarlo con la messa in pratica di una ben precisa abilità artigianale o competenza intellettuale o capacità commerciale, come potevano essere quella del fabbro o del contabile o della verduraia – perché se così fosse metà abbondante dei mestieri legati al marketing, ad esempio, sparirebbe di colpo – quali possono essere i parametri per identificarlo come tale?
A me ne sono venuti in mente due.

Il primo, ovvio, è l’essere pagati per quello che si fa. Anche in prospettiva, anche poco, anche un domani.

Il secondo, che poi sono tre, è che secondo me un lavoro è qualcosa che:
  1. puoi definire con parole semplici, chiare, di uso comune nella tua lingua
  2. consta di procedure che possono essere ripetute per ottenere il risultato che ci si aspetta che ottengano
  3. puoi insegnare

Vale a dire.
1. Io, mi spiace, ma non riesco a fidarmi di chi non mi sa spiegare in cosa consista il suo lavoro. Per me continua a valere quello che diceva Einstein: non hai capito davvero una cosa se non sei in grado di spiegarla a tua nonna.
Mi è capitato di chiedere di cosa si occupavano a neurochirurghi, fisici teorici, elettricisti, commesse, magazzinieri, matematici. E ho sempre capito benissimo.
Però c'è un sacco di gente che invece parte dicendo “È difficile da spiegare, è un po’ complesso, forse è ancora una cosa troppo nuova per… ci sarebbe una parola inglese ma in effetti non è precisa, diciamo che in un certo senso, e poi è che tu non sei addentro, ti sarebbe difficile… Ma un altro pezzetto di stufato si potrebbe avere?”

2. Un idraulico sa che facendo – o non facendo - una prestabilita serie di cose otterrà un certo risultato, così come lo sanno l’agricoltore, il chirurgo, il cuoco, l’informatico, il barista, la puttana. A valle naturalmente delle contingenze - il tubo troppo usurato, la stagione piovosa, l’errore, la svogliatezza - sa che se fa A e poi B e poi C otterrà X, che è quello che si prefiggeva di ottenere. Più o meno bene, con maggiore o minore abilità, parte da un punto definito e attraverso determinati passaggi arriva ad un altro altrettanto definito.
E c’è chi invece non è in grado di definire alcun passaggio preciso e riproducibile, c’è chi parla di strategie, di mutamenti, di flussi, di aperture, di gente, del nuovo. E se e quando arriva ad un risultato, quale che sia, non ha la minima di come far succedere di nuovo la stessa cosa.

3. Il Carletto aveva forse la seconda elementare ma era perfettamente in grado di insegnarmi a scacchiare i pomodori e legare le cipolle, il mio insegnante di disegno non aveva problemi a insegnarmi l’assonometria così come non ne aveva avuti la maestra a insegnarmi l’ortografia e le tabelline, l’elettricista che mi ha fatto l’impianto mi ha insegnato i colori dei fili, così come il gelataio a fare i gelati e la Tiziana la minestra di orzo e ceci.
C’è chi insegna l’anatomia e chi a scrivere, c’è chi ti può insegnare a ricamare o a pescare, a fare un sito web o a frattazzare un muro.
Se a qualcuno dico “Come si fa, insegnami” e non lo sa, non lo può fare, non è in grado di insegnare – non importa con quanta difficoltà o in quanto tempo -  a fare il suo lavoro, ecco, per me quello non è un lavoro.

Questo per quanto mi riguarda, per orientarmi io. Poi beninteso, si è detto: se ti pagano comunque per me non c'è problema. 


martedì 31 gennaio 2012

stand by me.

Mi capita nei sogni, nei migliori, di sentire dieci anni. Ma non di tornare a quando li avevo, o di avere quell’età adesso: mi capita di sentirmi il mondo intorno come lo sentivo a dieci anni. Di vedere le cose, vederle tutte insieme e ognuna nei dettagli, e sentire gli odori e i colori e suoni come se ci fossi dentro e ne facessi parte, ma presente a me come di più non si può essere.
Prima di quell’età sei troppo piccolo: non sai di esserci. Dopo sei troppo grande: invece di esserci ti pensi.
Ma c’è un momento in cui tutto è in equilibrio, lo spazio e il tempo e te, un momento in cui sei completamente tu e un gatto e un uccello e una lucertola e una tigre e i sassi e il mare e l’erba, insieme.
E li so benissimo i colori: i dieci anni hanno luce satura che ti entra negli occhi colmandoli e li allaga come quando li tieni aperti sotto l’acqua, e hanno ombre disegnate nette, e nere.
E noi che ci affidiamo sempre alla geometria più facile e banale continuiamo a pensare che la curva di una vita abbia il suo culmine a metà, che tra gli zero e gli ottanta sia a quaranta che siamo nel pieno della sapienza e della forza.
Ma sappiamo bene che non è affatto vero, e che quella curva si impenna quasi in verticale e raggiunge la cima a dieci anni, e poi scende, inevitabilmente.
Per questo passiamo il resto del tempo a cercare in tutti i modi di tornare lì, all’interezza, al fulgore del corpo e della consapevolezza. E quando ci diciamo felici è perché per un istante ci sentiamo come eravamo sempre, ad ogni risveglio, alle quattro di ogni pomeriggio.









