domenica 8 luglio 2018

Sarò buono.

Quindi adesso essere buoni è diventato disdicevole. Se non addirittura disprezzabile.
Dopo che centinaia di generazioni di genitori, maestri, sacerdoti hanno insegnato a centinaia di generazioni di bambini che essere buoni è bene e essere cattivi è male, dopo che miliardi di bambini hanno promesso nei loro pensierini e preghierine che sarebbero stati più buoni.

Il vostro buon Dio (non buonista Dio, guarda caso) è sbigottito: ma come, ma per migliaia di anni – pur non riuscendoci mai del tutto, certo - avete capito, saputo, pensato e detto che bisognava essere buoni e adesso la bontà diventa sbagliata?
Il suo povero figliolo è amareggiato: dieci comandamenti erano troppi, non riuscivate neanche mai a impararli bene a memoria, ve ne ho dato solo uno, uno solo, meno di così! Macché, se fino a ieri almeno facevate mostra di provare a rispettarlo adesso nemmeno più quello.

Il diavolo da una parte è contento, non ha mai avuto tante prenotazioni per le sue fiamme eterne. Ma dall'altra è anche un pochino avvilito: secoli e secoli a farsi un mazzo così, a doversi insinuare dai pertugi, a dover prendere mille melliflue forme, a sbattersi con faticosi armamentari di sabba e zoccoli e corna quando era così facile. Bastava dire che essere buoni è da stupidi. Bastava cambiargli il nome, da buono a buonista, ed ecco che diventano cattivi a frotte, malvagi a legioni, un raccolto di anime dannate come mai ci si sarebbe sognati.

Perché andrete tutti all'inferno, lo sapete, vero? Quella cosa dell'ero straniero e non mi avete accolto, quell'altra che ciò che farete a uno di questi piccoli eccetera eccetera comprendeva il farli morire annegati, quindi ecco, avete poco da baciar crocefissi e rosari, la dannazione non ve la leva nessuno. Ma è un problema vostro che all'inferno credete, naturalmente.

Chissà se di quello avete paura, visto che di paura ne avete tanta, tanta da aver reso disdicevole anche il coraggio e da essere orgogliosi della vostra codardia, tanta da temere di essere invasi da un pugno di naufraghi, tanta da non attraversare più i giardinetti perché ci sono quattro ragazzi seduti su una panchina a farsi i fatti loro, tanta da voler mettere una pistola nel cassetto della vecchietta perché spari alla zingarella, tanta da aver preteso soldati in assetto da guerra nel metrò e coppie di energumeni con la pistola per difendervi sul treno (energumeni armati che vi renderebbero catatonici dal terrore se li incontraste nel famoso giardinetto).

Cattivi e paurosi, davvero una bella riuscita.

Robin Hood, Zorro e Gesù Cristo sono esterrefatti: ma non si era detto e ridetto che bisognava battersi per i poveri, proteggere gli oppressi, difendere i deboli? Ma cos'è questa roba? Ma allora facevate solo finta di stare attenti e invece non avevate capito un cazzo.

Però vedete, non c'è problema, perché vinceremo noi.

Perché voi vi siete dimenticati che quelli molto cattivi, soprattutto se sono molto roboanti, di solito - come si è visto - finiscono sotto la lama di una ghigliottina, o appesi a una corda, o con una Luger in mano.

Perché vi siete dimenticati che i piccoli e deboli ma tanti, i miti e buoni ma coraggiosi vincono sempre.

Vi siete dimenticati di David e di Zeta la formica, dimenticati che chi è disperato e temprato dalle avversità, chi non ha niente da perdere, vince sempre, sempre, su chi – per sazio grosso e tonitruante che sia – ha troppo da perdere.
Vi siete dimenticati del Discorso della Montagna, dei Tre Porcellini, di Hansel e Gretel, di Bug's Life, ma noi no.

