mercoledì 19 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 7 -

- Oddio lei chi è? Cosa fa qui? Come ha fatto a entrare? Se ne vada, subito, subito, se no io
- Tranquilla, Maria, stia tranquilla. Non c’è niente che lei possa fare che
- Se ne vada!
- Ma no, ma no. Si metta tranquilla, che tanto è lo stesso. Dunque
- Vada via! Adesso arriva mio marito e
- Suo marito è già arrivato e andato, cara, è già stato giudicato.
- Giudicato? In che senso? Mio marito giudicato, cosa vuol dire?
- Giudicato e condannato, a dire il vero.
- Ma cosa dice? Lei è pazzo, se ne vada subito! E mio marito è un brav’uomo, cosa crede. Se ne vada!!!
- Un brav’uomo, un brav’uomo, sì. A voler guardare sì. Ce ne sono capitati lei non sa quanti, oggi, che erano di ben peggio, ben peggio. Per quanto.
- Per quanto cosa? Cosa sta dicendo?
- Per quanto non immacolato, comunque. Tant’è vero che è stato condannato.
- Ma come condannato, ma come, ma per cosa???
- Mh. È sicura di volerlo sapere? Guardi, oggi è già una giornataccia, fossi in lei non aggiungerei altri pensieri.
- Ma cosa dice, ma lei chi è, ma se ne vada, vada via!
- Fosse così facile. Dunque dicevamo
- Ma mio marito, mio marito dov’è?
- Lasciamo stare, per il momento – Oscilla con noncuranza la spada fiammeggiante - Torniamo a noi.
- A noi? Ma cosa vuole da me, io non so chi sia, se ne vada!
- Su, Maria, collabori un pochino. Mi lasci lavorare, che è una giornata piena, oggi.
- Cosa vuole da me, ma esca, se ne vada subito!
- Tra l’altro, in effetti, lui non ha chiesto quale fosse la sentenza per lei. Vogliamo dire che già la conosceva? Vogliamo dire che lui già sapesse, immaginasse che lei sarebbe stata tra i condannati?
- Io? Tra i condannati? Ma di cosa, ma di che?
- Via, Maria, neanche lei è una santarellina, vero? – Le sorride, ammicca, birichino – I suoi peccatucci li ha anche lei, su, lo sa che è inutile negare.
- Ma quali peccatucci, ma cosa ne sa lei, lei è pazzo, se ne vada!
- Che poi non è che non foste stati avvisati: da quanto ve lo si va dicendo, da quante migliaia d’anni? E lei mi si è pentita? No. Lei mi si è contrita? Macché. Lei ha continuato con i suoi peccatucci capitali come se niente fosse. Non è che adesso può mettersi a frignare come se fosse una sorpresa, andiamo, via.
- Ma cosa dice? Guardi che mi arrabbio davvero adesso, adesso chiamo la polizia e
- Siamo noi, la polizia. Se così vogliamo dire. Su, venga. – Le fa segno verso la porta, con quel suo spadone di fuoco – Andiamo, su.
- Ma mi lasci, ma perché! Guardi che finisce male questa storia!
- Su, non pianga. È già finita. È già finita, la Storia.

 

martedì 18 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 6 -

Rabbrividì, riallacciando i pantaloni nel gabinetto non riscaldato. Si lavò le mani e stringendo i denti la faccia con l’acqua gelata, il sapone sapeva di detersivo da pavimenti. C’era un piccolo specchio rettangolare appeso, bordato di plastica verde, ma non si guardò, non c’era niente da vedere. La stanza era appena meno gelida del bagno e odorava di stufetta a gas e di acrilico e calze e cardamomo. Rabbrividì di nuovo, frugando tra i vestiti sopra il letto: il maglione giallo era troppo stretto per stare sopra quello grigio, ma forse il contrario si poteva fare. Si spogliò e rivestì più in fretta che poteva. Aziz stava finendo di fare il caffè sul fornellino, gli porse la tazza. Facevano una volta per uno a comprare il solubile e quando si arrivava verso la fine del barattolo lui ne metteva ogni giorno sempre meno. Un cucchiaino, il caffè aveva il colore di acqua di pozzanghera ma almeno era caldo. Guardò giù in cortile, la brina smaltava bidoni e cartoni e le ultime erbacce rigide, nere. Un altro brivido, pensando al morso del freddo crudo del ponteggio sulle dita, non tutti i lavori si possono fare coi guanti. Decise d’impulso di mettersi anche il maglione verde, e pazienza se tutto infagottato ci si muove male. Guardò il pacchetto delle sigarette, ma era un po’ preoccupato per la neve: se nevicava  e chiudevano il cantiere chissà. Meglio risparmiare. Meglio tenerne una per la pausa pranzo e una per la sera, per riuscire a prender sonno così stanchi, e che strano come poteva sembrare così vuoto un letto tanto stretto. Bisognava si sbrigasse, però, non voleva perdere l’autobus, il primo. Si ficcò in testa il cappello di lana, Aziz gli fece un cenno col mento, lui con la mano: non parlavano molto loro due. Del resto non si conoscevano quasi, era per caso che si erano trovati a condividere la stessa stanza, la stessa ventosa origine, questo angusto presente, forse la stessa ipotesi indistinta di futuro. Spense la radiolina, troncando lo strazio melodioso dell’amore non corrisposto di una donna certamente bionda, uscì sul ballatoio e appena chiusa la porta sentì l’esplosione. Fortissima, fece vibrare la ringhiera rugginosa e cadere briciole di intonaco. Cosa sarà stato, un incidente. Scese le scale, attraversò il cortile: un altro colpo, ancora più forte, quasi da cader per terra. E ora c’era chiaro là in fondo, rosso e viola e baluginante. Fuori dal portone gli imporporò le guance lo sfarfallìo di fiamme dietro la periferia, poi vide una luce tagliare il cielo in due, e poi un’altra. Il rumore era diventato tanto forte che le sue orecchie non lo potevano più sentire. Rabbrividì, non faceva più freddo adesso. Guardò la pensilina dell’autobus, vide il policarbonato raggrinzire e sciogliere, vide i manifesti pubblicitari accartocciarsi, un vento duro sfaldarli sull’asfalto. Rimase immobile perché non c’era dove andare, negli occhi neri lustri come pozze di petrolio riflesso il divampare, fiamme e lampi. Vide tutta la guerra da quel marciapiede. Durò sette minuti esatti.
 