Vipassanā (pali, in sanscrito: vipaśyanā) una delle due principali forme della meditazione buddhista, detta anche meditazione di visione penetrativa (in inglese insight meditation). A differenza della meditazione samatha, questa forma di meditazione non è finalizzata al raggiungimento di stati di assorbimento meditativo e non ha un carattere astrattivo. Al contrario, la meditazione vipassana intende sviluppare la massima consapevolezza di tutti gli stimoli sensoriali e mentali, affinché se ne colga la reale natura e ci si incammini per tale via verso la liberazione. Il corpo e la mente sono il campo nel quale è possibile scoprire, con una visione attenta, la verità del mondo fenomenico e quella che porta alla sua estinzione.

[…]

In riferimento ai sette fattori del risveglio: 
presenza mentale, 
investigazione dei fenomeni, 
risveglio dell'energia, 
gioia, 
serenità,
concentrazione
equanimità.



venerdì 20 gennaio 2012

Io sono quella della cacca. E dell’immondizia, del vomito, della pipì. Può capitare che talvolta qualcuno se ne faccia carico: è capitato. Ma appunto: talvolta. Le altre volte, tutte e son tante, me ne occupo io.
Catarro e lacrime, cispe e cerume. E spazzatura e immondizia e il fondo scuro dei loro bidoni e i sacchi da preparare. Poi quando li dimentichi fuori raccogliere quello che i gatti hanno sventrato, le lische, i cartocci unti e le ossa.
E molta, moltissima cacca, in pannolini e letti e mutande, e qualche volta per terra.
Io sono quella che entra con la mano nel water per pulirlo per bene, sono quella che toglie gli schizzi di piscio dall’asse e dal muro, sono quella che lava lo straccio dei pavimenti strizzandolo in mano.
Io svuoto il filtro della lavastoviglie gelatinoso di unto, io vuoto i piatti dagli avanzi rappresi, io tolgo con la mano i residui di pasta e verdura e cose che non si riconoscono affatto dal buco del lavandino. Sono quella delle lettiere e dei fiocchi di polvere e briciole sotto  i divani, quella che scrosta la vaschetta delle verdure dai sedani morti e dal viscido dei cipollotti, che disincaglia il groviglio di peli e capelli dal tappo della vasca da bagno.
Sono quella che scuote la scopa e le leva i bioccoli di spesso lerciume, quella che toglie le cispe dagli occhi e lava il sangue il pus e la terra dalle ferite, che pulisce il moccio e le orecchie, quella dei punti neri, delle spine di riccio e della merda di gatto.
E noi che siamo quelli della cacca e dell’immondizia, noi ridiamo molto più spesso e siamo tranquilli, lo sai. Perché dagli arabeschi di macchie e escrementi abbiamo imparato la beffa delle trasformazioni, abbiamo saputo che non c’è niente che sia sporco davvero perché non c’è niente che non si possa pulire, e poi sporcare di nuovo.
E poi noi sappiamo, sappiamo qual è l’istante preciso in cui quello che hai nel piatto e fino a un attimo fa stavi mangiando e succhiando e leccando diventa rifiuto, che ti fa schifo spazzar via con la mano per rigovernare.
Noi sappiamo qual è l’ingrediente che in un unico esatto momento trasforma il piacere del godimento in un grumo di fredda immondizia. Ma questo non te lo diciamo, perché è il segreto più grande.

giovedì 12 gennaio 2012

Dicembre 2011

venerdì, 16 dicembre 2011

Istruzioni per l'uso delle lucine di Natale.

Primo. Se le accendete tenetele accese.
È vero che ci hanno ribadito fino all'estenuazione che siamo tetri e depressi, che siamo cassintegrati disoccupati e indebitati, è vero che ad ogni istante veniamo severamente ammoniti per la nostra sfrenata tendenza al lusso e spronati ad una austera sobrietà. È vero. Ma le luci si vedono al buio.
Se come gli austeramente pidocchiosi commercianti qui della contea le si tiene accese solo negli orari di apertura, se come i sobriamente taccagni compaesani l'alberello lo si spegne quando si va a letto - che tanto se dormiamo non lo vediamo - succede che dopo le dieci di sera il villaggio è gelido, disadorno e oscuro che nemmeno a Mordor quando sono di malumore.
Le luci hanno senso quando fa buio: se si spengono perchè tanto di sera non c'è in giro nessuno tanto vale risparmiarsi la fatica di scale e chiodini sprecata per inghirlandare il mondo con grovigli di cavi.

