mercoledì 30 novembre 2011

Giugno 2006

lunedì, 26 giugno 2006

Il posto è a tutti gli effetti un'osteria, e con questo nome è conosciuta da molti, fino a Milano.
Il fatto che si definisca "Enoteca con piccola cucina" penso si riferisca al fatto che la cucina è davvero molto piccola.
Piccola di spazi e di passaggi stretti, e quando nei momenti di battaglia tra chi cucina e chi scodella, tra chi prende piatti pieni, chi riporta buttandoli scrosciando piatti sporchi e chi li sciacqua, a volte sono anche sei persone che corrono e si girano, in quei pochi centimetri tra i banconi e il forno.
E quello che è per me affascinante fino alla commozione è che tutta questa gente che fa molto velocemente tante cose molto in fretta non si urta mai: mentre scivoli ad aprire un frigorifero con la coda dell'occhio cogli e schivi con un guizzo d'anca chi ti passa davanti e si mette in mezzo a riempire un vassoio e con la stessa coda d'occhio cogli il suo simultaneo e simmetrico spostamento di piedi, di spalle, di bacino.
Se si dovessero tracciare con un filo tutti i moti le traslazioni e i movimenti, anche solo di una decina di minuti, ne verrebbe un gomitolo inestricabilmente aggrovigliato: eppure niente collide, in una danza vorticosa e fluida da dervisci, in una ginnastica di forchette, di sughi, di piatti unti e di padelle, coreografia istantanea adrenalinica e sudata.
Perchè in cucina fa caldo, ma davvero molto caldo. Dalla porta sulla saletta - deserta d'estate - non viene un soffio d'aria nonostante sia tenuta spalancata da un anello di cavo elettrico rosso e nero, dalla finestra e dalla porticina aperte sul cortile l'aria entrando si ferma, paralizzata dal vapore e dall'aria densa e spessa di altoforno. Quattro fuochi larghi con potenza da fusione, un forno enorme, due piastre roventi e una griglia incandescente, grandi frigoriferi ronzanti, una lavastoviglie che ogni tre minuti rigurgita vapore aprendosi su piatti bolliti e bollenti e cinque o sei persone che si muovono di fretta producono una quota di calore che riverbera a ondate tremule fino ai primi tavoli, al limitare del cortile.
A me il caldo non ha mai dato fastidio (è il freddo a innervosirmi fino alla rabbia irragionevole), trovo a volte - a volte, solo a volte - antiestetico il sudore, dal quale tutti ci si premunisce con abbigliamento il più possibile succinto, canottiere e braghette e vestitini a sottoveste sotto il grembiulone ma lo stesso, quando passato il furore frenetico delle ore di guerra esci a fumare una sigaretta in piedi appoggiato al tavolo di plastica nel buio, quello di servizio, senti l'aria della sera torrida di giugno come una brezza fresca che ti asciuga.
Il grembiule è sempre un po' grande e lungo per me, mi ci devo avviluppare e resta comunque pendente largo e sghembo e scelgo sempre quello bianco o quello rosso perché sono vestita di nero e il verde scuro mi pare troppo tetro.
Dopo alcune prove mi sono procurata un paio di infradito alte - non con il tacco, per carità, con una specie di zeppetta alta tutta uguale - perché se devi stare sei o sette ore in piedi senza sederti mai le calzature hanno una certa importanza, e se le ragazzette che servono ai tavoli facendo dentro e fuori possono, a quanto pare, usare scarpe da ginnastica io dopo averle provate e avere trovato i piedi a fine sera della consistenza di un tiramisù ho decisamente optato per tenerli all'aria aperta. La zeppa pertanto si rivela essenziale perchè non conviene avere qualcosa di nudo rasoterra in una cucina: non sono pulite, le cucine.
Vengono pulite, certo, ma dura finché arriva il grosso della gente: poi si sgoccia e sbrodola, si versa e si rovescia, c'è acqua di piatti e schizzi di sugo e salsa al pesto e gnocchi spiaccicati e bucce d'aglio e la mezza birra della betty.
Poi quando finisci, quando risuona l'ordine "Fanculo, adesso la cucina chiude, e basta", quando si spegne il fuoco sotto il pentolone dell'acqua della pasta, quando tutti lasciano lì tutto e vanno a bere un bicchiere di vino o una mediachiara, a fumare una sigaretta prima di tornare a pulire tutto e smontare e lavare i fornelloni e le piastre e le griglie, prima che qualcuno debba smaltire la montagna di teglie e piatti e per ultima cosa, la più odiata, alle due di notte pulire il filtro della lavastoviglie, quando finisci e col bicchiere di vino freddo in mano ti siedi finalmente, ed è notte e guardi nel vuoto per un po' di minuti per riprenderti e senti l'adrenalina sgocciolare via assieme al sudore, pensi che la fatica fisica, quella di braccia e gambe, quella di tenere con la testa attenta un ritmo tanto concatenato e rapido da non poter essere cosciente, l'essersi affidati ancora una volta nella bufera all'istinto innato delle dita, alla percezione non ragionata dei pesi e dei volumi e tempi, alla sapienza corporea delle giravolte, è quello che ti fa stare bene.
Sei nata per fare la cuoca e la manovale e l'ostessa, per usare in fretta e forte le mani, col cervello che scintilla di certezze in movimento, bambina mia, tu sulle scrivanie appassisci.

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martedì 29 novembre 2011

Maggio 2006

domenica, 28 maggio 2006

- Buongiorno, solo una cosa. Qui dice che cinque litri bastano per 40 metri quadri: si intende per una mano, vero?
- Cosa deve fare?
- Tinteggiare un muro.
- Sì, questo è ovvio.
- Appunto.
- Ma che muro?
- Bastano per una sola mano, giusto?
- Ma cosa deve fare?
- Tinteggiare. Per due mani ho bisogno dieci litri, vero?
- Ma cosa deve fare? Quanto grande è la stanza?
- Il muro. Trentasei metri quadri.
- Non è una stanza?
- No, è un muro. Penso intendano che bastino per una sola mano, mi conferma?
- Sarà mica un muro esterno?
- Sì.
- Ah, ma questa non va bene per gli esterni.
- Ma c’è scritto di sì. C’è scritto “Per interni ed esterni”.
- Sì, ma non c’entra. Venga, le faccio vedere.
- Guardi, non c’è bisogno, io volevo solo essere sicura che per due mani devo prendere dieci litri.
- Ecco. Deve usare questa, per esterni.
- Ah. Sì, l’avevo vista. Ma io non voglio una tinta plastica.
- Questa non è plastica, è al quarzo.
- C’è scritto che è plastica. C’è scritto “Plastica al quarzo”.
- Sì. Ma non c’entra. Lei deve usare questa, per esterno.
- Ma a me questa non piace. Non la voglio, plastica.
- Come non le piace?
- Mi fanno schifo le tinte plastiche.
- Ma come schifo? Guardi che l’altra le si sbiadisce!
- Appunto. Quello voglio: che si sbiadisca.
- Beh buongiorno, eh.

Se ne va, molto seccato, i lembi del camiciotto da SpecialistaBrico che svolazzano nervosi.
Ma non è che volessi fargli un torto: mi fanno schifo davvero le tinte plastiche. Mi inorridiscono i muri che con gli anni, il sole, la pioggia non cambiano, si sporcano e basta.
Le tinte di una volta non erano così: si fondevano alla materia del muro e poi scolorivano, venivano sbiadite dal sole dove batteva più forte, scurivano infarinate di microscopiche muffe e licheni nelle parti umide e all’ombra, si sgretolavano un po’ più qua che là. Nessun muro di vecchia casa è uniforme e triste come un vassoio di plastica: sono sfumati, marezzati, acquerellati, screziati.
Certo, pur rifuggendo quelle a base plastica purtroppo anche le tinte a base acqua oggi sono di fatto a formulazione chimica e quindi hanno una stabilità quasi totale, ma si fa quel che si può.
Avessi avuto più tempo e denaro mi sarei procurata quelle che fanno alcune aziende, totalmente naturali, che cambiano col tempo e hanno i colori caldi dei pigmenti organici e non quelli acidi da video della pigmentazione chimica (gli indirizzi delle aziende però li tengo da parte per un domani).
Intanto il muro l’ho pitturato – da queste parti gli imbianchini, correttamente a mio parere, li chiamano pittori – ed è venuto discretamente bene.
Non sono molto soddisfatta del colore però, troppo giallino chiaro. Eppure per saturarlo ci ho buttato di tutto, in quella tolla: acquarelli arancione e gialli, tempere ocra, terra di siena e d’ombra e due bustine di zafferano. Avevo in casa solo quelle due purtroppo, non ci avevo pensato. Ma quando lo ritinteggio ne metto almeno una decina, penso venga un bellissimo colore.
E magari a passargli vicino quando il sole lo scalda avrebbe un leggero aroma di risotto. O anche a leccarlo, magari.