lunedì 17 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 5 -

Naaaaa, ma dai, non mi va. Ma senti, per stasera allora. . Pronto. Oh, ci sei? Dicevo per stasera. Pronto? Pronto? Dove cazzo sei? Ma vaffanculo. Cosa c’è, dice la Michi, niente, mi ha messo giù il telefono. Quel testadicazzo. Magari è caduta la linea. See, vabbè. Come se me ne fregasse qualcosa, di quello sfigato. Aspetta che chiamo... Oh ma dai, non prende. Neanche il mio, ma checazzo. Si guardano, i lipgloss accuratamente corrucciati. Guardano i cosi che hanno in mano, lustri, sottili, luccicanti. Segnale di campo, zero. Andiamo là nella piazza, lì prende di sicuro: ci ho fatto mille telefonate da lì. Si avviano, lustre, sottili, luccicanti. Ma nella piazza il campo è zero. Ascolta, fanculo, sai cosa facciamo, ce ne andiamo al Magillagorilla per conto nostro, ci facciamo l’aperitivo poi si vede, magari facciamo uno squillo al Marco. Ma se l’Andrea ti ha paccato come ci andiamo: in metrò, che palle. Ma sì, visto che siamo qui, son cinque minuti. Scendono le scale, controcorrente. La Michi le viene un dubbio: ma perché tutta sta gente sale? Scusi, ma c’è qualche problema? L’uomo le guarda le tette, che anche sotto il cappotto sono lì apposta, poi si riscuote e va a spiegare: non va, il metrò è fermo, c’è un guasto o non so cosa. Ma tutte le linee? Sì, tutte, da come han detto sembra una cosa lunga. Se ne va, con un’ultima occhiata e un non troppo celato rimpianto. Mh, beh, pigliamo un taxi. Ah già, non posso chiamare, non ho campo. Andiamo alla fermata, siamo in centro, sarà vicina. Sì ma dove? Ah, non so, cerca su internet. Ah, no. Ma che cazzo avranno ‘sti telefoni. Si guardano. Guardano i cosi che hanno in mano, lustri, sottili, luccicanti, muti. ‘Scolta, io me ne vado a casa, mi sono rotta le palle, stasera non è serata. Eh. Vabbè, mi faccio un bagno, mi faccio le unghie, vedo se ribecco in chat quel tipo dell’altra sera. Sì, massì. Però se il metrò non va e non possiamo chiamare un taxi come ci andiamo a casa? La Michi, intraprendente: prendiamo un autobus, un tram. Da qui? Quale si prende? Ah, non so. Guarda su, ah, no. Si guardano intorno, viene buio presto in questa stagione e la luce sta già, quasi impercettibilmente, scemando. Ma ci sarà una roba, uno schema delle linee, no? Tipo comprare una piantina, come avevano fatto i miei quando siamo andati a Parigi che io ero una bambina. Ma dove? In edicola, c’è un’edicola là in fondo, all’incrocio. Si dirigono verso l’incrocio - la borsetta inizia a dare fastidio, anche i tacchi - e incrociano un tram. Anzi due. Fermi sui loro binari. Lei che è la più figa e perciò s ail tono del comando chiede ai tramvieri, che fumano parlando di cose loro: scusi, ma i tram perché sarebbero fermi? E niente, signorina, c’è un guasto: le centraline, sono saltate le centraline, niente, non vanno. Ma scusi ma noi come ci andiamo a casa? È un po’ nervosa adesso, sul limite dello stridore, il tramviere le guarda comprensivo le tette, guardi le conviene andare a piedi, fa ondeggiare la mano sigarettata verso un orizzonte indistinto, le conviene, tra poco fa buio, vi conviene andare, andare a casa a piedi, a casa. Si guardano, guardano intorno, la luce è già bassa, il crepuscolo d’inverno incombe. Ma tu sai andarci, a casa a piedi? Ma sei fuori, no, no, non lo so, cioè boh, magari sì ma saranno due tre quattro cinque chilometri, non è possibile farli a piedi, non è possibile. Ma se no, come? Michi, minchia, checazzoneso! Vabbè, andiamo, poi magari i mezzi ricominciano a andare, si potesse almeno chiamare qualcuno, merda. È decisamente nervosa: slitta sugli stiletti, lei che col tacco dodici è usa a fare acrobazie. Un uomo esce imprecando da una porta scorrevole, le urta: nella sua nicchia il bancomat pulsa dolcemente di luce azzurrina, fuori servizio, dice. Dopo ventisei minuti entrano in un negozio, vogliono comprare scarpe da jogging. La commessa è gentile ma loro hanno fretta, non gliene frega niente di quale modello, vogliono solo togliersi quei plateau. Il sacchetto è già pronto ma sorge un problema: la carta di credito non funziona, il bancomat neanche. Non c’è linea, mi spiace, mi spiace, non avete contanti? Contanti, ma checazzodice! La Michi si intromette, quel tono stridulo la mette a disagio: no, contanti no, va beh non importa, ci scusi, abbia pazienza, andiamo Giulia, andiamo. La commessa le osserva allontanarsi, un fregio di sangue sull’orlo della scarpa, la vescica lacerata cola lungo il tacco. La commessa guarda la sera che scende, non ha venduto niente nelle ultime due ore - il POS non funziona - ha provato a chiamare il capo ma il cellulare non prende. E le tipe hanno detto che il metrò, i tram, è tutto fermo. Prende una decisione, spegne le luci, chiude il negozio: deve pur tornare a casa, anche lei. Il comando della serranda è cieco e muto, la lascia aperta – fanculo - e si avvia, ha molta fretta e un po’ di ansia, adesso. Un giovanotto punta ossessivo sulla sua auto ferma la chiave elettronica come una pistola, che risponde con un dolce schiocco di cilecca. Un altro quarto d’ora, è ormai del tutto buio. E nessun lampione si accende. Porcatroia se non fosse dicembre me le toglierei ste cazzo di scarpe. Io me le tolgo, vaffanculo, porcodio non funziona un cazzo e non so neanche dove siamo, quello là in fondo è viale Abruzzi? Le togli? Ma fa freddo... voglio telefonare, mi sanguinano i piedi, voglio essere a casa, guarda le case sono tutte buie, non c’è corrente, voglio essere a casa guarda quei tre non mi piacciono, è tutto chiuso, tutti i negozi, le cler alzate sembrano abbandonati, voglio andare a casa ho paura mi viene da piangere prova a telefonare non funziona ancora non funziona niente guarda tutte le macchine ferme c’e troppa gente in giro a piedi c’è troppo buio cosa succede ho paura ho paura ho paura.