Per questo vinceremo, perché non ci fate paura.


sabato 23 luglio 2016

Lagne e culoni

Però ecco, questa faccenda del body shaming inizia a farmi venire il prurito.
Perché sembra che il problema sia l’essere giudicate dal punto di vista estetico, ma non è affatto così. Quello che secca, che disturba, che rode non è essere giudicate, ma essere giudicate male.
Quando qualcuno ci giudica belle, eleganti, fighe, quando le cosce e gli occhioni che selfiamo a più non posso ci regalano gridolini di ammirazione e bellachessei nessuno si lamenta di essere sottoposto a giudizio.

Non facciamo finta: il giudizio ci va benissimo, lo cerchiamo anzi, lo bramiamo, purché sia positivo.
È naturale, intendiamoci, è umano e più che legittimo. Però non possiamo essere tanto incoerenti da tirare fuori poi questa lagna del body shaming se invece il giudizio è negativo: o diciamo che non vogliamo essere giudicati dal punto di vista estetico mai, in nessun caso, oppure accettiamo di essere giudicati sempre, in ogni caso.
Oppure – che a mio parere sarebbe la strada migliore – lasciamo che ognuno giudichi o non giudichi quel cazzo che gli pare e ce ne strafreghiamo.

Quello che secondo me non dovremmo proprio fare, invece, è piagnucolare rivendicando il diritto di avere le coscione o di vestirci come vogliamo: perché quel diritto lo abbiamo già, ed è tanto scontato che non vale proprio la pena di parlarne.

Se rivendichi un diritto che già hai, mia cara, dimostri soltanto di dubitare di averlo.

E se ti dicono che hai il culone forse hai effettivamente il culone o forse no, ma in ogni caso non è una aggressione. È pura e semplice maleducazione: non si evidenziano a qualcuno i suoi difetti fisici, non si dice a qualcuno che ha il nasone o le orecchie a sventola o l’alito cattivo. Per buona educazione, lo sanno anche i bambini.
Ma non ti stanno aggredendo, non ti stanno violentando, come non ti stanno aggredendo quando ti dicono che con quei pantaloni stai benissimo.
Se qualcuno è maleducato è un problema suo, non ti sta usando violenza.

Che barba questo vederci sempre come vittime, metterci sempre dalla parte di chi subisce un torto via l’altro, che fastidio il non capire che se continui a dichiarare di essere una vittima poi lo diventi davvero. E, soprattutto, ti convinci di esserlo e che sia normale che sia così. Che barba, chissà quando la smetteremo. 










mercoledì 6 maggio 2015

Voi ventenni, però.


Avete per le mani un mezzo di straordinaria, mai vista, inconcepibile potenza per far sentire la vostra voce. E lo state lasciando in mano a noi cinquantenni, quarantenni, sessantenni.

Un mezzo per farsi vedere e sentire, per protestare, per portare avanti le proprie ragioni che negli anni '70 non era nemmeno concepibile. Eppure usate per farvi vivi gli stessi mezzi che si usavano allora.

Quarant'anni fa i media erano saldamente in mano ai “grandi”, a chi aveva soldi e potere. Quei pochi giornaletti che parlavano d'altro, che ne parlavano in un altro modo, a malapena riuscivano a campare e venivano letti dagli stessi quattro gatti che li scrivevano. La tv, non parliamone. Quando hanno iniziato ad esserci le radio libere sembrava un sogno, ma anche lì servivano mezzi, non pochi.
Allora qualunque idea, protesta, proposta, rabbia, idea avessero i ventenni – di sinistra, di destra, di CL – andava per forza portata in piazza.
Altrimenti non sarebbe stata visibile a nessuno, mai. All'opinione pubblica figuriamoci.

Ma oggi esiste un mezzo, esiste IL mezzo per rendere visibile qualunque opinione, istanza, protesta, proposta. E voi che ci siete nati dentro – a differenza nostra – voi lo state lasciando a noi. Lasciate che la vostra voce non si senta mai, o che la sentano solo i vostri amici, il che è lo stesso. È come avere un megafono e usarlo per sussurrare una battuta al compagno di banco.