Secondo. Se sono accese sono accese, se sono spente sono spente.
Siamo già tesi, siamo già agitati senza bisogno di essere mandati in iperventilazione da una nevrastenica cacofonia di acceso/spento-acceso/spento-acceso/spento-acceso/spento-acceso/spento-acceso/acceso/spento/spento.
Quale bisogno ci sia di questa luminescenza ossessa, di questa psichedelica fibrillazione nessuno pare in grado di spiegarlo. Nemmeno ammettendo l'ingenuo entusiasmo, il candido infantilismo tecnologico che guarda, siamo capaci di accendere una luce e poi spegnerla, guarda, guarda vedi che si accende e poi si spegne e poi si riaccende, hai visto, hai visto?
Accese e basta, per favore. Vedrete quanta tachicardia in meno. Da quando ho messo le lucine fisse non picchio quasi più la moglie, per dire.

Terzo. Scegliete come si deve i colori.
Nella nostra memoria percettiva, nella retina di noi mammiferi terrestri la luce va dal bianco al porpora, passando per i gialli, gli arancioni, i rossi. Luce di sole e luna, di stelle, lampi e fiammelle, di fuoco e di braci.
La luce blu in natura esiste solo nelle concessionarie d'auto.
Luminescenze azzurre e bluastre sono cianotiche e aliene, non usatele per carità: vi fanno spavento anche se non ve ne accorgete.
Le verdi vanno dosate con attenzione, in modica quantità e mai da sole: oltre a produrre un ambiguo lucore da acquario sintetico rendono livida qualunque carnagione e repellente qualunque pietanza.
Da evitare anche il tutto rosso, evocativo di sesso estremo più che di presepe, o a andar bene di camera oscura.
Molta cautela con la combinazione giallo+rosso, amata da pizze al trancio e kebab d'asporto, e con quella giallo+rosso+verde, la preferita da autoscontri, calcinculo e circhi a conduzione familiare.

Infine, si raccomanda oculata considerazione per la quantità. Tremila watt di fulgore non riescono, con tutta la buona volontà, ad ispirare poesia.

Oppure.
Oppure si potrebbe anche pensare un'altra cosa.
La luce, tanta luce, era festa quando il mondo era buio.
Era ricchezza e stupore, era raro e prezioso sfolgorio e meraviglia quando il tramonto era davvero la fine del giorno, quando la notte era lunga e interminabile e di impentrabile gelo l'inverno. Quando le sere e le cene erano incerti e tremanti aloni rossastri, barbagli fiochi galleggianti nel sego, e ombre d'inchiostro fumoso guizzavano dietro le stufe e facevano paura ai bambini.
Ora che abitiamo galassie di neon e tungsteno, metropoli e case sfolgoranti di luci, e risplendono abbacinanti supermercati e parcheggi, mentre pulsano chiarore monitor e lampioni stagliando su perenni accecanti biancori benzinai e baristi, tabaccai e commesse, forse non ha più tanto senso.
Ora che inondiamo di luce l'intero pianeta e oscuriamo le stelle, ora che ogni città a distanza di miglia è una bolla di miasmi lucenti, ogni mezzo si muove bardato di alogene e led e ogni elettrodomestico spento tiene acceso un vigile occhietto rosso in attesa, ora forse la vera festa sarebbe quella del buio.
Buio e oscurità finalmente, a perdita d'occhio.
Le pupille si dilatano grate, il respiro ridiventa profondo. Puoi girare adagio la testa cercando di cogliere un suono, di capire un fruscio. Devi tornare a saggiare, a sentire il terreno, incerto, col piede. Riconosci oggetti e persone sotto le dita, capelli e bottoni, e lembi di pelle. Le parole le senti diverse se non vedi le labbra. E i baci, se gli occhi sono neri su nero.
Facciamo festa, spegniamo le luci.
Vedrai come sarai stupefatto e commosso poi, se farai il bravo, dal palpito incerto di un moccolo.
Ho un fiammifero, ancora. Lo tengo per dopo.




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martedì, 06 dicembre 2011

Ci siamo guardati Precious: piuttosto bello, sì, ma il tema è decisamente duro. Così abbiamo detto: adesso un po' di chill out, prima di andare a dormire. Oh, bello, la Parigi del settecento... la ghigliottina, come funziona, poi le fosse comuni e il sangue putrefatto per le strade e la decomposione dei corpi spiegata nel dettaglio, colori, batteri e larve e... Gira, dai. Guarda, fantastico il tizio che deva battere il record e si lancia in bici giù dalla vertiginosa cima del vulcano... Oddio, cade, gesù che volo, per terra tutto scomposto e accartocciato con la moglie che si dibatte e si dispera... Cambia, cambia. Interessante, le miniere dei cercatori di topazi... guarda quel povero omino, rattrappito e schiantato da una fatica disumana, con la moglie e i figlioletti a migliaia di chilometri, e lui che cerca il topazio per riscattare la loro misera esistenza e ha le lacrime agli occhi parlando di loro... Cerca qualcosa d'altro, valà. La peste nera, o bubbonica, inizia con... Gira! Ecco, questo qui dell'universo: le stelle sono neutre, almeno. Perché i composti stellari, e la vita, la morte... ma dopo la morte cosa accade? La coscienza di sé nelle persone in stato vegetativo, e l'attimo in cui si muore e...
Andiamo a dormire.
Che una cazzo di medusa gigante o di orsacchiotto delle nevi non ci sono mai quando ne hai bisogno.