domenica 16 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 4 -

La mamma dorme, stamattina. Avvolta nelle coperte, dorme. Così tanto dorme che non si è svegliata neanche quando Gaia l’ha toccata con la manina sulla spalla. Neanche quando l’ha toccate un po’ più forte, poi il papà l’ha chiamata di là e lei è corsa in cucina. Non c’era Nicolò a fare colazione: dorme anche lui, magari. Il papà tossiva forte mentre le metteva a scaldare il latte, la mamma dorme stamattina, anche Nicolò, ha detto il papà. Non bisogna disturbarli, ha detto, non bisogna andare a toccarli. Non si va all’asilo stamattina, ha detto. Il papà ha un po’ di tosse, non si sente tanto bene, non si va all’asilo. Lei pensa che magari potrà guardare un po’ di cartoni animati, più tardi, allora. È seduta sulla sedia, sul cuscino, mangia un biscotto. Il papà ha le mani che tremano forte mentre le versa il latte, ne versa un po’ sul tavolo, vuole pulire e ne versa ancora urtando la scodella. Abbassa le mani, stringe la spugnetta, la guarda. Lei fa il gioco che il biscotto sopra fa affondare quello sotto, ma non bisogna toccarlo col cucchiaio se no non vale. Non lo guarda perché guarda il biscotto, ma poi sente che la abbraccia piano, sente la sua mano sui capelli, sulla guancia: ha la mano calda caldissima, sudata. Le dice che papà è un po’ stanco, va di là a sdraiarsi un momento, poi dopo giocano e guardano i cartoni animati. Lei finisce il latte, quasi tutto, poi non sa cosa fare perché c’è molto silenzio e lei non la sa accendere, la televisione. Va alla finestra del balcone, guarda giù. Le piace guardare la strada, sembra quando Nicolò gioca con le macchinine, ma le macchine sono quasi tutte ferme adesso. Ne arriva una, adagio, fa una curva strana e si ferma sotto il semaforo, proprio. Scende una signora, ha un bel cappotto come di pelo, scende e si appoggia alla portiera e poi cade per terra, tutto il cappotto di pelo rotondo intorno come un gatto addormentato. Lei sposta la bambola Chetti sull’altro braccio, si mette il pollice in bocca. La mamma non vuole perché dice che ormai è grande ma tanto la mamma dorme, adesso. Anche il tram è fermo, il guidatore dorme sul volante, anche i signori seduti dormono, appoggiati indietro o con la guancia contro il finestrino. Ci sono altri signori per terra, sul marciapiede e anche sulla strada, dove non si deve mai andare, mai, solo per mano a mamma e papà. Lei si toglie il pollice dalla bocca, lo guarda sconcertata: per la prima volta in vita sua ne sente il sapore, è amaro, e anche un po’ salato. Poi fa un colpo di tosse. Poi un altro.

Fino alla fine del mondo - 3 -

Adele si sfilò gli occhiali, gli diede una pulita con l’orlo del golfino. Adesso andava meglio, sì. Scostò ancora un poco la tendina, una pratica di molti decenni le faceva sapere esattamente quanto largo poteva essere lo spiraglio per vedere senza essere vista. Che non fosse più come una volta lo sapeva da un pezzo: quando era giovane era ben raro che in paese arrivasse gente da fuori, era quasi un avvenimento, per dire. Poi passando gli anni, si capisce, le cose vanno a cambiare e di forestieri ne capitavano sempre più spesso, la città si era fatta più vicina, il paese si era ingrandito di famiglie che ci erano venute a stare, in condominio e a schiera, gente che gli piaceva abitare fuori anche se c’era da fare il pendolare. E poi a un certo punto quegli altri, che dicevano che erano anche brava gente, che veniva a lavorare, ma lei non si era mai fidata tanto. Stracomunitari, lei le facevano sempre un po’ paura, teneva la porta sempre chiusa anche con la chiave in alto, che dicevano che andavano a rubare nelle ville (magari, che era una villa, questa). Dicevano che entravano nelle case dei vecchi (oddio vecchi, delle persone anziane) a rubare (che poi i soldi uno li tiene in posta, e i cinquanta euro di scorta sono nascosti bene, eccome). Dicevano che violentavano le donne (oddio chissà cosa dev’essere essere violentate da uno di quei giovanottoni, così neri). Si fece il segno della croce, ma te, ma guarda che pensieri. Col suo povero marito che la guardava dalla cornice di peltro sul comò. Si aggiustò gli occhiali sul naso e allargò di un altro centimetro lo spazio tra le tende: era quasi al limite di essere vista ma non è che uno può non guardare. Si torse un pochino di lato, il ventre fasciato di maglina malva premuto contro il calorifero, come si fa a non guardare. Vide che il Piero era sceso in cortile vedendoli arrivare, lo vide avanzare agitando le mani. Assentì tra sé leggendo sulle sue labbra quello che lei stessa avrebbe detto: via, via, questa è proprietà privata, fuori, o chiamo i carabinieri. Bravo. Bellicoso, gli si era fatto più vicino. Le girava le spalle adesso e non capì cosa si dicessero, ma il battibecco fu molto breve: ci fu una specie di sbuffo e dove un attimo prima era il Piero si afflosciò come un mucchietto di polvere marròn. Un refolo di vento fece turbinare il Piero disperdendolo in un amen e fu in quel momento che il Giovannino – il fratello del Piero, l’unico rimasto che il povero Anselmo era restato sotto il trattore nell’ottantadue – scese di corsa (quasi di corsa insomma, con la sua gamba sifulina) le scale, con in mano lo schioppo. Chissà se funzionava ancora, poi, che erano vent’anni almeno che non andava a caccia. Non si può sapere perché non fece neanche in tempo ad imbracciarlo che lo sbuffo lo disfece in sabbietta, lui e lo schioppo. L’Adele si scostò dal calorifero, abbassò la mano che aveva premuto forte sulla bocca. Fece un passo indietro, guardò la porta chiusa con due chiavi, anche quella di sopra. Chissà, chissà cosa dev’essere essere violentate da uno di quei giovanottoni, così verdi.