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venerdì, 26 maggio 2006

Rust never sleeps

Perché ieri è stata una giornata rugginosa, di quelle che devi spingere per mandare avanti, e cigolano e slittano.
E cigolava ieri sera, molto rugginosa, anche l'armatura: quella che ti metti ogni mattina prima di partire per una interminabile sequenza di battaglie, alcune piccolissime e maleodoranti – come quella contro le innumeri merdine che i sei gattini disseminano ovunque – altre impegnative e sanguinose ma non meno sgradevoli. Parecchie solo estenuanti e noiose, guerre di posizione dove ogni giorno combatti per non perdere terreno senza mai riuscire a guadagnarne. E poi quelle lampo, inaspettate e violentissime: pochi minuti di fragore, gravi danni collaterali e identità dei vincitori del tutto incerta. Per non parlare di quelle non convenzionali, disseminate di trappole e asfissianti di armi chimiche.
Senza contare che alla lunga guardare attraverso la stretta fessura della celata diventa faticoso e l’alabarda provoca la sindrome del tunnel carpale.
E però si va, ogni mattina, tolta l’armatura dall’ometto dove l’hai appesa la sera, ben calato in testa l’elmo, due gocce di olio lubrificante alle giunture (quello per le macchine da cucire va benissimo), e via che si va, scintillanti sotto il sole, l’acciaio tanto lustro che da lontano fa la gibigianna.

Passa un giorno, passa l'altro
mai non torna il prode Anselmo,
perché egli era molto scaltro
andò in guerra e mise l'elmo...

Mise l'elmo sulla testa
per non farsi troppo mal
e partì la lancia in resta
a cavallo d'un caval.

La sua bella che abbracciollo
gli diè un bacio e disse: Va!
e poneagli ad armacollo
la fiaschetta del mistrà.

Poi, donatogli un anello
sacro pegno di sua fe'
gli metteva nel fardello
fin le pezze per i piè,

Fu alle nove di mattina
che l'Anselmo uscì bel bel
per andare in Palestina
a conquidere l'Avel.

Come fu sul bastimento
ben gli venne il mal di mar
ma l'Anselmo in un momento
mise fuori il desinar.

La città di Costantino
nello scorgerlo tremò;
brandir volle il bicchierino
ma il Corano lo vietò.

Pipe, sciabole, tappeti, mezze lune, jatagan,
odalische, minareti,
già imballati avea il sultan.

Quando presso i Salamini
sete ardente incominciò
e l'Anselmo coi più fini
prese l'elmo e a bere andò.

Ma nell'elmo, il crederete?
c'era in fondo un forellin
e in tre dì morì di sete
senza accorgersi il tapin.

Passa un giorno, passa l'altro
mai non torna il pio guerrier
perch'egli era molto scaltro
andò in guerra col cimier.

Col cimiero sulla testa
ma sul fondo non guardò
e così gli avvenne questa
che mai più non ritornò.

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martedì, 23 maggio 2006

Comunque poi al laghetto ci sono andata, l'altro giorno. Non si vede una casa sulle sponde, solo alberi e canneto e sotto i rami l'acqua incipriata di polline, nelle anse fitto come un tappetino.
All'ora in cui il cielo comincia a sbiadire inclinandosi come una tazza e sotto le piante è già quasi sera stanno sgranati lungo la riva, silenziosi, i pescatori. Una signora, anziana e massiccia, invece di un seggiolino come gli altri si porta una poltroncina di plastica col cuscino a fiori. Mi hanno detto che l'altro giorno ha preso una anguilla, bella grossa.
Noi abbiamo pescato cinque pescigatto, due persici sole raggiati e acuminati e due carpe regina, entrambe molto piccole. Una l'ho presa io, mi stava nel palmo della mano e aveva minuscole squame disegnate con un perfetto e sottile contorno nero, fatto a china. L'ho ributtata in acqua perché è un pesce prezioso che deve avere tempo di diventare molto grande. Quando sarà lunga un metro e grassa, e io avrò imparato a pescare i lucci, tornerò a salutarla.
Abbiamo ributtato tutto, tranne i pescigatto, che hanno la pancia gialla come un tuorlo d'uovo.
Adesso il pescegatto nuota nella boccia toccandola tutta con i suoi lunghi baffi neri. 
Fa molto, molto rumore con la bocca. E forse col tempo diventerà color papavero, perché gli do il mangime che si da ai pesci rossi.




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martedì, 16 maggio 2006

Bisogna anche sapere com'è fatto, questo posto. Com'è questo terrazzo sghembo, aperto su tre lati con la ringhiera con i ricciolini ma sottile che quasi non si vede, tanto che la prima volta la gatta è scappata dentro come se avesse paura, come se fosse un vuoto da cui si cade giù.
Anche cadendo però non si farebbe male, si è soltanto al primo piano che poi è anche l’unico perché sopra non c'è altro, solo il tetto e la soffitta che quando sarò più ricca diventeranno altre stanze, bianche e spioventi con le finestre che vedranno solo cielo.
Bisogna guardare giù in cortile per vedere com’è questa Brianza meticcia, come sono strane queste linde facciate da didascalica ristrutturazione svizzera - intonaco plastico in colori di torta tirato col righello intorno a persiane lucidate a specchio - affiancate a residui di cascina sbrecciata, consunte sbilenche sovrapposizioni di muri e finestre messi lì un po’ dove man mano servivano, con il laboratorio del fabbro in pensione dove lui lavora ancora ogni tanto il sabato mattina presto, con colpi sordi e stridori ossidrici, sotto i fienili con mucchietti di paglia smunta dimenticata da vent'anni raggiunti in bilico da scale a pioli smussate dalla pioggia.
E dall'altro lato balconi anni settanta stretti, con finestre spalancate su televisori sempre accesi che illuminano stendibiancheria affollati, risate magrebine e uomini che fumano appoggiati alla ringhiera verso sera, e nessuno che si sieda mai sulle seggioline di quei colori acidi che prende la plastica triste quando scarmuntisce al sole, appoggiate al muro marrone su cui si condensano salendo voci e odori di pizzeria a buon mercato.
Dietro ci sono le colline, vicine e fatte di alberi e boschi e uccelli, frutteti e vigne e sterrati ed erbe. Non è lontano il fiume, largo di correnti abitate da invisibili pesci siluro enormi come sommergibili alieni, terrori del locale pesce persico, è vicino il laghetto con le sponde di canneto folto e salici selvaggi e ontano nero, dove i pescatori aspettano in silenzio il luccio e la tinca, e che fiorisca la ninfea a piastrellarlo di foglie tonde e fiori impressionisti.
Ma qui davanti, un po' di lato, bordeggia la statale, flusso di camion quasi ininterrotto tra una casa e l'altra, e suona il cicalino da sveglia della gru dietro la strada, nel cantiere dove stanno costruendo un supermercato, no, delle case, no, delle palazzine coi negozi, no, non si sa: stanno costruendo però, la gru guarda come gira e tutte le volte che si muove ti avvisa, con lo stesso verso stridulo del forno a microonde.
Poi quando vai in paese vedi affissi cartelli che avvisano del ritiro di vecchi indumenti e carta e la cosa bella, quella che mi fa sorridere quasi fino a sera, è che nell'elenco dei punti di raccolta c'è la piazza della chiesa certo, c'è l'oratorio, ma poi c'è anche "Cornello, cortile della Sig.ra Ida".
Bisogna sapere come mi piace che possa bastare questo, che questo sia un posto dove tutti sanno qual è il cortile della Signora Ida.

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giovedì, 11 maggio 2006

Margherita, portata appositamente da me davanti alla radio nel momento culminante ascolta, emozionata, la proclamazione del Presidente della Repubblica, l'applauso. Le piace così tanto che mi schiocca un bacio, saltellando tutta come fa quando è contenta. Poi mi dice:
- È bravo?
- Sì.
- Che bello, però.
- A te piacerebbe fare il Presidente della Repubblica?
- Ma ce ne sono di femmine?
- In Italia per ora no, ma ci saranno.
- Ma possono???

Ecco, se cresciuta da una donna in ambiente decisamente progressista una bambina intelligente può fare una domanda del genere mi fa pensare che altro che quote rosa: è sui ragazzini che bisogna lavorare, perché nonostante tutto quello che si fa si trovano a vivere per gran parte del loro tempo in un mondo fasullo e distorto.
Ho chiesto in giro: non un solo insegnante ha ritenuto opportuno, in questo periodo, spiegare come si eleggesse il Parlamento o il Presidente o si formasse un Governo. Mi dicono che è in programma in un altro momento - o forse in un'altra classe, non ho capito bene.
Eppure a loro interessa, eccome. Ho risposto a tante di quelle domande in quest'ultimo mese che potrei presiedere la Corte Costituzionale.

- Sì, possono. Possono fare tutto quello che hanno voglia e sono capaci di fare. Tutti possono.
- Oh. BELLO.