Novembre 2011

mercoledì, 09 novembre 2011

Voglio i pannelli solari. E li voglio il prima possibile. Li avrei già messi se non fosse che voglio cambiare casa presto.
Voglio i pannelli solari per l'energia elettrica e l'acqua calda, e voglio una cisterna per l'acqua piovana, e se serve il microeolico e il geotermico e tutta, tutta quanta la tecnologia che serve per sganciarsi dalla tecnologia gestita da altri.
Voglio l'autosufficienza, voglio che l'unica rete a cui la casa resti collegata sia quella di internet.
Non capisco, giuro non capisco come qualcuno possa scegliere di spendere che so, trentamila euro per una automobile e non per mettersi i pannelli solari sul tetto.
Non capisco perché chi ha due risparmi - che non sono io - si domandi se sia un buon investimento comprare titoli e non corra a comprarsi un sistema energetico autonomo.
Non capisco, ma davvero, perché continuiamo a lamentarci del traffico, delle bollette sempre più care, del tempo che si spreca andando e tornando dal lavoro, dell'aria lercia, dei pomodori di plastica, e continuiamo a impiegare enormi quantità di energia e di fatica per continuare a tenerceli stretti.
Ah, ma perché tu cosa vorresti: abitare in campagna, produrti l'energia e l'insalata e lavorare via internet? Eh eh, che dolce che sei, che romantica.
Non capisco perché se dici che vuoi sfruttare le più avanzate, le migliori opportunità tecnologiche ti diano della luddista.


(Intanto è uscito il sole, la mia macchinetta degli arcobaleni va a tutta forza, sparpagliandone a decine sulle pareti, un turbine di iridi.)

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mercoledì 11 gennaio 2012

Ottobre 2011

mercoledì, 26 ottobre 2011


Non li voglio, i fiorellini. E nemmeno i pupazzini. Le grechine. Gli orsetti. Detesto tutto questo ornare cose che non hanno nessun bisogno di essere ornate. Perché mai devo avere dei fiori sulla carta igienica? Perché la carta da cucina deve avere fiocchetti e pentolini? Io le voglio bianche. Per favore.
Perché non è vero che le cose decorate sono più carine. Sono più brutte. Ma molto più brutte, molto.
L'ornato è una cosa seria, una cosa difficile, costosa, impegnativa, laboriosa. Altrimenti è una porcheria.
L'ornato è l'Alhambra, è William Morris, è gli azulejos e Wedgwood e Lalique, è gli arazzi medievali e i kilim. È, piuttosto, i ghirigori di tuo figlio col pastello. Qualcosa disegnato con in mente la bellezza, e realizzato con delizia e cura. Qualcosa che ti fa felici gli occhi.
Non un guazzabuglio triste e casuale di stupidaggini riprodotte malamente.
Tu non ti accorgi, ma nella tua bella cucina tutta linda si affollano i fiori approssimati della tovaglia rosa, le geometrie giallo e marrone degli strofinacci, gli uccelli verdini del rotolo di carta, i quadretti azzurri dei tovagliolini, i cuori rossi e le greche imprecise del barattoli, le foglie nocciola sulle piastrelle beige, le margherite stampigliate in arancio sopra i piatti, le campanule turchine dell'insalatiera, le padelle e le pannocchie sulle presine, sghembe.
Si affollano e ti frastornano gli occhi, come un frastuono di rumori stupidi.
Perché non è vero che non è importante quello che ti vedi intorno: non ci fai caso ma ti abitui un po' per volta a tante piccole inutili bruttezze. Così ci siamo assuefatti al dozzinale, al tirato via, allo stampato in qualche modo, al simulacro di fiore, all'elefantino come lo disegna suor Giuliana, al quadrettato di colori a caso.
Se non possiamo permetterci piastrelle decorate bene, allora siano bianche, santo cielo. O azzurre, o verdi, o nere. Ma quei bambù marroni, quegli aborti di glicini e di rose, poi li vedi tutti i giorni, sai. Le prime cose che vedi ogni mattina sono volgari, sconsolate e brutte.
Io sogno da anni un negozio che venda le cose di ogni giorno, quelle basiche, le calze e le tazze, gli strofinacci e le magliette, i tovaglioli e le mutande, i barattoli e la carta igienica e le tende e le piastrelle, che le venda bianche, bianche e basta.
Perché l'inquinamento delle piccole cose è un altro genere di lupatoto, che un po' ogni giorno ti avvelena di trascuratezza, di minimi orrori che non ti accorgi di vedere.