Tutti i dibattiti, i commenti, gli articoli, i post, le discussioni più accese sui temi più importanti le lasciate fare a noi, anche quando vi riguardano, anche quando si parla di voi, anche quando si tratta di definire il mondo in cui voi dovrete vivere e che dovrete far funzionare. Non ci siete, o se ci siete non vi si vede.

La rete è vostra. Usatela.

Usatela per renderla diversa, ne siete capaci certo voi più di noi.

Usatela per farvi sentire, per farvi vedere, per farci sapere cosa pensate, cosa volete, per dirci contro cosa volete battervi, per dirci che futuro immaginate e come pensate di prendervelo.
E per dirlo ai vostri coetanei, e a quelli che sono più piccoli di voi: ribaltate l'uso che della rete fanno le casalinghe di Voghera e i vecchi tromboni, con i loro sopraccigli alzati e i ditini ammonitori, con la loro supponenza, il loro paternalismo, la loro assoluta e livorosa ignoranza di quello che siete e pensate.

Smettetela di farvi intervistare: fatele voi le interviste.
Smettetela di far sbrodolare dibattiti sui “giovani d'oggi”: fatelo voi il dibattito.
Smettetela di farvi dire che siete ignoranti e passivi: dimostrate che non lo siete.
Smettetela di lasciarvi dire che non sapete cosa volete: ditelo e scrivetelo ovunque, quello che volete.
Smettetela di farvi fotografare, filmare, di farvi rappresentare come delinquenti o bambocci, senza vie di mezzo: rappresentatevi da soli, così come siete davvero.

Smettetela di stare tra voi: siete figli del mondo, potete parlare con tutti i ventenni del mondo, siete tantissimi, siete una moltitudine e avete una forza che noi non abbiamo più, una potenza che non abbiamo mai avuto. Usatela.

Smettetela di essere buoni, di essere silenziosi, di farvi i fatti vostri: inondate la rete, appropriatevene, spazzate via i tramonti e i gattini, fate la rivoluzione, quella che potete fare, quella di esserci e di dire al mondo come il vostro mondo volete che sia.


Non c'è neanche bisogno di mettere la maglietta pesante, in rete non fa mai freddo.
Io, se serve, una mano la darò volentieri. Ma siete voi che avete tutto il mondo e tutto il futuro davanti a dovervi muovere.
Fate i bravi, spaccate tutto questo mondo così sbagliato.

Firmato: la mamma.




martedì 21 aprile 2015

Di cosa precisamente hai tanta paura?

Perché devi averne proprio tanta, devi essere davvero spaventato per essere sollevato, appena uscito da messa, dal fatto che settecento persone muoiano annegate, devi essere proprio terrorizzato per desiderare, tu che tieni alla famiglia tradizionale, che affoghino le mamme coi bambini in braccio, i mariti con le mogli incinte, i ragazzi che sono tutta la speranza dei loro vecchi genitori.

Ma di cosa, esattamente hai così paura?
Come si può chiamare, come si è sempre chiamato se non un fifone, un codardo, un vile, chi sano e pasciuto a salamelle e polenta ha tanta paura di qualcuno tanto più debole, più misero, più disperato?

Sei così terrorizzato perché pensi davvero che domani troverai Amal che si è appropriato della tua officina di gommista, seduto alla cassa del tuo bar tabacchi, a chiuderti in faccia il cancello del tuo capannone di minuteria metallica?

Sei davvero convinto che “questa gente”, se non la si farà morire per strada, prenderà possesso della tua squallida villetta a schiera, del tuo garage piastrellato in grés, delle tue tapparelle di plastica? Che caccerà via dalle sua scrivania alle Poste tua moglie dopo che ci è stata seduta vent'anni senza imparare a usare il pc, che porterà via quel posto nella cooperativa di facchinaggio a quel cretino di tuo figlio che mantieni da tre anni fuori corso perché non sai cosa fartene di lui?