sabato 15 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 2 -

Il primo sorso di caffè come al solito la disgustò. Vedrai che poi – dopo un po’ - ti piace, le avevano detto. Vedrai che poi finisce che non riesci più a berlo con lo zucchero, che ti fa schifo. E sai quante calorie in meno: fai quattro caffè al giorno, ma fai anche cinque, due cucchiaini ogni volta e fai un chilo al mese come niente. In effetti dopo il primo sorso gli altri erano meglio, si lasciavano bere, dopotutto. E quei tre chili voleva a tutti i costi buttarli giù entro l’estate. Vero che mancavano più di sei mesi ma quest’anno voleva muoversi per tempo, basta con le diete folli dell’ultimo mese, una cosa graduale. E tanto movimento. Aveva una gran voglia di un biscotto, ma no. Davanti alla finestra buia, la tazza in una mano, si passò l’altra sulla pancia. Era già più piatta, davvero. Le piaceva bere il caffè davanti alla finestra, vedere arrivare l’alba, indovinare dalle nuvole che tempo avrebbe fatto. Le piacevano quei minuti di fermo silenzio prima di tutto lo sbattere e il frastornare della giornata, sempre così lunga e così breve. I tetti delle case erano ben disegnati, adesso, sulla striscia viola all’orizzonte e il cielo da nero si faceva blu, limpido come inchiostro. Aggrottò la fronte. Quel chiarore viola, porpora e ora già rosa acceso non doveva essere lì. Quello era il nord, non l’est. Sei rincoglionita, pensò. Sei mezza addormentata, dai. Eppure no. Si girò un attimo a guardare la cucina, si pizzicò – piuttosto forte – un orecchio con le dita. Era sveglia, senza dubbio. E da dieci anni aveva guardato ogni giorno spuntare il giorno in quella casa e sempre il sole era sorto dietro il condominio giallo o al più, a seconda della stagione, dietro il capannone dell’autolavaggio. Ma lì il cielo era appena turchino, ora, e sfolgorava di arancione dietro le villette. A nord. Si portò la tazza alla bocca ma dovette fare uno sforzo disperato per riuscire ad inghiottire. Il sangue le pulsava nelle tempie, non è possibile, pensava, non può essere possibile, il sole sorge a est, da sempre. Da sempre sorge dietro il condominio. Girò lo sguardo con cautela, senza quasi muovere la testa: sembrava tutto a posto, tutto tranquillo, quieto e silenzioso. Un autobus passò veloce, vuoto e illuminato. Il mare era molto lontano da lì, non poteva sentire il rumore delle onde che si alzavano veloci, che avanzavano rombando mentre il ghiaccio dei poli si scioglieva, liquefacendo rapidissimo al sole equatoriale. Non poteva sentire il blizzard schiantarsi contro inaspettate fronde di palme e baobab, né il rumore di schianto con cui il Rio delle Amazzoni si congelò di colpo, imprigionando nel ghiaccio coccodrilli stupefatti e bocche spalancate di pirañhas. Ma gli uccelli li vide, immobile davanti alla finestra, la tazza abbandonata tra le dita che aveva smesso da ore di gocciolare caffè freddo e amaro. Gli uccelli si muovono in fretta e lei li vide, stagliati contro quell’impossibile rosso vermiglio tramonto a oriente: prima radi poi a stormi sempre più compatti, riempivano il cielo a migliaia, a milioni, fenicotteri e gru, e avvoltoi e ara e colibrì. E sgargianti immense nubi gialle e verdi, quell’insostenibile frastuono che fanno i pappagalli.

venerdì 14 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 1 -

Finì di fare la barba pensando al commercialista. Bisognava trovare per forza un momento per andarci, in settimana. Che rottura di palle. Ripose il rasoio, ficcandolo nell’armadietto un po’ a casaccio, e svitò il tappo del dentifricio pensando alla rata del mutuo. Ma era un pensiero fastidioso e smise quasi subito, anche perché doveva concentrarsi sulla riunione delle dieci, che sarebbe stata tutt’altro che una passeggiata. In effetti non aveva voglia di pensare nemmeno a quella, non aveva voglia di pensare a niente, in effetti. Neanche all’Antonella, non una gran voglia. 
Si spazzolò i denti, sputò, li spazzolò di nuovo. Non aveva ancora rivolto un solo sguardo alla sua immagine riflessa nello specchio. 
Sputò ancora. Guardò la scia spumosa nel lavandino, verdolina e mentolata. Rimase un po’ a guardarla. Era molto bianco il lavandino. La luce che veniva dalla finestra alle sue spalle lo colpiva in pieno. Alzò gli occhi alla finestra nello specchio: il cielo si schiariva, tinto di lilla e di celeste. Ebbe un attimo di perplessità, guardò l’orologio, no, non aveva sbagliato a puntare la sveglia: erano le sei, era l’ora giusta. Eppure era quasi sicuro che ieri non c’era così luce a quest’ora. 
A dire il vero non c’era così luce neanche un’ora più tardi, quando scendeva dal treno iniziava appena ad albeggiare, ieri. E l’altroieri. E tutto il mese scorso. 
Il cielo nello specchio era tutto azzurro ormai, un azzurro ogni momento più lucente. Il riverbero faceva splendere le piastrelle e scintillare le boccette allineate sulla mensolina: un raggio colpì quella del dopobarba, traendone un breve, luminoso arcobaleno. Il chiarore inondava la finestra, lo specchio era troppo abbagliante da guardare, ormai. Pensò che avrebbe dovuto dare un’occhiata fuori, vedere che cosa, vedere perché. Guardò il lavandino, invece. Un capello disegnava una morbida ellisse intorno allo scarico, la schiuma verdolina era quasi secca. La pulì con cura con la mano, adagio, piano. Così bianco da far male agli occhi, così bianco, tutto. Così in fretta arriva, così bianco, così in fretta. Il sibilo lo udì, assordante, immane. Fece in tempo a pensare che la rata del mutuo, vaffanculo. Poi, la luce fu.

domenica 18 novembre 2012

E insomma tutto bene.