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giovedì, 04 maggio 2006

Dunque, siamo germogliati.
Nascere è difficile, è faticoso, ma ogni tanto capita.
Capita più frequentemente in primavera, ma non sempre. Succede che ti senti un po' strano e un po' sbagliato, come ti stesse stretta la pelle, il guscio, e inizi a dibatterti, a girare in tondo attorno a te stesso, a secernere un lungo filo aggrovigliato di bava e di pensieri finché ne sei tutto avvolto. E lì dentro naturalmente non risulti molto comunicativo, più che altro sei concentrato, zitto e a denti stretti, a spingere e tirare, ad avvoltolarti e lottare con antenne piume e gemme, da far spuntare o da strappare via.
I bozzoli sono scostanti e irsuti, danno poca confidenza. Attaccati in cima per un niente come bucato steso alle intemperie, sballottati tra temporali e grandine, tra sonno metamorfosi giramenti di palle e arcobaleni, sono molto presi, hanno da fare.
Poi finalmente in una mattina di sole germogli e nasci, sgusci dall'involucro sospirando di sollievo, con le tue ali e zampe tutte nuove, iridescenti, metallizzate e pronte, che si muovono tutte insieme.
Sei diverso da prima, un po' più farfalla o un po' più ragno, con tre foglie di basilico, una d'aglio e due di ortica.
E ti spalanchi al vento e ti asciughi al caldo prima di svolazzare via tutto contento e indaffarato, adesso che il mondo è tornato a posto, tu sai esattamente dove sei e ci sono un sacco di tele nuove che non vedi l'ora di stendere tra un ramo e l'altro.
Certo, si sa che volte basta un vento forte a farle volar via. Vola di tutto, in queste stagioni: pollini e pappi di pioppo, polvere e ragnasse, piume di salice e fiocchi di tifa, rondini, soffioni di tarassaco, svassi e dirigibili.
Che le ragnatele sembrino faccende fragili, fatte più che altro di invenzioni e di saliva, questo noi ragni lo sappiamo bene.
Ma di questi materiali ne abbiamo in abbondanza, e anche di zampe e occhi e bocche, così dondoliamo e facciamo ridanciane giravolte, a testa in giù, appesi a un filo serico lunghissimo d'acciaio, tra l'erba e il noce.

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domenica 27 novembre 2011

Aprile 2006






martedì, 18 aprile 2006

Sono stata a vedere Magritte sabato e da allora ogni nuvola, ogni finestra, ogni albero nero contro il cielo mi fanno un effetto diverso. Come starci dentro, come vedere profili di colombe aquile e volti dove ci sono solo stelle, come vedere foglie con becchi e piume di uccelli germogliare sugli alberi.
Come questa primavera per mezz’ora calda e per un’ora gelata, che si rovescia di senso all’improvviso tra limpidezze turchine e nuvole fredde. 
Come tutti i significati che si rovesciano se li guardi da un’altra parte, se inverti la figura con lo sfondo, se scompagini i rapporti dimensionali e metti una nuvola immensa in un bicchiere: sarà che la nuvola non era così grande o sarà che il bicchiere contiene davvero tanto, tanto di più di quello che pensavi? Sarà che è giorno pieno, un giorno tanto scuro da essere illuminato appena da un lampione o sarà notte con un firmamento straordinariamente chiaro e luminoso?
E tu dove sei, dentro o fuori la cornice, tu fata ignorante con una candela che fa buio, tu che non sei un pomo e non sei una pipa ma forsi ridi dietro una mela, dietro una bombetta. Poi magari impari anche che roccia e vapore acqueo hanno lo steso peso, che l’essere solidi e massicci e impenetrabili vale quanto l’essere aerei e soffici e mutevoli, attraversabili e scompigliabili da ogni brezza.
In mezzo, a guardare come un sorriso, come la pancia di una lucciola, come il profilo di un calice di cristallo c’è la luna. Anche quando non si vede.

(Il titolo di un quadro era “Dio non è un santo”, e questo è fuor di dubbio.)

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giovedì, 13 aprile 2006

Quando non è più l’emergenza ma la prassi sentirsi dire “Tira via, tira via, non star lì: butta dentro, l’importante è che ci sia il prodotto, tanto che sia più ben fatto o meno nessuno se ne accorge” e in effetti hai la sgradevole sensazione che davvero nessuno se ne accorga, capisci, passa un po’ la poesia.
Se diventa fondante il principio “Nello stesso tempo in cui facevi una cosa puoi farne due, volendo. Con un po’ di impegno tre. Facendole male quattro. Se non vuoi restare a casa cinque”. Pagato la metà, ovvio. Se non ti va non c’è problema: ci sono flotte di stagisti che sono perfettamente adatti a far le cose male, a costo quasi zero. È un favore che ti si fa, a farti fare un così bel lavoro - un lavoro creativo, pensa! - e darti anche una specie di mancia, pensa come sei fortunato, cos'è che vuoi di più?
Ora: se qualcosa ti piace, ti diverti a farlo ma non ti dà di che mangiare si chiama hobby, non lavoro.
E se nemmeno ti piace più tanto, allora non si chiama in nessun modo. O forse masochismo, ecco.

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giovedì, 06 aprile 2006

Breve introduzione alla scienza della previsione del futuro

Qui non si parla, come dianzi, di cose vaghe e imprecise come i presagi - dei quali, si sa, la beffarda entità preposta alla gestione si diverte deliberatamente a ingarbugliare il linguaggio e i segni - qui si parla di scienza: di procedure affidabili, sperimentate e incontrovertibili.

Il futuro, come ben sappiamo, è doppio. Doppio nel suo essere una speranza e perciò necessariamente un timore: che non si avveri, o viceversa. Doppio anche perché non c'è ancora eppure già c'è, latente e in potenza in quello che è il presente e che viene dal passato. Doppio perché il saperlo prevedere è un'arte che se non ben padroneggiata non di rado diventa una disgrazia.
Duplice quindi è l'apprendimento e la pratica di questa disciplina che corre su due binari distinti, i quali portano ovviamente alla fine nella stessa direzione, e che ora andremo brevemente ad illustrare. Vogliate seguirmi con attenzione, per cortesia, giacché il tema è complesso.

Il primo campo d'azione della suddetta scienza si basa sul dato - accessibile a chiunque su indiscutibile e ampia base sperimentale - che quando ci si trova a prevedere un qualche avvenimento positivo esso ben di rado si verifica, mentre quando prevediamo uno svolgersi degli eventi a noi sfavorevole quasi sempre il pronostico si azzecca.
Ora, poichè alla nostra logica (siamo in ambito di scienza, non dimentichiamolo) risulta inaccettabile l'ipotesi che non solo l'universo sia centrato sullo svolgersi del nostro personale destino ma addirittura che vi sia centrato in senso negativo, pare a un primo esame inspiegabile il fenomeno di cui sopra, a meno di non presumere una connaturata malignità del fato, un accanimento nei nostri personali confronti che, via, ci appare oltre che improbabile un presupposto davvero assai lagnoso.

Le ragioni invece sono concrete e misurabili, e dipendono da altro.
Facendoci caso, nel momento in cui si esterna una predizione postiva quale "Ho idea che mi daranno un grosso aumento" oppure "Mi chiamerà, lo so, e mi dirà cose meravigliose" non è una vera previsione del futuro che si esprime, ma solo una speranza.
Di fatto quello che si pensa o dice non è "Prevedo che mi chiamerà" ma "Spero proprio che mi chiami". È in definitiva null'altro che un gratificatorio - e perfettamente legittimo, ci mancherebbe - coccolarsi, come un rigirarsi qualcosa di dolce sulla lingua.

Al contrario, se poniamo attenzione alla procedura mentale sottesa ad una previsione negativa ci rendiamo conto che quasi sempre questa è basata non su un vago e irrazionale sentimento bensì su segnali e indizi fattuali, ancorché solitamente non coscienti.
È ben noto, del resto, che i nostri sensi registrano una quantità di dati infinitamente maggiore di quella che poi perviene alla consapevolezza.
I criteri con i quali viene fatta questa cernita sono molteplici ma in misura piuttosto rilevante dipendono da ciò che ci aspettiamo - o desideriamo - percepire (intere branche di studi serissimi e approfonditi sono centrati sul come e perché la nostra percezione dipenda in certa misura dal nostro bisogno psichico in quel dato momento).
Perciò quando diciamo "Sento che mi licenzieranno" oppure "Me lo sento che mia moglie mi tradisce” è molto opportunamente che usiamo il verbo "sentire", perché effettivamente l'altro giorno quando siamo andati a sottoporre al capo un nostro interessante progetto i nostri occhi hanno ben registrato il fatto - nonostante il giornale fosse capovolto - che lui stava sottolineando gli annunci delle offerte di lavoro, ma l'informazione del tutto conseguente che l'azienda sia in difficoltà abbiamo preferito non assimilarla consapevolmente.
Così come il soffio di un profumo diverso che aleggia sulla giacca del marito o l'impronta, leggera ma ineludibile, di un succhiotto alla base del collo della fidanzata li abbiamo ben annusati e visti, ma sono rimasti al di là delle porte di quello che abbiamo avuto voglia di sapere.
Riemergono però come "sensazione" quando "prevediamo" cosa succederà, e se il futuro previsto in positivo è l'espressione rosea di una speranza fondata su null'altro che il nostro desiderio, la lettera di licenziamento o le corna del partner sono previsioni pressoché sempre azzeccate in quanto basate su dati del tutto reali e oggettivi, in nostro preciso per quanto inconsciamente o volutamente inconsapevole possesso già da tempo.

Con opportuno esercizio si riesce peraltro molto bene ad identificare e discriminare queste diverse componenti, dacché diventa agevole e spontaneo acquisire il primo livello di quest'arte, che consiste innanzitutto nell' esimersi dal fare previsioni positive e in seguito ad apprendere ad analizzare con lucidità e cognizione di causa gli indizi e i segnali - già tutti debitamente registrati da qualche parte e che si tratta solo di andare a ripescare - che ci portano ad una previsione del futuro negativa.
Passo successivo a questa consapevolezza è, ovviamente, l'agire in maniera tale da prendere adeguate misure affinché il pronosticabile evento nefasto non si verifichi: cerco un altro lavoro prima che l'azienda vada a fondo e mi licenzino, riconquisto/abbandono il partner prima che la sua infedeltà lo porti a mollare me.
Non che sia facile, intendiamoci: ci vuole allenamento, ma nessuno ha mai detto che predire il futuro sia una passeggiata.