Non avere nella tua casa nulla che tu non sappia utile, o che non creda bello. 
(William Morris, La bellezza della vita)


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lunedì, 24 ottobre 2011

C'è un gioco che faccio, ogni mattina. È quello di bere il caffè, tazza grande un biscotto una sigaretta, seduta sul gradinetto della portafinestra in cucina.
Lo faccio da molti anni, d'estate e d'inverno, con la luce e nel buio gelato, con il sole e la pioggia e la neve, in camicina o avvolta in giaccone e cappuccio. Il gioco è proprio questo, farlo ogni mattina anche quando hai sonno o fa freddo. Non serve a niente, non significa niente, a volte è piuttosto rognoso, ma il gioco è di guardarle in faccia e sentirle addosso, tutte le mattine del mondo. Per il solo motivo che hai deciso così.
Ne faccio anche altri, parecchi.
Come quello di scegliere un punto e vedere se le porte del treno ti si fermano proprio davanti.
Come quello di scommettere, al bar, che quella tipa tutta rigida di consapevolezza e vestiti non prenderà un caffè, ma una di quelle cose noiose come UndecaffeinatomacchiatoMamacchiatopocoSenzaschiumatiepido. Econunpo'di cacao.
Come quello di dare al criceto tenendoli tra le dita ogni volta esattamente tre semi di girasole, per vedere quanto tempo ci mette ad imparare a contare.
Come quello di far andare random la musica e vedere quante volte sceglie proprio le canzoni che si adattano a quella luce, a quell'ora, a come ti senti, e vedere quanto spesso ci azzecca.
Come quello di far venire il nervoso ai leghisti dando un euro alla zingarella fuori dal supermercato.
Come quello di guardare dentro le finestre, dal treno, e immaginare la vita che c'è.
Tutti ne facciamo di giochi, almeno credo. I giochi non servono a niente, solo a farti giocare.

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venerdì, 21 ottobre 2011

Ecco, questa cosa del sangue. Mi stupisce sempre la gente che in tv e sui giornali si abbevera di fiumi di sangue, di morti ammazzati veri e finti, di cadaveri realmente massacrati e di quelli impiastricciati di colorante rosso, di schizzi che imbrattano i muri, di scie sul pavimento, di esplosioni di teste, di pozze che si allargano sotto persone disarticolate a terra, di dita che frugano frattaglie sui tavoli da autopsia. E poi dicono che loro a fare l'esame del sangue svengono. Perché sono sensibili, proprio non sopportano.
Quelli che no, non so pulire un pollo, non l'ho mai fatto, ma dio che impressione, che raccapriccio, morirei.
Quelli che oddio ti sei tagliato, oddio guarda c'è il sangue, un cerotto, no non ce la faccio ad andare a prenderti un cerotto, devo sedermi, mammamia che senso.
Quelli che ma davvero peschi, ma come fai, ma prendi i vermi con le dita, ma davvero, dio io non potrei mai, ma poi il pesce lo uccidi?
Quelli che guarda fammi fare tutto ma non medicare una ferita, giuro non ce la faccio, il sangue, mi sento male, solo il pensiero, guarda.
Mammamia, quanto siamo distanti dalla vita.

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mercoledì, 19 ottobre 2011

A me piace fare la spesa al supermercato.
Mi piace che non ci sia mai la temperatura giusta. Mi piace che abbia luci troppo bianche.
Mi piace prendere la frutta e la verdura senza il guantino, perché non credo affatto che chi l'ha colta, caricata, scaricata e messa in esposizione avesse i guantini.
Mi piace vedere le vecchine, in due, che prendono le confezioni già pronte così non devono pesare alla bilancia e ricordarsi il numero e schiacciare tutti quei tasti.
Mi piace che i fruttini e i verdurini sulla bilancia siano messi in ordine alfabetico, ed essermene accorta dopo anni.
Mi piace vedere le famiglie che ci vanno al completo vestite della festa con le bambine con la vestina a gale, e quelli che ci vanno in tuta e ciabatte come se stessero andando al cesso.
Mii piace guardare i prezzi al chilo e al litro e confrontarli con il volume della confezione e avere ogni volta un sacco di sorprese.
Mi piacciono i signori che ci vanno con la lista della spesa scritta dalla moglie.
Mi piace comprare l'olio extravergine comunitario, perché gli uliveti in Spagna e Grecia li ho visti e sono molto belli, e quelli che comprano "solo italiano" mi fanno ridere abbastanza tanto.
Mi piacciono i pensionati che fanno man mano il conto, perché lo faccio anch'io.
Mi piace prendere le cose dagli scaffali più bassi che non guarda mai nessuno, come il vetril quello nel flacone azzurro che spruzza senza spray.
Mi piace rispondere che no, non ho la tessera e non la voglio, grazie.
Mi piace regalare i punti omaggio alla signora che vien dopo, tutta contenta.
Mi piacciono le coppie appena formate, che fanno circospette mediazioni sull'acquisto di ogni prodotto.
Mi piacciono i ragazzetti che entrano in sei in un supermercato immenso e escono con una lattina di cocacola.
Mi piacciono i bambini piccoli seduti sul seggiolino che senza farsene accorgere prendono cose a caso dagli scaffali e le buttano nel carrello.
Mi piace calcolare quanti sacchetti serviranno, e adesso è più difficile perché oltre al volume devi calcolare il peso, se no i sacchetti flosci si biodegradano già prima della porta.
Mi piace guardare cosa ha preso la gente che viene prima e dopo di me nella fila, e pensare che questo diventerà obeso e quella invece ha la smania dell'igiene.
Mi piace quello che vede cosa prendi e rimette sullo scaffale quel che aveva preso e prende lo stesso che hai preso tu.
Mi piace che al supermercato i conoscenti li puoi salutare con un cenno, mentre al mercato ci devi chiaccherare.