Innanzitutto sto benissimo. È un po' come essere in viaggio con la macchina fotografica: non guardi il tramonto, lo fotografi. Non guardi una trasparenza di foglia, un riflesso d'acqua, una cavalletta, un temporale con i tuoi occhi ma con l'occhio dell'obiettivo, non stai neanche a vedere quanto sono belli, come ti piacciono,  perché sei concentrato sull'angolo di inquadratura migliore, sul taglio di luce, sul tempo di esposizione.
Così, come spesso vado in vacanza lasciando apposta a casa la macchina fotografica, a volte lascio a casa internet per un po'. E faccio delle cose senza raccontarle a nessuno, neanche a me: facendole e basta. Guardando l'alba senza fotografarla, incontrando gente senza descriverla, facendo parmigiane di melanzane senza discuterne dosi e ricetta.  Fa bene, per un po', ogni tanto.

Perché poi qui è lo stesso di quando da bambino andavi in villeggiatura sempre nello stesso posto e rivedevi dopo un anno compagni di giochi a cui in tutto quel tempo non avevi affatto pensato: avevi fatto un sacco di cose, corso con altri bambini, imparato la moltiplicazione e la bici senza mani, preso le botte mangiato gelati e fatto castelli di lego. Poi tornavi lì e riecco quelli a cui per mesi non avevi rivolto un pensiero, ecco che erano ancora i tuoi amici, ecco che bastava mezzo minuto per ricominciare a ridere insieme, per ricominciare il gioco dove lo avevate interrotto.

Perciò, eccoci qui.

Intanto ho imbiancato da sola tutta la casa riverniciando nel contempo sei caloriferi, tre porte, otto finestre con relativi infissi e un paio di altre cose che mi sono capitate intorno mentre avevo in mano il pennello, ho letto moltissimo, ho cucinato moltissimo, ho campeggiato senza tenda sulla sabbia, ho camminato e pescato, ho tagliato molta erba, potato molte rose e perso svariate partite a scacchi, ho elaborato alcune sconvolgenti e rivoluzionarie teorie sul DNA non codificante, sui bambini del neolitico, sull'inferno e il paradiso e la bilancia dell'universo, ho imparato a fare la torta di semolino, visto film, dato baci, ho imparato a riconoscere Sirio e Aldebaran, ho partecipato a un mercatino di svuota soffitte guadagnando ben ottanta euro con la bancarella della "Pesca", ho costruito una lampada ochetta cugina della grande oca volante che avevo fatto anni fa e quasi ultimato una lampada pesce rosso. Già progettate ma non ancora iniziate la libellula e il geco.
Dopo ve le faccio vedere.


mercoledì 27 giugno 2012

La sala d'aspetto è rotta.


La stazione di Villasanta ha un cortiletto sui binari con un pino alto e spelato al centro. È tutta chiusa: nessuna biglietteria, nessuna edicola o bar o servizio igienico. È tutta chiusa, all'edificio non si accede da nessuna parte. Sulla porta della sala d'attesa un foglio scritto a biro dice "GUASTO".
Non c'è obliteratrice, non c'è nessun foglio con gli orari, non c'è un orologio, non c'è niente.
Busso - e mi affaccio - alla portina chiusa dove sta scritto "vietato l'ingresso ai non autorizzati". Un ferroviere in maniche di camicia, molto sudato in uno stanzino torrido e semibuio, si gira verso di me e il piccolo ventilatore che tiene a pochi centimetri gli fa sollevare un accenno di riporto, grigio.

- Aveva bisogno di qualcosa?
- Avevo bisogno di sapere a che ora passano i treni.
- Ogni ora.
- Sì, ma a che ora dell'ora?
- Per Milano alle due, circa.
- Ah, tra mezz'ora allora. Il binario?
- L'uno. È che non può usare la sala d'aspetto perché è rotta.

Esco e vado a guardarla, questa sala d'aspetto rotta. La porta, di metallo, è a vetri e si vede dentro. Una stanzina piccola con qualche seggiolina contro la parete. Bianca, perfettamente in ordine e pulita, un monitor con i prossimi treni - funzionante, troppo angolato perché sia visibile da lì - un grande foglio di orari appeso al muro, troppo lontano per poterlo leggere.
Di rotto, niente.

Nello spiazzo che si affaccia sui binari il sole è verticale e assoluto, non c'è una pensilina, una tettoia, un muretto, un gradino, una panchina. Ai piedi del pino, appena più grande della sua ombra verticale, una aiuola quadrata dove le erbacce sono alte quasi un metro.

Siamo io, una signora sudamericana e una ragazza obesa in pantaloncini e canottiera fucsia, appiattite in piedi contro il muro coperto di scritte per profittare dei cinque o sei centimetri di ombra che proietta l'edificio. L'odore di urina si scioglie umido nel caldo.

Arriva un signore magrebino, in ciabatte aperte. Arrivano due signore africane, chiaccherando. Arriva un diciottenne di quelli che la mamma chiama robusti e invece sono grassi, indossa le cuffie e una maglietta bianca. Va alla porta della sala d'attesa, ignora il cartello e scuote con forza la maniglia.
Poi scuote, con maggiore violenza, la porta intera. Che gli rimane in mano. L'appoggia con cautela allo stipite di ferro, più o meno al suo posto.

La signora sudamericana sorride, le due signore africane ridono apertamente, molto divertite.

Arriva una ragazza smilza, anche la sua maglietta è fucsia. Arriva un signore ricciuto con due pizze sul braccio. Arriva un signore di mezza età molto pallido, ha la camicia bagnata e scarpe da corsa. Sono ormai le due e un quarto passate, quasi e venti. Arriva di fretta una ragazza bionda, arriva un altro signore magrebino.

Arriva il treno.

Quando riparte, rovente, cammina adagio fino a Monza tra due ali compatte di vegetazione incolta, che sfiora e striscia e sbatte contro i finestrini. Frassini, sambuchi, ortiche, buddleie, tassibarbassi e rovi.

Le due signore africane sono allegrissime e gioconde, scrosciano in risate ciarliere nel calore obnubilante che sa di ferro e pavimento sporco.