La seconda branca teorica si basa sull'assunto - anch'esso sperimentalmente del tutto incontrovertibile - che quando prevediamo lo svolgersi di un evento questo non si verifica mai esattamente in quel modo, in quella maniera.
Ora, qui è necessario definire un fondamentale teorema:

La correttezza della previsione è direttamente proporzionale alla sua imprecisione. 

Se penso "Il mio fidanzato arrivando stasera farà un gesto carino" è piuttosto probabile che il pronostico si avveri: lui potrà dire una cosa tenera, o portare un piccolo dono, o dare un bacio particolarmente affettuoso e la previsione sarà stata in ogni caso corretta. Ma già se io penso "Stasera mi porterà un regalino" il campo si restringe, escludendo parole e bacetti, se prevedo "Mi porterà un mazzo di fiori" il pronostico sarà stato del tutto erroneo se invece porterà un libro o un disco, e se penserò "Mi porterà un mazzo di sette tulipani gialli" la previsione sarà giusta solo nel caso - davvero assai improbabile - che lui mi porti precisamente quel numero di fiori di quel preciso colore.
Il primo corollario di questo teorema è piuttosto noto anche ai profani: fai previsioni il più possibile vaghe e si avvereranno quasi sempre.

Ma noi studiosi naturalmente andiamo ben oltre:
se un evento ha tanto meno possibilità di realizzarsi esattamente come l'abbiamo previsto quanto maggiori sono i dettagli con cui è stato predetto, allora basta prevedere di un accadimento una grande quantità di particolari per rendere altamente improbabile il suo verificarsi.

Questo naturalmente risulta molto funzionale nel caso di avvenimenti che ci troviamo a temere.
Se per esempio si teme di essere licenziati basta prevedere i peggiori dettagli, quelli che più ci angosciano, ad esempio: "Mi licenzieranno. In tronco. Senza preavviso. Trattandomi malissimo. Senza buonuscita. Senza liquidazione. Senza referenze. Disattivandomi senza preavviso la sim aziendale su cui avevo tutti quei numeri importanti. Cancellandomi dall'hard disk tutti i miei video e file musicali senza lasciarmi tempo di copiarli".
Così come è opportuno non pensare mai semplicemente "Mio marito mi tradirà" bensì, con cura: "Mio marito mi tradirà. Con la mia migliore amica. Con mia sorella. Con tutte e due. E tutti l'avranno saputo da mesi e avranno riso alle mie spalle. E io li coglierò sul fatto. Nel mio lettone, tra le mie lenzuola preferite, quelle azzurre. A fare quelle cose lì che con me non ha mai voluto fare."
E via dicendo, e via particolareggiando.
Il secondo teorema non lascia margine di dubbio:

Può essere che non tutto non si verifichi, ma per certo non si verificherà tutto.

Salta agli occhi immediatamente l'utilità della procedura: saremo certi che almeno alcune delle peggiori sfumature ci verranno risparmiate.
La competenza, l'abilità, il virtuosismo si ottengono immaginando con dovizia di particolari le cose peggiori che temiamo accadano e non ci si stancherà di ripetere quanto l'attenzione alla assoluta minuzia sia importante, perché le cose che abbiamo previsto con estrema dettagliata cura si sa che non si avvereranno così - proprio così - mai.
Va prestata particolare attenzione, naturalmente, a che quello che si va prevedendo sia solo frutto dei nostri peggiori e immotivati timori e non provenga da una vaga - ma analizzandola oggettiva - sensazione: esemplificando, il prevedere che si verrà traditi con il migliore amico/amica bisogna esser certi che sia solo una paura e non la risultanza della percezione sottotraccia di quella volta che abbiamo visto senza volerlo vedere quello sguardo languido o quella carezza furtiva sulle chiappe.
Altrimenti si ricade nel primo caso e l'azione va di conseguenza condotta.

Ora, concludendo questa breve trattazione - non senza rimarcare l'importanza dell'esercizio costante, giacché l'acquisizione teorica è solo una parte di questa complessa disciplina - teniamo a far notare che le due branche di questa scienza, la Previsione del Futuro Negativo e la Previsione del Futuro Dettagliato hanno in comune un fondamentale aspetto:

- poiché nel primo ambito si considera di aver raggiunto la perfetta padronanza quando si sappia con geometrica esattezza discernere i dati percettivi che ci porterebbero ad una previsione del futuro negativa - e in quanto tale corretta - e li si sappia cogliere nel momento in cui codesti dati entrano in nostro possesso perciò in tempo utile per prendere adeguate contromisure, tali da modificare lo svolgimento degli eventi in senso diverso, a noi più positivo
- poiché nel secondo ambito si raggiunge la vera maestrìa quando si sia in grado di predire ciò che accadrà con tale precisa e calibrata abbondanza di particolari da renderlo assolutamente irrealizzabile in quella precisa forma

se ne evince che, in un caso e nell'altro, la più pura e alta scienza di prevedere il futuro si estrinseca nel momento in cui il futuro che avverrà sarà del tutto diverso da quello che il vero sapiente aveva pronosticato.

Ci vuol tempo e fatica ma ne vale la pena: la vera padronanza di questa dura disciplina sarà raggiunta quando finalmente nessuna delle previsioni che avrete fatto si avvererà.

Come ogni scienziato degno di questo nome non ho avuto esitazioni a sperimentare su me stessa, in corpore vili, la correttezza del procedimento e l'affidabilità dei risultati. Terrei però particolarmente in nome dei più alti principi del metodo scientifico ad avere quante più verifiche sperimentali possibile. Vi invito pertanto a prestarvi alla sperimentazione ampia e differenziata delle teorie suesposte, e a volermene cortesemente comunicare i risultati. Sui quali personalmente non ho dubbi, peraltro: ma fate cortesemente la prova, le prove, poi sappiatemi dire. Vi citerò nel discorso per l'attribuzione del Nobel.

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sabato 26 novembre 2011

Marzo 2006


giovedì, 16 marzo 2006

Talpe, libri.

Tornando su dalla stazione ieri ho visto nel prato - d'erba ancora tutta floscia e rada e smunta come i capelli di certi signori un po' in là con gli anni che sarebbe meglio li tagliassero bei corti - una tumultuosa serie di mucchietti di terra, freschi, e mi sono venute in mente due cose.

Anzi me ne sono venute in mentre tre, ma la prima è cosa da niente: solo la considerazione che le talpe si mettono in moto ben prima delle rondini, in vista della primavera.
La seconda discende appunto dal pensiero della talpa. Di talpe vere ne ho viste molto poche in vita mia, sono bestiole schive: due per la precisione, e una era morta. Dell'altra mi ricordo soprattutto il raspare sproporzionato delle unghie, troppo possenti e coniche, e la morbidezza commovente del pelo, paragonabile soltanto - tra tutte le cose che abbia mai toccato - a quella della pelliccia di un pipistrellino che ho trovato una volta a scuola svenuto dietro la lavagna e che ho cercato di far rinvenire dandogli carezze.

Però, al di là di queste limitate frequentazioni, la talpa si associa ad un ricordo per me tra i più violenti, che corrisponde a uno dei miei primi ricordi letterari. Molti anni fa tra le prime cose che ho letto c’era una raccolta di racconti di Tombari, tutti che parlavano di animali e che per questo motivo evidentemente furono ritenuti di piacevole lettura per una bambina. Di quei racconti non ricordo quasi niente, se non quello. E non mi ricordo affatto il racconto, la vicenda: conservo solo la descrizione, l'immagine della talpa a cui viene spaccato il cranio con un colpo di vanga.
Ho letto tante cose, da allora: storie di guerre e violenze efferate, di mutilazioni e morti, storie di aborti e di delitti, torbidi thriller grondanti sangue e viscere, moltitudini di omicidi più o meno perversi, minuziose descrizioni di ogni genere di ferite e di interiora. Eppure quello è stato uno dei pochissimi libri - e il primo - che ho chiuso non perché non mi piacesse ma perché c'era qualcosa, dentro, che non mi riusciva di poter sopportare.

Non era una questione d'età credo, e di conseguente impressionabilità: più o meno nello stesso periodo andavo con regolarità a prendere nella libreria - mentre la mamma era a far la spesa - i libri che mi era stato detto di non leggere perché "non adatti ai bambini" e nessuno mi ha mai impressionato. Colpit, sì, a volte stupito e non di rado spaventato a morte, spesso non sapevo nemmeno tutte le parole, spessissimo non ho capito affatto di cosa diavolo si stesse parlando fino a molti, molti anni dopo, ma quello è stato il primo che ho chiuso pensando "è troppo brutto per poterlo leggere".
Dove per brutto si intende esattamente quello che con questa parola intendono i bambini: non un valore estetico, tanto che l'essere sgraziati, deformi, goffi o incompiuti per loro sconfina facilmente nel buffo e nel ridicolo. Il brutto davvero per un bambino non è mai qualcosa che non è bello da vedere, ma qualche cosa che non si può guardare.