Mi piacerebbe di più il mercato, naturalmente, ma se fosse vero. Se il fruttivendolo prende il furgone e va a comprare all'Ortomercato, assieme a tutti gli altri, allora tanto vale il supermarket. Anzi, se la merce viene consegnata direttamente a loro alla fin fine è una filiera più corta, quella.
Sono quasi tutti finti, i mercati ormai. Come i - pochi - negozi di quartiere: se il macellaio non macella, il panettiere non panifica e l'ortolano non ha l'orto è inutile giocare a quello che non va al supermercato.

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martedì, 18 ottobre 2011

Perché un altro dei condizionamenti ipnopedici che ci hanno inculcato è quello che “La critica deve essere costruttiva. Che proposte hai? Nessuna? Allora non parlare.”
E mi ha un po’ stufato, anche questa solfa.
Perché non sta scritto da nessuna parte che devo conoscere tutte le implicazioni dell’uso dell’acido acetilsalicilico per poter dire che ho mal di testa.
Perché non devo necessariamente aver vinto Hell’s Kitchen per avere il diritto di dire che questa pasta fa schifo.
Perché non ho bisogno di saper fare una analisi approfondita e rigorosa delle tematiche dell’economia postmoderna, della finanza internazionale e del mercato del lavoro nella società globalizzata per dire che mi secca non avere i soldi per pagare le bollette.
Perché se per parlare è necessario essere in grado di formulare una proposta precisa, articolata e approfondita, allora di economia devono parlare solo gli economisti, di soldi solo i finanzieri, di politica solo i politici. Di lavoro solo sindacati e imprenditori. Di inquinamento gli scienziati. Di come si nasce e come si muore solo i medici. Di cucina gli chef. Di verde pubblico gli urbanisti. Di infanzia i bambini. Di letteratura gli scrittori, di giornalismo i giornalisti. Di scuola gli insegnanti, di sesso le puttane, di vecchiette le badanti.
Mi siedo sul terrazzo, ecco, e sento che proposte vogliono da me le piante di pomodoro e il gatto.

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domenica, 16 ottobre 2011

Siamo contro la violenza, va bene. Su questo tutti d'accordo, dai.
Diventa persino un po' stucchevole e barocco continuare a dirlo e ripeterlo "Ah, anch'io" "Ma anch'io, ci mancherebbe". Tutti d'accordo, va bene.
Detto questo, io mi sento sempre più a disagio nel sentire parlare di cortei e manifestazioni in termini di Una bellissima festa, tanta gente colorata e allegra che sfilava pacificamente, cantando. Più che una protesta, una scampagnata: tanti cartelli e strisconi, si, ma mamme e bambini, e cori e colori. Cosi vanno bene, le proteste, cosi van fatte.
E sfido. A chi mai può dar fastido un gruppone di gente, anche fosse moltissima, che passeggia al sole?

Ma che bravi, vedi, come protestano bene, come sono educati, carini, allegri.
Che dolci.

Magari sbaglierò, ma non riesco a non pensare che una protesta debba dare FASTIDIO.
Debba disturbare, debba mettere in difficoltà qualcuno, debba essere in qualche modo un problema.
Che venga graziosamente concesso di esprimere protesta purché nessuno protesti troppo, rabbia purché nessuno si mostri troppo arrabbiato, purché nessuno faccia troppo rumore, purché si lasci tutto pulito, purché nessuno rimanga turbato: ecco, a me inizia a sembrare un imbroglio.

Proibire una manifestazione creerebbe un sacco di problemi, va a sapere poi cosa gli verrebbe in mente, che la facciano la manifestazione, poverini, han bisogno anche loro un po' di svago, un po' di sfogo.
Purché, naturalmente, si abituino a pensare che una manifestazione ben riuscita è quella che farebbero Heidi e Hello Kitty, una cosa tenera e canterina, un corteo di Hobbit che lanciano fiori nel dolce sole d'autunno.

Non voglio, sia chiaro, non voglio che nessuno si faccia male, non voglio che sia distrutto o  bruciato niente.
Però bisognerà pur trovare una maniera per far sì che una protesta torni ad essere una protesta: giusta, forte ed EFFICACE.
Perché se le città sono accondiscendenti e liete, se i governanti sono benevoli, tranquilli e persino inteneriti, sbaglierò ma a me qualcosa non torna più.

Tocca inventare qualcosa, io credo. Non so cosa, ma magari bisognerebbe povarci. Magari un sit in che blocchi tutto, magari liberare per le strade un milione di rane, magari versare bidoni di tempera gialla e verde e blu - lavabile per carità, ma sai il fastidio - magari solo le biglie come in Animal House. Non so. Forse ai ragazzi, ai più giovani e freschi, verrà in mente qualcosa. Spero.

