sabato 18 febbraio 2012

Saponette

La cognata che ha il negozio di cose cosmetico erboristiche ha regalato ad ognuno per Natale uno scatolotto pieno raso di bustine di campioni. Tra tutti saranno mille, forse di più. Sono tanti e buoni e abbondiamo e largheggiamo nell'usarli. Non sono però coordinati, quindi al profumo di rosa c'è il bagnoschiuma ma non la crema corpo, agli agrumi c'è la crema ma non l'acqua di profumo o lo shampoo, e così via.
Perciò succede che tu che sai di The bianco, Pompelmo e Neroli fai colazione assieme a Peonia Iris Vaniglia e ti siedi sul divano accanto a Legni Fruttati Dattero e Mirra dopo aver incrociato in corridoio Liquidambar Corteccia Muschio.

E questo mi ha fatto venire in mente una cosa che ho letto anni fa, forse un'intervista, non mi ricordo a chi. Costui era stato lunghi anni prigioniero in un carcere, un gulag o qualcosa del genere e tornato in libertà ne raccontava.
Quelo che mi è rimasto impresso, tanto da ricordarlo dopo anni, è che diceva che sì, il cibo scarso e pessimo, la mancanza di una donna e di camminare all'aria, i libri e la musica, sì, certo. Ma che quello che in tutti quegli anni lui aveva sognato, quello a cui pensava immaginandosi quel momento futuro, quello che era per lui l'essere fuori di lì, la gioia della libertà normale, era una saponetta. Diceva che nei momenti di sconforto lui pensava che esiste al mondo - esiste fuori di qui, un giorno anch'io, di nuovo - una cosa come lavarsi con l'acqua calda, e una saponetta profumata, una saponetta forse rosa con un buon odore.

Siccome io penso spesso ai Maya. Non perché creda nella loro presunta profezia, ma perché mi serve per fare il gioco di quello che ritengo indispensabile, quello che tutto sommato è superfluo, quello di cui potrei fare a meno.
E mi serve per esercitarmi nel gioco - difficile questo - del non dare niente per scontato.
Perché tu dai per scontato di avere luce elettrica e acqua calda e invece non serve la fine del mondo, basta un po' di neve e non le hai più. Dai per scontato di avere genitori, di avere un amico, di avere capelli, di avere un posto asciutto per dormire, di avere tacchi alti e posti per camminarci, di telefonare a chi vuoi e avere internet come fosse casa tua, di avere tutta la musica che ami, di non aver la cellulite, di avere libri e shampoo, di poterti permettere di essere vegano, di avere opinioni e qualcuno a cui raccontarle, di avere assorbenti  e brugole e occhiali, di avere il tuo amore. E poi magari non è detto, invece.

Perché tra tutti i buoni propositi quello di non dare niente per scontato è sempre il più largamente disatteso.

venerdì 10 febbraio 2012

lavoratori di tutto il mondo.


Si parlava di lavoro, ultimamente. Qualcuno dice che molto di quello che oggi viene chiamato lavoro cinquant’anni fa sarebbe stato considerato passatempo, o forse nullafacenza. Qualcuno dice che no, perché il mondo cambia e cambia il senso di cosa si intende per lavoro. Qualcuno dice tutt’altro e altro ancora.

Allora così, siccome è venerdì e nevica, mi sono messa a pensarci un po’, a cosa possa voler dire “lavoro”.
Posto che non si possa più sovrapporlo pari pari al sudore, posto che non si possa nemmeno più identificarlo con la messa in pratica di una ben precisa abilità artigianale o competenza intellettuale o capacità commerciale, come potevano essere quella del fabbro o del contabile o della verduraia – perché se così fosse metà abbondante dei mestieri legati al marketing, ad esempio, sparirebbe di colpo – quali possono essere i parametri per identificarlo come tale?
A me ne sono venuti in mente due.

Il primo, ovvio, è l’essere pagati per quello che si fa. Anche in prospettiva, anche poco, anche un domani.

Il secondo, che poi sono tre, è che secondo me un lavoro è qualcosa che:
  1. puoi definire con parole semplici, chiare, di uso comune nella tua lingua
  2. consta di procedure che possono essere ripetute per ottenere il risultato che ci si aspetta che ottengano
  3. puoi insegnare

Vale a dire.
1. Io, mi spiace, ma non riesco a fidarmi di chi non mi sa spiegare in cosa consista il suo lavoro. Per me continua a valere quello che diceva Einstein: non hai capito davvero una cosa se non sei in grado di spiegarla a tua nonna.
Mi è capitato di chiedere di cosa si occupavano a neurochirurghi, fisici teorici, elettricisti, commesse, magazzinieri, matematici. E ho sempre capito benissimo.
Però c'è un sacco di gente che invece parte dicendo “È difficile da spiegare, è un po’ complesso, forse è ancora una cosa troppo nuova per… ci sarebbe una parola inglese ma in effetti non è precisa, diciamo che in un certo senso, e poi è che tu non sei addentro, ti sarebbe difficile… Ma un altro pezzetto di stufato si potrebbe avere?”

2. Un idraulico sa che facendo – o non facendo - una prestabilita serie di cose otterrà un certo risultato, così come lo sanno l’agricoltore, il chirurgo, il cuoco, l’informatico, il barista, la puttana. A valle naturalmente delle contingenze - il tubo troppo usurato, la stagione piovosa, l’errore, la svogliatezza - sa che se fa A e poi B e poi C otterrà X, che è quello che si prefiggeva di ottenere. Più o meno bene, con maggiore o minore abilità, parte da un punto definito e attraverso determinati passaggi arriva ad un altro altrettanto definito.
E c’è chi invece non è in grado di definire alcun passaggio preciso e riproducibile, c’è chi parla di strategie, di mutamenti, di flussi, di aperture, di gente, del nuovo. E se e quando arriva ad un risultato, quale che sia, non ha la minima di come far succedere di nuovo la stessa cosa.

3. Il Carletto aveva forse la seconda elementare ma era perfettamente in grado di insegnarmi a scacchiare i pomodori e legare le cipolle, il mio insegnante di disegno non aveva problemi a insegnarmi l’assonometria così come non ne aveva avuti la maestra a insegnarmi l’ortografia e le tabelline, l’elettricista che mi ha fatto l’impianto mi ha insegnato i colori dei fili, così come il gelataio a fare i gelati e la Tiziana la minestra di orzo e ceci.
C’è chi insegna l’anatomia e chi a scrivere, c’è chi ti può insegnare a ricamare o a pescare, a fare un sito web o a frattazzare un muro.
Se a qualcuno dico “Come si fa, insegnami” e non lo sa, non lo può fare, non è in grado di insegnare – non importa con quanta difficoltà o in quanto tempo -  a fare il suo lavoro, ecco, per me quello non è un lavoro.

Questo per quanto mi riguarda, per orientarmi io. Poi beninteso, si è detto: se ti pagano comunque per me non c'è problema.