E questa precisamente è la cosa che mi è venuta in mente: che si parla frequentemente - si parla sempre - dei libri che abbiamo apprezzato e mai di quelli che abbiamo rifiutato.
Intendiamoci, non di quelli sui quali esprimiamo un giudizio negativo esercitando un abbozzo di critica pseudo letteraria  - che spesso è un modo circonvoluto di dire "non mi è piaciuto" - non quelli: di quelli ne parliamo eccome e soprattutto quelli li abbiamo letti. Così come abbiamo letto almeno qualche pagina di quelli che poi abbiamo chiuso perché ritenevamo noiosi o scritti male: nemmeno di quelli mi interessa. E neanche di quelli che non abbiamo letto affatto, rifiutati per stizza o pregiudizio, perché troppo osannati o perché sapevamo per certo che erano porcherie.
No, a me interesserebbe parlare di quei libri belli, ma che non siamo stati capaci di leggere perché erano troppo brutti.
Come quello lì, quello della talpa. Perché io so che Tombari era anche bravo: ma io quel libro l'ho chiuso. Come ho chiuso - per lo stesso rifiuto incoercibile, la stessa incapacità di sostenerlo, la stessa ripulsa - non molto tempo dopo Pel di Carota: altro romanzo innocuo da ragazzini di cui ancora adesso non so spiegare l'angoscia insopportabile che mi ha trasmesso.
Ho pianto per ore singhiozzando perdutamente con la testa tra le braccia, sul letto, per alcuni dei racconti mensili di Cuore, per qualche passo di Senza Famiglia e alcune altre lacrimevoli vicende strappacuore, ma me le son lette tutte, sorbendo l'amaro e delizioso calice fino all'ultima goccia.
È questo che mi piacerebbe sapere: quali sono, e perché, le cose che ti fanno disperare ma ti piacciono e quali quelle per cui non versi una lacrima ma non riesci a sopportare. 
Dov'è il confine, dove si ribalta la bilancia tra quello che sai - che vedi - che forse è anche bello ma che con tutta la testa e la pelle e lo stomaco rifiuti e quello che sai che è oggettivamente brutto, a volte orrendo, ma che sei capace senza problemi di guardare fino in fondo.
Parlando solo di libri, tanto per cominciare.

(L'altra cosa che mi era venuta in mente è meglio se la dico un'altra volta, mi sa.)

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martedì, 14 marzo 2006

Ci perdiamo lo stesso, ma ostinatamente continueremo a fare carte e mappe.
La mia, qui.
Tutte le altre, qui http://www.sacripante.it/007/

Ti ho fatto una mappa, vedi. L'ho fatta così mi puoi trovare, che questo mondo è così pieno di strade e non voglio che ti perdi, voglio che tu mi trovi.
Non sono tanto brava a disegnare, però mi è venuta bene: ci ho messo tutto, e ci ho messo tanto a farla.
In alto, lì, quella punta è la montagna, quella da dove arrivo. Non ho mai avuto tempo di raccontartelo bene da dove vengo, poi magari non ti importa nemmeno tanto, ma io l'ho messo sulla mappa, lo stesso.
L'ho fatta a punta perché non so che forma ha davvero, e perché era una montagna appuntita, di rocce e boschi freddi all'ombra, e quella lì è la mia casa. Non si vede granché, non me la ricordo bene, forse era anche quella in ombra, nel buco più scuro che fa il sole quando va dietro all'altra montagna grande. E quella che viene giù tutta storta così è la strada, piena di tornanti: in cima dove c'è quel punto si prendeva la corriera, all'angolo del bar, non lo so disegnare il bar.
È così la strada, che in corriera chi non era abituato gli veniva da star male, tutta a curve come un serpente, vedi. Come quella biscia che me lo ricordo ancora, che l'ho vista una mattina attraversare il sentiero e la Angiolina che saltava e strillava "La serp, la serp!" ma io invece ero lì ferma a guardarlo quel serpente grande, nero quasi verde che si muoveva come una esse, come un'onda nella polvere, e l'ho detto "Ma va, non è una vippera, mica morde, non fa spavento." Le vippere sono più piccole e cattive e fanno male. Quello era un serpe lungo e scuro che si muoveva come se il mondo fosse suo, e me lo sono ricordato quando il parroco a dottrina parlava di adamoedeva e della tentazione, l'ho pensato proprio così quel serpente, con la testa dritta.
E non ridere, che lo so che forse ti sembrano un po' ingenue queste mie storie di bambina, ma tu sei il mio amore e devi sapere tutto di me, per questo te le disegno sulla carta e le racconto.
Disegno la scuola elementare a metà discesa, un quadratino giallo, che lì mi pare che si vedeva il sole a volte. E poi la scuola media un po' più in basso nella valle, un rettangolo più grande, ma l'ho un po' sfumato col dito perché di quella mi ricordo poco, e chissà come ti sarei sembrata buffa se mi avessi visto allora, così piena d'ombra con un serpente d'oro a cui non smettevo di pensare.
Quella riga incerta è quella che porta alle professionali, piene di brutti voti e baci strani e cose a cui non ho voglia adesso di darti dei nomi, e poi diventa una riga fatta a biro che gira, infinite volte e spessa, intorno alla ditta. Non c'è niente da disegnare su quel posto: è un posto dove si lavora, e basta.
Ma lì dove vedi la carta stropicciata, e tutto quel calcare e cancellare e ridisegnare ancora, lì è dove sei venuto tu: quei segnetti sono i raggi, le vampe di luce e buio della discoteca e non posso disegnare il fuori, non posso mettere su questa cartina il punto in cui sei arrivato, non saprei mai come fartelo vedere, come farti vedere com'è stato bello e brutto.
È passato del tempo, lo sappiamo io e te, e non sono andata a scuola abbastanza per saper fare i contorni della paura e la vergogna - non di te, che di te non mi sono mai vergognata, amore - ma delle cose che dicono le persone, delle ragazze facili che fanno le operaie e poi si fan scopare la sera nei parcheggi.
Ma queste sono cose brutte, su questa mappa non le metto. Le ho scritte e cancellate con la gomma e la saliva, tanto forte che in quel punto, mi dispiace, ho fatto un buco.
Poi sono andata avanti, con tutti i dettagli ho disegnato da dove vengo e dove sono adesso: perché ti aspetto, perché non ho smesso mai di aspettarti, amore mio. E non ho smesso di pensare il tuo sorriso, che ci ho pensato così tante volte che lo so a memoria, come se lo vedessi, adesso. Ho provato a disegnarlo, in mezzo in alto, ma non mi viene mai abbastanza bello, quindi niente.
In basso, quasi sull'orlo, c'è un cerchio. L'ho fatto perfetto così, al primo colpo, io che proprio non disegno bene.
Intorno a quel punto c'è un contorno: lo vedi, vero, inciso forte con l'unghia, un solco. Perché è così che ci ripenso sempre a quel momento, con il dover ficcare le unghie dentro qualcosa, a fondo, e con un gemito tenuto dietro ai denti, che se avessi allargato il fiato tanto da farlo uscire mi avrebbe squartata, sai.
E dopo c'è tutto quello spazio, che è deserto ma che ho riempito di puntini. Per non lasciarlo vuoto, e perché poi ogni puntino è un giorno, piccolo nero senza dimensione e stretto, e sarebbero molti più di così ma non ha senso disegnarli, tanto hai capito, sei l'unico che mi capisce sempre, tu.
Da lì, guarda, prende forma questa traccia, che è quando mi è passata la tristezza perché ho pensato che potevo fare una mappa e allora mi avresti ritrovato.
Da lì parte il tratteggio, sottile di matita, però dritto. Dritto come la strada che ti riporterà da me, perché io la mappa l'ho portata, in una notte verso l'alba fredda e scricchiolante come quella, nello stesso posto, nel posto esatto dove ti ho lasciato.
Tu sai dov'è e la troverai: l'ho messa lì, nel cassonetto, amore mio.

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mercoledì, 08 marzo 2006

Non è vero che non esistano i presagi. Io nella mia ferma e solida razionalità ne faccio collezione. Certo non li cerco, mi capitano addosso. E il fatto che non li sappia affatto interpretare non li fa per questo cessare di essere segni inconfondibili di qualcosa di molto preciso che solo il mio attuale infimo stadio evolutivo mi impedisce di leggere con cristallina e geometrica chiarezza.

Giorni fa, una mattina, in una nube di nebbia piovosa c'era un uomo che faceva accurati esercizi ginnici nei pressi della panca di cemento in quell'aiuola a lato dell'incrocio. La valigetta posata a terra, da lontano lo intravedevo fare flessioni, quando mi sono avvicinata era passato ai piegamenti. Ben vestito e ben rasato, forse solo con i capelli un po' lunghetti dietro il collo, si piegava fino a toccare con le mani terra, le gambe ben dritte, una striscia di pelle nuda che nel movimento gli si scopriva su dalla cintura. La tondeggiante seppure non eccessiva linea delle cosiddette maniglie dell'amore avrebbe potuto spiegare la necessità di un po' di esercizio, ma l'impellenza di doverlo fare - senza fretta e con seria concentrazione - in uno zuppo opaco albeggiare ai margini del traffico mi ha lasciato uno strascico di pensieri perplessi nel gelo del mattino.