Di cosa hai paura? Che il muratore che mandi all'alba sui ponteggi senza casco sia eritreo invece che albanese? Che la donna che imbocca e lava il culo al nonno sia libica anziché equadoregna? Che arrivi un somalo a vendere le rose invece del pakistano che cacci via dal tuo apericena?

Quanto devi essere spaventato, quanta fifa devi avere per perdere il lume della ragione e volere tutti morti, settecento, settemila e sono sempre pochi a finire in pasto ai pesci, ma anche a mitragliarli sarebbero sempre pochi, quanto devi sentirti inerme e minacciato per volere come un topo in trappola mordere a morte chi nemmeno sai chi sia, far fuori chiunque si avvicini.

Di cosa hai paura? Che la prostituta minorenne che ti cerchi ogni venerdì sera – perché tua moglie, eh, si sa – sia invece che moldava yemenita?
Che una massaia siriana ti rubi il posto in fila al supermercato?
Che la compagna di banco di tua figlia invece che da Carugate venga dalla Libia? Che rubi il temperamatite alla tua Sciàron?

Ma quanto, quanto si deve essere vigliacchi per aver paura di qualcuno che scappa?


martedì 30 settembre 2014

Completa il tuo profilo

E quando mai era capitato, nella millenaria storia dell'uomo, che uno dovesse descrivere sé stesso? Non in una autobiografia, non in un curriculum vitae, cose che hanno un loro percome e perché: in un profilo.
Dove dici tu stesso cosa ritieni che il mondo debba vedere in te. Mai successo, in migliaia e migliaia e migliaia di anni. Il mondo sa, ha sempre saputo chi sei: il figlio della Lina, quella della merceria, il vigile, il re, il cardinale, il ricco, il sacrestano, quello dell'Ufficio Acquisti quello alto spallato, la vicina di sotto quella che stende le lenzuola con su la bandiera dell'Inter, quello che mi ha fregato, quello là che ho amato, la tipa del bar con quelle belle tette, quella che mai fidarsi delle donne col culo basso, il geometra quello pelato coi baffi, il cuoco, il ladro, sua moglie, l'amante, quello che picchia, quella carina, quella un po' tonta, quella un po' troia, quel cretino del benzinaio.
Invece ora sei convinto di essere tu a offrire al mondo il tuo profilo, che il mondo ti conosca per quello. Mai successo. Pensa andare al mercato, nella Londra del '600 e dire “Ciao, a volte burbero ma di animo dolce, nasco come maniscalco ma tra le mie passioni annovero l'orticoltura e la caccia alla contadinella.”
L'obbligo al profilo ci ha fatto perdere il lume della ragione, l'obbligo al completa il tuo profilo, l'obbligo al dimmi qualcosa di te, l'obbligo al forza il tuo profilo è ancora incompleto al 60%.
E sono nati dei mostri, sono nate le solari e un po' pazze. Non c'erano prima.
Pensa, arriva la lavandaia e battendo i panni sulla pietra cinguetta: “Ciao, labellalavaalfosso, sono Carolina, nasco come balia asciutta ma in questi anni ho fatto tante esperienze che mi hanno arricchita e per le quali ringrazio tutti quelli che mi hanno voluto bene e anche i lanzichenecchi, che mi hanno insegnato tanto. Ho trent'anni ma mi dicono tutti che ne dimostro venti :-) Sono solare e un po' pazza, buona vita a tutti. Intanto guardate questo mio scorcio di coscia da sotto la gonna.”

Dammi retta, cancella il profilo. Di fronte sei meglio.

sabato 26 luglio 2014

Allora, facciamo un po' di riepilogo. Mie care, il femminismo non vi serve perché ha già fatto tutto quello che doveva per voi.