In effetti, in paragone a Ouagadougou il servizio è decisamente soddisfacente.

martedì 5 giugno 2012

La lavandaia muta


Ho letto da qualche parte, non so più dove, che sul totale della musica ascoltata la percentuale di quella dal vivo è ormai minuscola, pressoché irrilevante.
Quasi tutta la musica che ogni giorno gira nell'aria del mondo è riprodotta. E questo vuol dire che nessuno più canta, e nessuno più suona se non - pochi - per mestiere (anche solo auspicato o presunto).
Ogni pastorello aveva uno zufolo, ogni bracciante alla sera imbracciava un mandolino, un violino, un'armonica, un'ocarina, uno scacciapensieri, un ukulele, un banjo, una lira.
E la gente cantava.
Nelle osterie e nelle filande, marciando in battaglia, raccogliendo il cotone, spaccando le pietre, china nell'acqua sulle piantine di riso.
Cantavano le lavandaie e cantava la prosperosa massaia stendendo lenzuola.
Cantava il carrettiere, gorgheggiava tenorile l'imbianchino, fischiettava modulando virtuoso il mugnaio, gli rispondeva roco e melanconico il fabbro.
Cantava mia nonna sgranando i piselli, cantava sommesso mio nonno le canzoni del Piave riparando la bicicletta, cantavano tutte, tutte le mamme ninnando i bambini e tutti i bambini cantavano canzoni per giocare con le corde e le palle.
La musica è ovunque, adesso, ma arriva. Magari ne canticchi una strofa, forse muovi un po' a ritmo la testa, ma ti arriva da altrove.
Quando hai sentito l'ultima volta un muratore cantare? Quando da un balcone la sera un coro, anche sguaiato o un'armonica a bocca?
E pensavo che allora non ne nasceranno più di canzoni da lavandaia o mondina, perché loro, e i maniscalchi e gli arrotini e i soldati, ascoltano in cuffia la radio, l'ipod.
Tutta quella musica senza proprietari né autori, quella che tra parentesi leggi (tradiz.) non potrà rinnovarsi, non ne verranno di nuove, di quelle canzoni.
Come faremo senza spiritual e stornelli, senza nenie di trincee e prigionieri, senza ninnananne e romanze?
Forse per questo un giorno o l'altro finirà anche la musica, perché non saprà più inventare niente da dire.

Io sono stonata, ma dall'altro ieri sto imparando a suonare l'armonica.

mercoledì 16 maggio 2012



Non abbiamo il diritto di interrompere la possibile vita futura di un embrione.
Hai perfettamente ragione. Voi non ne avete il diritto. Noi sì.
Perché quello che continui a trascurare, a dimenticare, a omettere, a non capire è che un embrione non è un bambino in miniatura appeso lì ad aspettare, non è una bambolina chiusa in una scatola per non prendere freddo: un embrione fa parte di una donna.
Ne fa parte come fanno parte di me un occhio, una mano, una tonsilla: sono fatti di cellule vive, nell'arco del tempo crescono e si sviluppano, ma se li separi da me sono solo tessuti, senza futuro e senza senso. 
Questa parte di me respira col mio respiro, si nutre di quel che mi nutro, il suo sangue è il mio e - anche se questo ti parrà impossibile - anche le sensazioni che proviamo sono fuse, inestricabilmente.
Un'embrione e me siamo una cosa sola, lo capisci? No che non lo capisci. Non potrai capirlo mai, perché non saprai mai, non potrai mai sapere questa cosa come sia. 
Non ti è mai capitato, non ti capiterà mai di dormire a fianco di un tuo bambino appena nato e nel sonno, nei bagliori confusi del dormiveglia pensare, sentire di essere lui. Di avere la sconvolgente sensazione di essere nella mente e nel corpicino di qualcun altro, di essere qualcun altro a cui hai dato la vita.
Perché per molto tempo ancora siamo una sola cosa, sai, anche quando ormai ognuno respira per conto suo: ci vogliono settimane e mesi e anni per separarci del tutto e forse, forse del tutto non succede mai. 
Non lo capisci, non lo puoi capire neanche se ci sono mille modi di dire che te lo ricordano, non lo capisci perché "un pezzo di cuore" la pensi una metafora sentimentale e non una verità di carne.
E però se non lo sai e non lo capisci, stai zitto, per favore.
Se - non per colpa tua, certo - non sei in grado di capire che nessuna donna, mai, vuole abortire ma che qualcuna purtroppo deve farlo, allora non parlare. E non chiedere, nemmeno: se qualcuno deve scegliere di rinunciare a una parte di sé non ti deve spiegazioni.
Puoi fare leggi o cambiarle, puoi strillare e insultare, puoi dire quello che vuoi ma questo diritto dalla notte dei tempi è nostro e tu, figlio di donna, saprai sempre un po' meno di noi cosa sia la vita. E quanto di amore e morte ci sia dentro.

venerdì 27 aprile 2012

La valigetta della fine del mondo.

Non si tratta solo di tenere mezzo pacchetto di caffè di scorta, o tre sigarette nascoste in un cassetto. Si tratta della fine del mondo, della valigetta dell'apocalisse.
Io ce l'ho, la valigetta per la fine del mondo.
Non per quella fine del mondo in cui il pianeta esplode colpito da un gigantesco asteroide, per quella fine del mondo di cui raccontano libri e film, quella del virus, quella atomica, quella dell'invasione degli alieni o degli zombie. Insomma, quella in cui il mondo non finisce affatto: finisce in qualche modo la civiltà, finisce una gran parte dell'umanità ma tu ovviamente no, tu sei tra i superstiti.
E noi futuri superstiti la valigetta l'abbiamo pronta.
Nella mia ci sono: candele e lampada solare e a manovella, coltello, aghi e filo, ami da pesca, chiodi, mollette da bucato, spago, sacchi di plastica di cui tre grandi neri, filo di ferro, accendino, fiammiferi e acciarino, una bottiglietta di candeggina, sapone di marsiglia, una reticella, alcune cannucce, forchetta, cucchiaio, due spiedini d'acciaio lunghi, guanti di gomma, una pinzetta, una boccetta di mercuro cromo, due bende, diverse spille da balia, semi di pomodoro, una garza grande, una scatolina d'acciaio, una bottiglietta d'alluminio con tappo a vite, una fila di petardi rossi.
Mi pare non manchi nulla, ma c'è ancora un po' di spazio, in ogni caso. Ci vediamo là.

mercoledì 7 marzo 2012

Requiem per un impermeabile

Ci si sono estinti gli esibizionisti. Li abbiamo estinti come il pettirosso nero del madagascar, come la foca proboscidata del guatemala, li abbiamo estinti senza spenderci una lacrima, senza rivolgere loro neanche un pensiero.
Gli esibizionisti quelli dell'impermeabile, quelli che te lo facevano vedere nella stradina dietro il supermercato, quelli che se ti sedevi in un vagone vuoto si mettevano nel sedile del pippaiolo, noi lo sapevamo quale: non di fronte ma angolato, nei quattro sedili dall'altra parte del passaggio ma rivolto a te. E poi mettevano un giornale, lì. E poi lo toglievano, il giornale: per lasciarti a bocca aperta dallo sgomento, loro pensavano così.