Mentre proseguivo la mia strada riflettendo sulla questione per terra ho trovato il muschio.
Metri interi di marciapiede ne erano costellati. Non ciuffetti o chiazze cresciuti in loco: con ogni evidenza pezzi staccatisi da qualche parte e caduti lì, alcuni per il dritto a mostrare un verde fitto tappetino, altri - pochi - per il rovescio, l'intreccio stretto di terra e radici tutto esposto e umido.
Ho alzato gli occhi per vedere un terrazzo, uno spiovente, una gronda da cui potessero essere arrivati: ho visto solo facciate dritte lisce e deserte di palazzi, cementi e vetri senza una sporgenza. Considerando che le zolle muschiose erano sparpagliate anche ben lontano dalla verticale del sottilissimo cornicione lassù in cima, peraltro all'apparenza immacolato e sterile, ho dovuto risolvermi a ipotizzare che dal cielo di tanto in tanto cada muschio.

Stavo pensando che mi sarebbe piaciuto essere lì quando cadeva con piccoli tonfi verdi sull'asfalto, quando mi ha sorpassato d'impeto, uscendo dall'ufficio postale, un uomo che senza interrompere il suo slancio si è voltato e mi ha detto, con un sorriso largo come il sole: Ha visto, signorina, ha visto com'è bella la vita quando si è liberi! Finalmente, bella signora, lo sa, ha visto, com'è bello!
E se n'è andato con un passo da uomo libero, sì, che anche non l'avesse detto si sarebbe capito: si vedeva che sorrideva anche guardandolo di schiena.

Voi non so come interpretate i presagi, ma io sono stata ragionevolmente sicura che sarebbero successe diverse cose, molte delle quali belle.

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venerdì, 03 marzo 2006

Primavera

Silvina tornò a casa verso le quattro e mezza e chiuse la porta, con tre giri e la catenella.
Attraversò senza accendere la luce il corridoio e andò a riporre per bene nell'armadio il cappotto nero, quello bello. Poi mise le pantofole e andò in cucina e lì si rese conto che non aveva più niente da fare.
La casa era a posto, sapeva di brodo, di caffè e di Pronto, pulita come un confetto: per far fronte come si deve a tutto l'andirivieni di persone per giorni si era alzata alle cinque del mattino. Perfino i centrini aveva lavato e inamidato, rigidi come tortine di zucchero sotto le biscottiere, le foto e i fiori secchi. 
In piedi tra il tavolo e l'acquaio si accorse che per la prima volta da quando arrivavano i ricordi non c'era nessuno per cui cucinare.
Ogni giorno l'orologio era stato diviso sempre in tante piccole giornate, ognuna da portare a compimento, la colazione, il pranzo, la cena. E quando c'erano stati i bambini una in più, anche la merenda.
Con le molte altre faccende che c'erano da fare in mezzo, certo, ma ognuno di quei tragitti giornalieri aveva la sua meta, il suo orario di cose da portare in tavola. Mondare il prezzemolo, sgranare i piselli: i primi servizi resi, nella sua memoria, al bisogno di arrivare caldi e giusti alla scadenza. Non dopo, bimba, adesso: che i piselli alla mamma servono subito, che è già ora di metter su la minestra.
La giornata era facile, divisa in pezzi così, come un tocco di burro. Tante cose da fare prima di pranzo e cena, che le ore vanno e non si deve sbagliare ad esser pronti per quelle impazienze brusche, per quella fame che si aspetta il piatto.
Aveva pur mangiato anche lei, e le era piaciuto. Ma non per quello era da fare: lei si era nutrita come nutriva il gatto, gli altri li aveva messi a tavola.
In tutta la vita aveva avuto da pensarci, cosa e come e quanto e per chi: i vecchi inappetenti e gli adolescenti ingordi, le golose zie tiranniche e i bebè per cui frullare, i bambini da far crescere e
gli anziani ipertesi, e un uomo che non lasciava sfuggire mai nessun errore, nessuna presa di sale mal dosata.
Così nel silenzio riflesso dal laminato e dal lavello, guardando l'asciugapiatti coi disegni di mulini appeso al suo gancino, alla ventosa, al muro, pensò che non aveva più nessuno per cui far da mangiare.
Quello che da quel giorno in poi sarebbe stato per lei e tutti i conoscenti il suo povero marito non avrebbe più dovuto avere una tovaglia, un tovagliolo, un posapentola appoggiato in fretta per non togliere la vista del televisore.
Silvina stava in piedi pensando che mangiare per forza alle otto non vuol dire niente, forse.
Mandò via l’idea, sbalordita non tanto della sua stranezza quanto del fatto che fosse così proprio possibile di mangiare un pezzo di fontina davanti al frigorifero e poi magari andare a letto, di pomeriggio, a leggere del matrimonio di quell'attrice e poi dormire.
Si passò le mani sulla gonna e guardò dalla finestra che c'era ancora luce ed erano già le cinque, si stavano allungando eccome, le giornate. Se sapevo – pensò -  se sapevo che aver morto il marito voleva dire fare quello che si vuole io gli volevo bene, era un brav'uomo, ma io lo avvelenavo tanti anni prima.


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Febbraio 2006


venerdì, 24 febbraio 2006

Dolcemente complicate.

- Sai, ieri sera ho sentito Pluto.
(i nomi sono di fantasia)
- Ah. E?
- E gli ho detto che con mio marito basta, che abbiamo deciso di separarci e che lui sono quindici giorni che è fuori casa.
- Ma sei scema?
(lo sconcerto non è provocato dalla disapprovazione verso una decisione del genere ma dal sapere che non è vero affatto)
- Eh. Non so.
(sorriso disarmante)
- Ma perché diavolo gli hai detto una cosa del genere, scusa?
- Non so. Non so cosa mi è preso. Così.
(sorriso ancor più disarmante)
- Ma forse non ho capito, spiegami bene. Hai deciso di separarti da tuo marito?
- No! Per niente. Anzi. Ho deciso di riprovarci - seriamente - con lui. Penso che sia ora che la finisca, con Pluto.
- Secondo il mio personalissimo parere dovresti finirla con tutti e due quei poveretti, visto che non ami né l'uno né l'altro - e, per inciso, è da due anni che non vai a letto con l'uno e da sei mesi con l'altro, il che alle persone normali sembra renda un po' inutile la compresenza di un marito e di un amante - ma lo sai, ne abbiamo già parlato.
- Sì, sì, lo so. Dovrei, è vero. Ma posso mica rinunciare alle mie sicurezze così. Lo sai, io non mi ci vedo a cavarmela da sola, dai, lo sai.
(sorriso disarmantissimo, da coniglietto neonato)
- Lo so sì. Ma si può sapere perchè hai raccontato al tuo amante una palla così?
- Mah, mi è venuta, non saprei. Volevo metterlo alla prova, ecco, credo.
- Alla prova. Un test, insomma: così, solo per dire, visto che comunque hai deciso di mollarlo. Ma alla fin fine il test che risultato ha dato? Lui cos'ha detto?
- Ha detto che cazzo così d'improvviso, dopo tre anni, senza avvisare, senza parlarne, eh cazzo.
- Beh, comprensibile, direi. Ma nella sostanza?
- Mh. Ha detto che fosse ben chiaro che io stavo lasciando Topolino perchè il matrimonio era finito, a prescindere.
- A prescindere.
- Sì, a prescindere. Cioè, lui non voleva avere responsabilità, in sta cosa.
- Diciamo che, sapendo che tu appunto non sei quella che sta da sola - avendo tu detto e ripetuto, in ogni occasione e a tutti, che dai sedici anni in poi non sei mai stata un giorno senza un uomo avendo sempre mollato uno quando ne avevi un'altro a prenderne il posto - diciamo che ti ha lasciato intendere che non era da pensare che domani tu ti trasferisca armi bagagli e bambini a casa sua?
- Ecco, una cosa così. Mi ha un po' deluso, sai.
- Sì beh, ma mettiti nei suoi panni: per anni ti ha detto di tutto e di più (anche molto di più, perché io parole come adorazione, venerazione, idolatria, le userei con una certa cautela) e tu tutta così, tutta casa e famiglia, tutta ma i miei bambini, tutta io non gliela darò mai perché non sono un tipo di quel genere, poi gliela dai - e passi, questo era scontato fin dall'inizio - poi lo fai ballare su e giù e vienimi a accompagnare e chiamami e regalami un anellino e questo e l'altro e ma io non posso separarmi non posso non so se posso non posso proprio ma se andiamo a vivere insieme poi i bambini come fanno con la scuola ma no ma no non posso e poi - tac! - di punto in bianco gli dici: eccomi qua. L’hai colto di sorpresa, poveretto.
- Sì, sì. Ma sai.
- E poi comunque, e a prescindere da tutto: era una bugia! Potrei capire se fosse vero, tutto l'insieme mi convincerebbe poco in ogni caso, però potrei anche capire... ma santo cielo, non si dice una bugia così. Non si dice a uno "eccomi qua in pacco dono tutto per te" nel momento in cui si è deciso di fare esattamente il contrario, precisamente quando hai deciso di lasciarlo!
- Eh, sai che io son fatta così. Sono limpida.
- Limpida?
- Massì: dico le cose come mi vengono, non sto tanto a ragionarci. Sono istintiva, impulsiva, io. Sono limpida.
- Limpida. Oh mamma mia. Ma adesso cosa succede, scusa?
- Mah, niente. Visto che lui si è comportato così, che mi ha deluso, mi sono ancora più convinta che sia il caso di mollarlo.
- Ma cosa gli dici, no guarda, fa come non detto, è rientrato tutto, ho deciso che tengo in piedi il mio matrimonio, è meglio che lasciamo perdere, ciao?
- Sì, proprio una cosa del genere, pensavo. No? Dici di no?
- Senti, mi hai fatto leggere un messaggio in cui, tutta circonfusa dalla luce della pura verità, dicevi di essere sincera e onesta e di esserlo stata sempre e rimproveravi lui che invece eccetera eccetera. Adesso io non dico, uno fa come crede, ma tanta limpidezza, tutta sta sincerità, dove cazzo la vedi?
- Beh ma dai, finché uno non sa che non era vero per lui sono sincera. No?