(A proposito di questo: http://womenagainstfeminism.tumblr.com/ )

Premesso che ho smesso di dichiararmi femminista a quindici anni, quando le compagne più grandi intentarono un processo sommario a Laura della 4C perché portava la camicia infilata nei pantaloni, alcune cose andrebbero un po' tenute a mente.
Alcune cose di cui voi sgallettate "non ne avete bisogno" sono come sono a seguito di lunghe, complesse e faticose battaglie. Il fatto che quando siete cresciute ci fossero già e pertanto le date per ovvie e scontate e acquisite è una bella cosa. Purché sappiate che non sono né scontate né ovvie e che sono acquisite solo dall'altro ieri.

Tu che non ne hai bisogno, ricordati che fino al 1982 in Italia se tuo padre ti sorprendeva a letto con un ragazzo poteva ucciderti e avere le attenuanti.
Ah, poteva farlo anche tuo fratello, e ovviamente tuo marito. E potevano uccidere anche il ragazzo, già che c'erano, era tutto perdonato dal delitto d'onore.
Prima del 1971, tu che non ne hai bisogno, per prendere la pillola dovevi trovare un medico compiacente che te la prescrivesse per "disturbi ormonali" o per guarire l'acne.
Prima del 1975, siccome non ne hai bisogno, c'era il vecchio diritto di famiglia, che prevedeva la potestà dell'uomo sulla donna.
Prededeva la potestà maritale.
Prevedeva la separazione per colpa e la comunione obbligatoria dei beni.
Prevedeva che per la donna l'adulterio fosse un reato anche con una sola occasione mentre per l'uomo solo se era "concubinato" ed era causa di divorzio solo se costituiva per la moglie "ingiuria grave"
Ed è solo del 2006, mia cara, la legislazione che prevede l'assoluta e totale parità di diritti sul lavoro.
Dal 1970 puoi divorziare.
Dal 1978 puoi abortire, se non vuoi o non puoi tenere un figlio non voluto.
Dal 1996 grazie alle "norme contro la violenza sessuale" se ti stuprano il crimine è riconosciuto contro di te e non contro la morale pubblica.
Ma siccome a te di tutto questo non serve niente, fanne pure a meno.

Il fatto che, come tutti i reduci, una volta vinte queste battaglie in molte non si siano rassegnate al fatto che - appunto - il grosso del lavoro era fatto e abbiano continuato a rimestare scemenze come la declinazione della parola avvocato o dottore e si siano infognate a decidere se la pubblicità di un reggiseno dovesse o no far vedere un seno non ha niente a che vedere con nessuna di queste cose.
Dire che non ne hai bisogno, mia cara, non è solo incredibilmente stupido.

Soprattutto, soprattutto è un'offesa imperdonabile a chi queste cose non le ha avute. E ne aveva bisogno.
Un'offesa imperdonabile a chi è stata maritata con la forza in virtù dell'orrido matrimonio riparatore, che legalizzava il ratto e lo stupro.
Un'offesa a chi non aveva a disposizione anticoncezionali, non poteva rifiutare un rapporto sessuale non gradito, non poteva abortire un figlio non voluto se non sul tavolo di una mammana.
A chi è stata sfruttata sul lavoro, sfruttata in famiglia, a chi non ha potuto votare, a chi è stata oppressa e discriminata in un modo che tu, dolcezza, non puoi immaginare neanche nei tuoi sogni più cupi.
Ed è un'offesa mortale a tutte le donne che oggi, non ieri, oggi, queste cose non le hanno ancora.
A tutte quelle nel mondo, e sono milioni, che non hanno uno smartphone per fotografare un cartello che dica: "Ecco, io sì, io ne ho molto bisogno."

giovedì 26 settembre 2013

Guarda e impara.

La pubblicità mostra gli stereotipi. Questa sconcertante scoperta andrebbe accompagnata alla considerazione che la pubblicità ha lo scopo di vendere. Evidentemente mostrare degli stereotipi vende.
E vende, ma guarda, mostrare quegli stereotipi che sono dei sogni: far finta di credere che tu possa credere che assieme al sofficino ti compri una vita, proprio quella lì.