Perché riunire mezzo milione di persone incazzate ed essere fieri di come tutto sia stato bello e riuscito bene, avendo ottenuto tre inquadrature di palloncini colorati e bei faccini a me sembra una truffa. Un po' come i Massì tesoro va bene, fai pure il piercing, è giusto che i giovani si sentano protestatari, però non troppo grosso. E lava le mani, e dì buongiorno alla signora, e non tenere la musica troppo alta in camera.

Finchè il modo in cui si protesta dovrà essere approvato sorridendo da coloro contro cui si protesta, mi spiace, a me continuerà a non tornare il conto.


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martedì, 11 ottobre 2011

- Perché tu, oltre che bello, sei anche buono.
- Ahahahahah, ma dai... non è vero!
- Sì che è vero.
- Ma smettila, dai. E poi cosa intendi per "buono"?
- Buono: che non fai male a nessuno volontariamente, che se appena puoi fai bene a qualcuno deliberatamente. Buono. Dai, accidenti, sai benissimo cosa vuol dire: non te l'ha mai detto tua mamma, tua nonna "Sii buono"? E lo sapevi cosa intendevano, no?
- Sì, ma. Ma erano almeno trentacinque anni che non ne sentivo parlare. E poi, non so...

Ecco, appunto.
Quando è stata l'ultima volta che avete detto a qualcuno che era buono senza avere la vaga sensazione di offenderlo?
Non si dice più Sii buono. Si dice Fai il bravo. Che è una cosa molto diversa, mi pare: un modo di comportarsi, non un modo di essere. Si può essere perfidi, e comportarsi molto bene.
E, soprattutto, è vagamente insultante: buono fa pensare a qualcuno un po' stupidotto, un ingenuone, uno sprovveduto, un candido, un mite forse un po' vigliacco.
O, peggio, a un paolotto, uno che va a messa e aiuta il don all'oratorio, uno che non dice le parolacce, non si masturba e non si interessa di politica.
Uno di quelli di cui mia nonna avrebbe detto È un po' un SanQuintino.
Ora se si pensa a una persona buona viene più o meno in mente uno pallido e un po' bisinfio, con grossi occhiali e andatura lenta, che mette via i sacchi del supermercato ben piegati e mai darebbe, mai, un pugno a qualcuno.
Qualcuno che fa melense opere di bene e non se ne intende di tecnologia. Qualcuno non molto interessato al sesso.
Di uno strafigo colto, abbronzato e muscoloso, di una bella donna tutta intelligenza e gambe, di un ragazzetto tatuato coi capelli in piedi e i jeans sotto le chiappe non ti verrebbe da dire È una persona buona. Eppure, perché no?
Eppure, no. Non si dice più. Sono anni che sento dire solo "No, sai, XXXX è davvero una bella persona".
Come se la bontà si fosse trasformata in un'attributo estetico dell'anima.

Non dico che sia giusto o sbagliato, non lo so. Solo, mi domando quando.
Quando è stato che abbiamo iniziato a usare questi giri di parole, questi strani eufemismi? Quando è successo che la bontà è diventata una cosa leggermente vergognosa?



(ad esempio io mi vergogno un po', a pubblicare questo post.)



Postato da: sphera a 08:08 | link | commenti (7)



venerdì, 07 ottobre 2011

Quest'estate ho avuto paura delle stelle. Qui non ce ne sono quasi più, naturalmente, ma lì ce n'erano tantissime, più di quante abbia mai visto, e nonostante ne cadesse qualcuna ce n'era ancora un firmamento di milioni. E mentre le guardavo ne vedevo sempre di più: la via lattea fatta di oggetti e non di luce.
Così, invece di chiudere gli occhi e girarmi su un fianco per dormire, ho deciso di addormentarmi ad occhi aperti. Supina, a tre metri dal mare, volevo tenere gli occhi spalancati sulle stelle e lasciare che a un certo punto si chiudessero da soli.
Ma quando iniziavo a scivolare nel sonno, e tutto si sfuocava e diventava buio, all'improvviso - forse un rumore di onda, forse un soffio d'aria - ritornavo di colpo, in un istante, sveglia.
E in quell'istante lì, come in una messa a fuoco di velocità sbalorditiva, rivedevo le stelle, tutte e una a una, che mi esplodevano negli occhi tutte insieme. Arrivavano di colpo, ed erano miliardi.
Ho dormito pochissimo, perché continuavo a rivedere il big bang. E ho avuto paura: l'universo era vivo e mi guardava.




Perché mi è venuto in mente adesso? Non lo so.