(il dialogo è assolutamente reale, parola per parola e risale a stamattina N.d.R)

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martedì, 21 febbraio 2006

Il Dottor Sicumera sa pochissime cose ma esprime con forza opinioni su tutto. Non legge un libro da troppo tempo per ricordarsi quale sia stato l’ultimo, non ha una sola opinione che non sia un luogo comune, non inizia una sola frase senza che tu sappia esattamente come la finirà. È un brav’uomo, ma lo strangolerei.

La Marchesa d’Incoerenza prende ogni due ore una decisione fondamentale e definitiva. Decide delle vite sua e altrui sull’onda della istantanea ispirazione di ciò che in quel momento desidera di più, e se le chiedi cosa secondo lei desiderano gli altri spalanca gli occhi sbigottita: non capisce la domanda.
Fortunatamente poco importa, perché mentre prende di continuo drammatiche risoluzioni sul da farsi nel frattempo non fa assolutamente nulla. È una brava donna, ma la butterei giù dal balcone.

Il Capitano Querulo
La Contessa Sfolgora
Il Cavalier Fastidio
Il Principe Roverso
La Dama Saccarina

ve li racconto un’altra volta, che oggi il tempo è sì grigio e bagnato come una lumaca ma va tanto veloce che slitta, in curva, sulla bava.

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lunedì, 13 febbraio 2006

La neve è ancora tanta, raccolta in mucchi impervi ai lati della strada. Appoggio i sacchetti della spesa sulla brina dell'asfalto, davanti al passaggio a livello chiuso sui due treni fermi.
- Signorina, mi scusi... - È un giovanotto, quello dell'agenzia immobiliare all'angolo, e tiene per mano una donna minuscola e vecchia, dritta come un fuso sugli stivaletti bassi da bambina che arrivano a metà dei polpacci, nudi sotto una gonnella sghemba e una giaccavento troppo grande - da uomo, sembrerebbe.
È tanto piccola da guardarmi dal basso in alto, con occhi turchini sotto una spuma di riccioloni bianchi. Sorride tutta contenta: ha tre denti, ma sono molto allegri.
- Mi scusi, le spiacerebbe accompagnare lei la signora di là dai binari, che io avrei un po' fretta...?
- Ma certo, volentieri.
Appena sente il mio assenso lei lascia l'uomo e mette veloce la mano nella mia, asciutta, ferma e calda.
- Ecco, brava, bella. Grazie, amore, vedrai che non la disturbo.
- Ma ci mancherebbe, signora.
- Aspetta però, vero, bella.
- Ma sicuro. Aspettiamo che vada via anche l'altro treno, poi che alzino le sbarre, poi passiamo.
- Ecco sì, bella. Grazie. Sono risperata, sai, amore?
- Oddio, e come mai?
- Perché mi si è rotto il gasso.
- Beh ma lo sistemeranno, non si preoccupi... Ha chiamato, vero?
- Sì, la Rosa ha chiamato, hanno detto che vengono alle una, hanno detto. Sono risperata. Per il gasso, sai.
Sorride allegra come un fringuello mentre lo dice, e poi la Rosa ha chiamato quindi non penso ci sia di che preoccuparsi.
- Ecco, passiamo adesso.
- Sì bella. Che gentile che è, signora. – Occhioni spalancati limpidi come appena lavati, e fiduciosi come la sua mano stretta.
- Ma si figuri. Aspetti, facciamo passare anche il camion.
- Sì, amore. Mi accompagni dalla Nicoletta, bella?
- Ma certo. Se mi dice dove sta la Nicoletta, certo.
- Lì, appena avanti. È vicino, vedrai amore, non ti disturbo tanto.
- Ma che disturbo, ci mancherebbe.
- Lo vuoi il caffè, bella?
- No, grazie, davvero, vado a casa. Magari un'altra volta, volentieri.
- Vedi. Vedi che ci sono, le brave signore. E che belli capilli che tieni, amore.
- Oh, grazie. Sono belli anche i suoi.
Ride e si ferma davanti all'arco di un cortile. Sfila la mano dalla mia e sistema la gonna.
- Ecco, adesso mi puoi lasciare, bella, sta qui la Nicoletta, da qui sono capace.
- È sicura? Non vuole che l'accompagni fino là?
- No, no, da qui riesco da sola. È stata così gentile, bella, così gentile.
- Si figuri, per così poco. Sicura che non preferisce che l'accompagni?
- No, da qui so fare. Sei stata proprio brava amore, ciao, bella, grazie.
- Ma prego, arrivederci.
- Ciao bella, ciao amore. Cià un bacetto, cià - Si alza in punta di piedi e prendendomi la faccia tra le mani mi schiocca un bacio su ogni guancia. Ha un buon odore di canfora e stufa.
- Arrivederci, bella, arrivederci, non ti ho disturbato tanto amore, hai visto, arrivederci!
Fa ciao con la mano senza voltarsi, a passi piccolissimi nella ghiaia del cortile, vecchio cherubino sdentato che si fa tenere per mano perchè gli fa spavento i treni.

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martedì, 07 febbraio 2006

La mie sono arti di battaglia.
Mie sono le millenarie ripetute guerre di occhio e lama per conquistare un territorio palmo a palmo, mio il rischio di finire, ogni volta, con la gola squarciata nella gloria buia di un fosso, miei sono gli arcani geometrici dei corpo a corpo vischiosi di tensione e di sudore, mie le esauste vittorie che lascian sulla lingua lunghe bave di sconfitta.
Son morto in mille scontri, nel cozzo violento che non lascia scampo mille volte ho saputo com'è il buio, e mille volte son tornato zoppicando, lasciando me morto sul campo, tra i relitti.
Ho sempre saputo come dominare torme di uomini, tutti diversi e tutti da tenere in pugno, che se non li tieni sono loro, che un attimo prima ti avrebbero seguito oltre l'inferno, loro a massacrarti, se solo fai uno sbaglio.
Ho saputo e voluto combattere contro me, contro il mio corpo stesso che mi ordinava di fuggire, e la fierezza di essermi vinto non ho permesso a nessuno dei miei nemici di vederla.
Mia è la cruda verità del tagliare i ponti, dell'avvelenare i pozzi, la lacerata gioia del non poter tornare indietro. Mia è la sapienza della ritirata, dell'attesa che non è una resa ma il taglio gelato che aspetta, tamponandosi il sangue, la vendetta.
Sono mie e soltanto mie le arti della guerra, del piegare con un solo sguardo chi è certo e tronfio di averti conquistato, mio il potere della schiavitù e della preda.
Mie da sempre spada e ferita, corazza e piaga, pugnale affondato nelle viscere e fiotto di gioia insostenibile.
Sono mie le battaglie, è mio il sarcasmo del fate l'amore e non la guerra, mio sotto i platani del viale, io che mi chiamavo Marte e ora, se hai il coraggio, son Martiñha.

(da un gioco che ipotizzava il possibile destino degli dei)

martedì 22 novembre 2011

Gennaio 2006


lunedì, 30 gennaio 2006

Il treno parte d'inverno. Un inverno crudo e candeggiato, imbozzolato da una crosta di ghiaccio granulosa e stretta, dove l'acqua del fiume è lattiginosa e grigia, quasi spessa, indecisa se addormentarsi in un gorgo congelato. La pianura e fin su, sulle colline, è irrigidita e muta dalla neve che riflette tutta la sua assenza di colore su un cielo smorto di fatica.
Poi subito dopo Borgotaro entri nel tunnel ed esci ficcato a forza fino in fondo dentro una impensata primavera.
Pochi minuti di oscurità segnano il confine tra due stagioni opposte: il cielo è blu e risplende, prati e pendii sono già verdi e il torrente ha acqua viva e azzurra, gonfia di riccioli languidi e vezzosi. Tutto è giallo di sole e di stupore.
Al ritorno è la stessa cosa, inversa, passi sferragliando dallo sfolgorio all'annichilimento, da una primavera che già corre tutta indaffarata ad un inverno che sembra immobile per sempre.
E mi piace così tanto questo passaggio così veloce e sorprendente che resterei a giocarci non so quanto, correndo nella galleria a sporgermi un momento sulla neve per poi girarmi in fretta e precipitarmi di là dove è già tre mesi dopo, avanti e indietro, correndo a piedi tra una stagione e l'altra.
Magari anche fermandomi ogni tanto nel mezzo, al buio, a respirare forte col fiato che se mi volto da una parte si condensa e se mi giro dall'altra già sa di terra bagnata ed erba. Proprio nel mezzo, sul confine.
Perché i confini esistono, ma solo quelli che noi non stabiliamo.
Ogni confine che noi, poverini, dichiariamo è sempre e solo una convenzione: di qua io tu stai di lì, adesso lavoro e poi riposo, ieri amorosi oggi coniugati.
Facciamo finta, tiriamo delle righe col gessetto che l'universo allegramente oltrepassa infischiandosene - o forse nemmeno se ne accorge - del nostro cipiglio di sfida fiera e indomita.
E ne traccia altri di confini, quelli sì veri e reali: quelli che a valicarli tutto cambia. Li traccia e li nasconde, invisibili e affilati e solo quando sei dall'altra parte scoppia a ridere e con uno sberleffo
ti mostra quale impensabile frontiera hai attraversato senza nemmeno accorgerti, mentre leggevi il giornale o aspettavi venisse su il caffè, mentre pensavi ad altro - che quasi sempre poi si pensa ad altro,
a farci caso.
È la linea precisa e tesa come un filo sottilissimo d'argento che spezzi passando con le tue grosse scarpe e prima il natale era magia e dopo è rito; prima credevi qualcosa e poi sai bene che non era vero; prima c’era un virus ed ecco, è mutato; prima pensavi fosse amore e poi è già quasi un fastidio; prima qualcuno era lì così che semplicemente c'era e poi lo ami.