Le nonne, le mamme ti preavvertivano sobriamente dettagliando. Ci sono degli uomini un po' schifosi, sai, che fanno vedere il loro coso alle ragazzine. Tu non aver paura, non ti devi impressionare. Sono innocui, sono dei poveretti. Sono persone tristi che devono far pena. Tu tira dritto e fai come se non avessi visto. Qualche zia più energica suggeriva di ridergli in faccia e dire che non era poi questo granchè, ma a quattordici anni non osi, ovvio.
Perché è vero che erano tanti. Arrivata a vent'anni ne avevi una vasta e variegata esperienza, tanto che quando quella volta salita sul treno un po' presto e aperto il tuo libro avevi visto arrivare quello che si era seduto proprio lì, nel suo sedile dedicato, ancora prima che muovesse un dito avevi iniziato a raccogliere cappotto e borsa, avevi chiuso il libro. E ancora prima che ti alzassi si era alzato lui, seccatissimo alzando gli occhi al cielo, e se n'era andato sibilando mentre ti passava vicino "Certo che ne hai visti, tu, di uccelli...!" Tanta esperienza di esibizionisti da frustrarli ancora prima che posizionassero il giornale, o le dita sulla patta.
Tanti da far la posta ad ogni preda disponibile, tanto da far tornare a casa la mamma - signora ormai matura - da un giro nel bosco sotto la neve esterrefatta dall'idea che ci fosse qualcuno in pieno gennaio che avesse voglia di sbottonarsi sul far del crepuscolo per una signora quasi nonna, tutto contento e fiero.

Poi si ripetono le stesse raccomandazioni, gli stessi avvisi a quelle che hanno tredici anni adesso e capita che dopo due, tre anni, non gli sia mai capitato.
Allora capisci che si sono estinti, che non tornerà più il Nani, che ancora prima di vedere il suo uccello sentivi il suo odore di vino, non ci sarà più un altro Saverio appostato tutto fremente sotto i platani del viale.
Li abbiamo estinti quando ogni ragazzina, ogni maschietto, qualunque adolescente in rete ha visto tanti membri d'ogni colore e forma, turgidi e buffi, impressionanti e goffi che il povero Gerlando, là dietro la stazione, non ha più ragione d'essere, ha perso ruolo e senso.
Così gli resta solo da pescare nel misero bacino dell'utenza del digital divide, così sul Giornale di Merate si fanno paginate intere sul fantomatico Maniaco del Cimitero, presunto turpe pervertito che mostra le pudenda alle pie donne indaffarate sulle tombe.
E magari nemmeno esiste, magari si tratta solo di qualcuno che da lontano, nell'ombra ottobrina sfumata dalla nebbia si è aggiustato i pantaloni e la Adele si è immaginata chissà cosa, e poi è stata tutta una gara a dire che anch'io e anch'io, quel porco, quel depravato, quel maiale - che non sarà mica solo la Adele che glielo fan vedere, cosa crede di essere quella, anche a me lo fanno vedere, eccome, tornando dal cimitero, sapessi.

Sono ormai scomparsi Marietto, Lino, Adolfo, annullati dall'esibizionismo virtuale che ha reso i loro cappottini spalancati, i loro occhi torbidi, le loro mani tremanti, i loro piselli dritti e tristi delle reliquie, inutili trofei in un'orgia di fighe e culi e cazzi e tette e cosce spalancate ed eiaculazioni spumeggianti.
Ma resta una domanda, che inaspettatamente infine li redime. Se chi lo tira fuori dietro la stazione è un poveretto, perché mai chi ti si mostra online è un figo?

sabato 18 febbraio 2012

Saponette

La cognata che ha il negozio di cose cosmetico erboristiche ha regalato ad ognuno per Natale uno scatolotto pieno raso di bustine di campioni. Tra tutti saranno mille, forse di più. Sono tanti e buoni e abbondiamo e largheggiamo nell'usarli. Non sono però coordinati, quindi al profumo di rosa c'è il bagnoschiuma ma non la crema corpo, agli agrumi c'è la crema ma non l'acqua di profumo o lo shampoo, e così via.
Perciò succede che tu che sai di The bianco, Pompelmo e Neroli fai colazione assieme a Peonia Iris Vaniglia e ti siedi sul divano accanto a Legni Fruttati Dattero e Mirra dopo aver incrociato in corridoio Liquidambar Corteccia Muschio.

E questo mi ha fatto venire in mente una cosa che ho letto anni fa, forse un'intervista, non mi ricordo a chi. Costui era stato lunghi anni prigioniero in un carcere, un gulag o qualcosa del genere e tornato in libertà ne raccontava.
Quelo che mi è rimasto impresso, tanto da ricordarlo dopo anni, è che diceva che sì, il cibo scarso e pessimo, la mancanza di una donna e di camminare all'aria, i libri e la musica, sì, certo. Ma che quello che in tutti quegli anni lui aveva sognato, quello a cui pensava immaginandosi quel momento futuro, quello che era per lui l'essere fuori di lì, la gioia della libertà normale, era una saponetta. Diceva che nei momenti di sconforto lui pensava che esiste al mondo - esiste fuori di qui, un giorno anch'io, di nuovo - una cosa come lavarsi con l'acqua calda, e una saponetta profumata, una saponetta forse rosa con un buon odore.