Postato da: sphera a 09:49 | link | commenti (5)

martedì 10 gennaio 2012

Settembre 2011

venerdì, 30 settembre 2011


Come il nulla nella storia infinita, il lupatoto avanza.
In altri paesi ha dei confini precisi: c'è la campagna, poi il lupatoto, poi la periferia residenziale, poi il centro città.
Il nord Italia, invece, è un unico gigantesco lupatoto.
Un capannone. Un gommista. Tre villette, messe un po' di sghembo una rispetto all'altra, una giallo poltiglia, una rosa confetto con mattoncini, una marròn con pilastrini. Un distributore. Un MercatoneBuonPrezz. Un altro capannone. Una rotonda. Una concessionaria di veicoli industriali. Cinque villette a schiera con vista sulla concessionaria. Un altro capannone, più grande. Un elettrauto. Un rivenditore di piscine. Due villette, una con giardino l'altra no, entrambe con tapparelle beige e lenzuola sui davanzali. Una rotonda con aiuola di gramigna. Un MercatoneCompraBen. Un terreno incolto, con un'auto abbandonata tra i barbansotti. Altri due capannoni, con cancelli elettrificati e cani feroci. Un cimitero. Un distributore con lavaggio auto self service. Una CasaDelLampadario. Una palazzina di uffici di tre piani con vetri fumè. Una prostituta mattiniera. Sei villette a schiera. Un ristorante cinese. Un capannone, piccolo. Un semaforo. Un campetto da calcio con una porta sola. Un villino dell'ottocento coperto d'edera. Sei capannoni, tutti grigi tranne uno. Un MercatonePaghiMen. Un distributore. Una concessionaria. Un lavasecco. Una villetta con tende a strisce e ampio posto auto. Una CasaDelDivano. Una trattoria. Quattro villette con araucarie in giardino. Un cantiere. Un'isola ecologica. Un orto. Un capannone. Un rivenditore di materiali edili. Un capannone. Una villetta. Un capannone.

Là dove c'era l'erba ora non c'è una città. C'è un lupatoto.
E avanza: ogni giorno una ruspa si sveglia e sa che dovrà spianare le fondamenta per un nuovo capannone, ogni giorno una villetta si sveglia e si trova davanti alla finestra uno svincolo neonato.

Per sapere se sei nel lupatoto c'è un semplicissimo test in tre fasi.
• Primo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti fermarti a fare la cacca.
• Secondo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti fare un picnic.
• Terzo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti volere fossero disperse le tue ceneri.

Se trovi l'uscita, scappa.





Lupatoto:

-.Beh, dovremmo essere arrivati, no? Il cartello della città era cinque chilometri più indietro.
- Sì sì, ci siamo quasi: questo è il sangiovanni lupatoto di XXXXX, tra dieci minuti siamo in centro.
- Questo è il cosa?
- Il sangiovanni lupatoto, questo posto qui di capannoni e mercatoni è come sangiovanni lupatoto: è un paese, sai.
- Hahahahhahhahahaahhaahah, ma smettila! Non può esistere un paese che si chiama così, l'hai inventato.
- Che scema. Certo che esiste. San Giovanni Lupatoto, è nel veneto.
- Hahahahahahahahah! LUPATOTO...! L'hai inventato! Hahahahaahahahhahaha!
- Ma smettila. Esiste, giuro, smettila di ridere come una scema.
- HAHAHAHAHAHAHAAHHAAHH!
- Quando andiamo a casa guardiamo su gugol e vedrai. Se esiste mi devi una bottiglia di pastis.
- LUPATOTO...! AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!

Esiste. Ma la parola è così bella, così perfetta che non ha sinonimi: adesso finalmente avete un nome, per quello che vi vedete intorno. E che quello che guardate si stia lupatotizzando sempre più in fretta non fa ridere, in effetti.

Postato da: sphera a 08:01 | link | commenti (8)


mercoledì, 28 settembre 2011

Ma voi lo sapevate che le ortiche non vi pungono se le toccate senza respirare?
Lo sapevo, ma non ci pensavo più da tanto. Poi ieri abbiamo fatto un giro nel bosco e mi è tornato in mente. Funziona, e non ho idea del perché. Forse ha a che fare coi pori della pelle, che quando inspiriamo si aprono come tante bocchine e se teniamo il fiato restano chiusi? O con l'anidride carbonica che ci si spande tutta addosso mentre respiriamo?
Non lo so, ma mi è venuto in mente che si dovrebbe provare anche con altre cose, con le meduse per esempio, e mi è spiaciuto non averci pensato al mare. Magari non avrei avuto il coraggio di toccarne deliberatamente una, ma credo di sì: dev'essere liscia come un budino freddo.
E poi ho pensato a tutte le volte che qualcosa ci fa male e ci dicono di respirare. A quando mia mamma facendomi le punture da piccola mi diceva respira, respira profondamente. E faceva malissimo. Magari a trattenere il fiato la penicillina non l'avrei neanche sentita. Magari anche se uno ti dà un pugno o dice una cosa cattiva, se non respiri non fa male. Chissà, bisognerà provare.
Intanto, sul margine tra il prato e il bosco c'era una luce tiepida, che aveva il sapore dell'uva gialla lasciata troppo matura sulla pianta, con una vespa che per ore la beve.
E niente, abbiamo accarezzato le ortiche per un po'. Poi siamo tornate a casa.

(foto di Marghe)