Passi da mille inverni a mille estati senza mai riuscire a capire quale sia quel punto preciso della galleria. Anche se ti fermi e stai attento: senti solo il tuo respiro e qualche goccia d'acqua cadere e il rumore lontano di un treno che sta arrivando, forte.


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sabato, 21 gennaio 2006


C'era una filastrocca, quando ero piccolissima, che iniziava con: Chiccolino, dove sei? Sotto terra, non lo sai? E lì sotto non fai nulla? Dormo dentro la mia culla...
Non ricordo le parole, poi, ma il chicco spiegava che doveva dormire sotto terra per un po', prima di germogliare e crescere e diventare una spiga e regalarci tanto grano eccetera eccetera, poi il sole dell'estate e le stagioni e le spighe d'oro del raccolto e via dicendo.
Sono sempre sul punto di recitarla (poi mi trattengo, ché le filastrocche da scuola materna degli anni sessanta non sono considerate argomenti validi a suffragio di importanti tesi esistenziali, me ne rendo conto) ogni volta che qualcuno mi chiede cosa sto facendo, riguardo a una certa questione o l'altra.
Non che io sia, di mio, inoperosa: faccio milioni di cose, perlopiù sovrapposte e intrecciate l'una all'altra in complicati arazzi dei quali già tenere il conto dei fili e nodi e intrecci è cosa che necessita di concentrazione, figuriamoci il pensare di seguire un disegno, ancorché elementare.
Sono anche capace, quando mi pare sia il momento, di impugnare scuri e falci e compiere azioni molto attive e vigorose di potatura e taglio, di innesto e fienagione.
Però pare non basti, pare che sia assolutamente essenziale stare sempre facendo qualcosa riguardo a tutto: non ci possono essere, mi si dice, fili e spolette che in certi momenti restino inoperosi, che stiano ad aspettare. Devi fare qualcosa, ma come non fai niente, fai qualcosa, non importa cosa, non aspettare, muoviti.
Non so, io non sono convinta. A me non pare brutto aspettare, soprattutto non mi pare tanto vergognoso, quasi ai limiti dell'immorale.
Nemmeno aspettare un treno mi spiace, o un aereo o una persona: mentre aspetti il treno che sta arrivando non c'è bisogno che cammini avanti e indietro sulla banchina muovendo su e giù le mani per farlo arrivare prima, o più bello e veloce. Ho atteso treni e notizie e navi assieme a persone fuori di sé dall'impazienza, che nel furioso andirivieni affaccendato di sedersi e alzarsi e andare a controllare qualcosa e poi tornare trovavano il tempo di guardare con occhi fiammeggianti di disapprovazione il mio star seduta ferma ad aspettare.
La maggior parte della gente che conosco tripila quasi in continuazione (voce del verbo tripilare: fremere di irrequietezza, agitarsi inane in attesa di un evento rispette al quale nessuno dei tuoi movimenti o atti ha la benché minima influenza). Non vedo nulla di male nel tripilare, beninteso, se si esclude il leggero fastidio dovuto al rumore e allo spostamento d'aria provocato da tutto questo affanno. Solo, non capisco perché dovrebbe essere un dovere, un obbligo.
Penso che ci siano semi sotto la neve che aspettano, e l'aspettare è un lavoro immoto ma vitale, è un gocciolìo lentissimo di vasi che si riempiono, è il movimento impercettibile e costante che lima percorsi di cerchi finché siano perfetti, è il discorso muto e intenso di cellule che dal nulla inventano cosa potranno diventare.
- Cosa facciamo intanto, santodio, cosa facciamo, facciamo qualcosa, cosa facciamo, cosa fai?
- Aspettiamo.
- Io mi stufo ad aspettare.
- Io no.

Postato da: sphera a 10:41 | link | commenti (21)

giovedì, 19 gennaio 2006

Grammatica della notte

La notte, però, è sgrammaticata.
È -e lo sa- nome molto comune di qualcosa, troppo femminile per esser singolare, primitivo perché non tollera diminutivi, collettivo come nessun'altro, concreto e astratto insieme.
La notte è sgrammaticata. È voce di tutti i verbi, prima e ultima coniugazione, ogni persona plurale, modo infinito, tempo solo raramente imperfetto.
La notte è sgrammaticata. È aggettivo possessivo, qualificativo, cardinale, è sempre superlativo, è sempre assoluto.

La notte è tanto sgrammaticata che da sempre sta dietro la lavagna. Dall'altro lato.

Postato da: sphera a 12:16 | link | commenti (7)

venerdì, 13 gennaio 2006

L’aborto è legale, ci mancherebbe.
Però per evitare che le donne nella loro connaturata quanto leggiadra spensieratezza ne facciano uno svago per pomeriggi di noia, si procederà ad effettuare l’intervento senza anestesia, con diffusione di adeguata colonna sonora di ninne-nanne infantili e vagiti neonatali.
All’atto della dimissione verrà consegnato il frutto del peccato, posto in formalina in barattolo trasparente con coperchio rosa o azzurro.

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martedì, 10 gennaio 2006

Che noi due ci saremmo dovuti incontrare era scritto nel libro del Destino.
Solo che quella volta Destino era uscito senza ombrello e si è preso tutto intero l’acquazzone. Per quanto avesse cercato di ripararlo sotto la falda del soprabito il libro gli si era inzuppato tutto, fradicio.
L’aveva messo ad asciugare naturalmente, sul terrazzo, al sole. Ma con tutte le cose che aveva avuto poi da fare, nella furia se l’era dimenticato lì per quattro giorni e l’aveva ritrovato tutto cotto e incartapecorito, cosparso di cacche di passeri e merli.
Dopo averlo per quanto si poteva spazzolato, anche per levare la muffa ostinata che aveva incollato alcuni margini arricciati, era bastato lasciarlo incustodito mezz’ora sul tavolo della cucina perché sua moglie Fatalità, soprappensiero, ci scrivesse sul dorso la lista della spesa e dei numeri da far uscire al lotto. Non si seppe mai, invece, chi fu tra le due piccole Fortuna e Sfiga a strappare pezzi di pagine per farne barchette: negarono recisamente, l’una accusando l’altra come sempre, con ostinazione, precisando che comunque si trattava solo di pezzettini e non c’era scritto quasi nulla.
E dire che già non era in buono stato, dopo quella vacanza in cui gli era venuta la malaugurata idea di portarselo in spiaggia, e non era mai più stato in grado di scrollarne del tutto la sabbia che si era insinuata tra i fogli e fin nella rilegatura, che da allora era gonfia e scricchiolava. Probabilmente era stata la presenza di quella sabbietta che aveva ispirato il gatto, qualche tempo dopo, ad utilizzarlo non soltanto – come aveva fatto fino ad allora – per farsi le unghie, ma anche come ausilio igienico.
Cosa che non aveva mancato di sottolineare nonna Nemesi quando dopo averlo cercato per giorni invano si era scoperto che il volume era sotto il cuscino della sua poltrona - per sostenerle le reni, aveva affermato risentita lei, ci fosse mai qualcuno che le desse retta quando diceva che le dolevano - ma ecco diosanto da dove veniva quel cattivo odore.
Comunque non è poi stata del tutto colpa sua, l’averlo dimenticato su quel treno: sarà anche vero che il Destino non dorme mai, ma qualche volta gli potrà ben capitare d’essere insonnolito. Del resto aveva anche fatto tardi la sera prima, come al solito, giocando a dadi col buon vecchio Fato (e poi sul treno faceva anche davvero caldo, insomma, una sonnolenza…)
Gli era toccato riempire moduli e far denuncia e poi andare all’Ufficio Oggetti Smarriti un’iradiddio di volte prima che venisse ritrovato, sul vagone rimasto dieci giorni nel deposito prima che qualcuno si decidesse a farci le pulizie.
E probabilmente uno dei barboni che ci dormivano se l’era sfogliato per passare il tempo, o addirittura l’aveva usato come guanciale, perché quando glielo han restituito era sfasciato e unto ancora più del solito ed emanava un odore sospetto, oltre a conservare rinsecchite tra una facciata e l’altra un paio di cimici schiacciate.

Perciò vedi, non c’è da stupirsi se quella pagina, la nostra, è confusa al punto da essere pressoché illeggibile, non c’è da meravigliarsi, no.

Postato da: sphera a 12:44 | link | commenti (10)