Perché noi che siamo belli e eleganti, noi che siamo in forma e beneducati e solari ci concentriamo su chi appoggia il vassoio sul tavolo, ma i milioni e milioni che sono grassi e brutti, che sono esausti, delusi e sfatti e mangiano soli in tetri cucinotti di casermoni mentre il partner - quando ce l'hanno - sta davanti alla tv o torna ore più tardi da un lavoro di merda si concentrano sulla bella tovaglia in una grande cucina ben arredata e inondata di luce. Si beano della visione di una bella signora snella e ridente, di un bell'uomo forte e sereno, di bimbi di allegra perfezione e delizia.
Sognano nel pensarsi muscolosi e colti e assertivi, profumati di dopobarba alla guida di una macchina lustra, sognano nel pensarsi senza cellulite come le cosce di pesca di una modella di sedici anni. Sognano nel pensarsi disinvolte e flessuose in freschi pantaloni turchini mentre prendono caffè sul lungomare, i lustri capelli d'argento mossi da un refolo e il pannolone non si accorgono neanche di averlo, e la dentiera con quella colla è come i denti dei tuoi vent'anni.
Ma guarda, la pubblicità vende dei sogni.
Ma guarda, già che faccio una vita di merda adesso mi vieni a dire cosa devo sognare.

Oppure no, oppure diciamo che la pubblicità non mostra stereotipi, diciamo che ce li inculca.
Guardiamo e impariamo, i bambini la guardano e imparano.
Impariamo dalla pubblicità che le donne devono essere belle e sottili, che devono essere sorridenti e gentili. Ma impariamo anche che gli uomini devono essere snelli e prestanti, che devono essere attenti, teneri e forti. Impariamo che i ragazzini devono essere educati e puliti e non fare mai un capriccio, che i nonni devono essere benestanti e accoglienti e abbastanza in forma e in salute da permettersi di essere ancora innamorati e piacenti.
Che i colleghi devono essere collaborativi e ottimisti, che ogni gruppo di lavoro è una squadra che esulta assieme per un lavoro sempre ben fatto. Che gli amici sono sempre pronti ad offrire caffè detersivi e affetto, che i bebè sono paciosi e paffuti e non piangono mai, che gli automobilisti viaggiano seguendo tutte le regole, ascoltano ottima musica coi capelli nel vento e non sanno cosa sia la nevrosi da traffico o le liti al parcheggio. Che i capi si danno fieri da fare in mezzo ai loro operai soddisfatti e pasciuti, in cantieri perfetti come salotti dove tutti indossano con  disinvolta eleganza caschi, imbragature e occhialoni.

Se così fosse io ne sarei ben felice. Se guardandola imparassimo tutto quello che la pubblicità ci propone come modello, se assorbissimo questi comportamenti con inconscia prontezza, se li interiorizzassimo con automatica serena mancanza di sforzo sarebbe per me indubbiamente un mondo migliore. Non ancora perfetto, resterà da decidere chi mette nel piatto la simmenthal, ma certamente migliore.

Perché a dire il vero io non ho mai visto una pubblicità in cui un marito picchia brutale la moglie, in cui tre uomini stuprano una ragazza, in cui un vecchio insidia bambini, in cui un giovanotto frustrato accoltella la ex che se n'è andata. Non l'ho mai vista quella in cui i compagni di scuola portano al suicidio l'adolescente grassoccia, quella in cui il capo sottopaga e maltratta l'impiegata mentre le carezza viscido il seno.
Stante così le cose, se è vero che la pubblicità insegna come ci si comporta, allora ecco, ben venga.

Se invece non è così, allora io non ho capito.
Non ho capito come si possa imparare all'istante che è la mamma a scodellare il ragù e non imparare che mentre lo fa il papà non la picchia.