Siccome io penso spesso ai Maya. Non perché creda nella loro presunta profezia, ma perché mi serve per fare il gioco di quello che ritengo indispensabile, quello che tutto sommato è superfluo, quello di cui potrei fare a meno.
E mi serve per esercitarmi nel gioco - difficile questo - del non dare niente per scontato.
Perché tu dai per scontato di avere luce elettrica e acqua calda e invece non serve la fine del mondo, basta un po' di neve e non le hai più. Dai per scontato di avere genitori, di avere un amico, di avere capelli, di avere un posto asciutto per dormire, di avere tacchi alti e posti per camminarci, di telefonare a chi vuoi e avere internet come fosse casa tua, di avere tutta la musica che ami, di non aver la cellulite, di avere libri e shampoo, di poterti permettere di essere vegano, di avere opinioni e qualcuno a cui raccontarle, di avere assorbenti  e brugole e occhiali, di avere il tuo amore. E poi magari non è detto, invece.

Perché tra tutti i buoni propositi quello di non dare niente per scontato è sempre il più largamente disatteso.

venerdì 10 febbraio 2012

lavoratori di tutto il mondo.


Si parlava di lavoro, ultimamente. Qualcuno dice che molto di quello che oggi viene chiamato lavoro cinquant’anni fa sarebbe stato considerato passatempo, o forse nullafacenza. Qualcuno dice che no, perché il mondo cambia e cambia il senso di cosa si intende per lavoro. Qualcuno dice tutt’altro e altro ancora.

Allora così, siccome è venerdì e nevica, mi sono messa a pensarci un po’, a cosa possa voler dire “lavoro”.
Posto che non si possa più sovrapporlo pari pari al sudore, posto che non si possa nemmeno più identificarlo con la messa in pratica di una ben precisa abilità artigianale o competenza intellettuale o capacità commerciale, come potevano essere quella del fabbro o del contabile o della verduraia – perché se così fosse metà abbondante dei mestieri legati al marketing, ad esempio, sparirebbe di colpo – quali possono essere i parametri per identificarlo come tale?
A me ne sono venuti in mente due.

Il primo, ovvio, è l’essere pagati per quello che si fa. Anche in prospettiva, anche poco, anche un domani.

Il secondo, che poi sono tre, è che secondo me un lavoro è qualcosa che:
  1. puoi definire con parole semplici, chiare, di uso comune nella tua lingua
  2. consta di procedure che possono essere ripetute per ottenere il risultato che ci si aspetta che ottengano
  3. puoi insegnare

Vale a dire.
1. Io, mi spiace, ma non riesco a fidarmi di chi non mi sa spiegare in cosa consista il suo lavoro. Per me continua a valere quello che diceva Einstein: non hai capito davvero una cosa se non sei in grado di spiegarla a tua nonna.
Mi è capitato di chiedere di cosa si occupavano a neurochirurghi, fisici teorici, elettricisti, commesse, magazzinieri, matematici. E ho sempre capito benissimo.
Però c'è un sacco di gente che invece parte dicendo “È difficile da spiegare, è un po’ complesso, forse è ancora una cosa troppo nuova per… ci sarebbe una parola inglese ma in effetti non è precisa, diciamo che in un certo senso, e poi è che tu non sei addentro, ti sarebbe difficile… Ma un altro pezzetto di stufato si potrebbe avere?”

2. Un idraulico sa che facendo – o non facendo - una prestabilita serie di cose otterrà un certo risultato, così come lo sanno l’agricoltore, il chirurgo, il cuoco, l’informatico, il barista, la puttana. A valle naturalmente delle contingenze - il tubo troppo usurato, la stagione piovosa, l’errore, la svogliatezza - sa che se fa A e poi B e poi C otterrà X, che è quello che si prefiggeva di ottenere. Più o meno bene, con maggiore o minore abilità, parte da un punto definito e attraverso determinati passaggi arriva ad un altro altrettanto definito.
E c’è chi invece non è in grado di definire alcun passaggio preciso e riproducibile, c’è chi parla di strategie, di mutamenti, di flussi, di aperture, di gente, del nuovo. E se e quando arriva ad un risultato, quale che sia, non ha la minima di come far succedere di nuovo la stessa cosa.

3. Il Carletto aveva forse la seconda elementare ma era perfettamente in grado di insegnarmi a scacchiare i pomodori e legare le cipolle, il mio insegnante di disegno non aveva problemi a insegnarmi l’assonometria così come non ne aveva avuti la maestra a insegnarmi l’ortografia e le tabelline, l’elettricista che mi ha fatto l’impianto mi ha insegnato i colori dei fili, così come il gelataio a fare i gelati e la Tiziana la minestra di orzo e ceci.
C’è chi insegna l’anatomia e chi a scrivere, c’è chi ti può insegnare a ricamare o a pescare, a fare un sito web o a frattazzare un muro.
Se a qualcuno dico “Come si fa, insegnami” e non lo sa, non lo può fare, non è in grado di insegnare – non importa con quanta difficoltà o in quanto tempo -  a fare il suo lavoro, ecco, per me quello non è un lavoro.

Questo per quanto mi riguarda, per orientarmi io. Poi beninteso, si è detto: se ti pagano comunque per me non c'è problema. 


martedì 31 gennaio 2012

stand by me.

Mi capita nei sogni, nei migliori, di sentire dieci anni. Ma non di tornare a quando li avevo, o di avere quell’età adesso: mi capita di sentirmi il mondo intorno come lo sentivo a dieci anni. Di vedere le cose, vederle tutte insieme e ognuna nei dettagli, e sentire gli odori e i colori e suoni come se ci fossi dentro e ne facessi parte, ma presente a me come di più non si può essere.
Prima di quell’età sei troppo piccolo: non sai di esserci. Dopo sei troppo grande: invece di esserci ti pensi.
Ma c’è un momento in cui tutto è in equilibrio, lo spazio e il tempo e te, un momento in cui sei completamente tu e un gatto e un uccello e una lucertola e una tigre e i sassi e il mare e l’erba, insieme.
E li so benissimo i colori: i dieci anni hanno luce satura che ti entra negli occhi colmandoli e li allaga come quando li tieni aperti sotto l’acqua, e hanno ombre disegnate nette, e nere.
E noi che ci affidiamo sempre alla geometria più facile e banale continuiamo a pensare che la curva di una vita abbia il suo culmine a metà, che tra gli zero e gli ottanta sia a quaranta che siamo nel pieno della sapienza e della forza.
Ma sappiamo bene che non è affatto vero, e che quella curva si impenna quasi in verticale e raggiunge la cima a dieci anni, e poi scende, inevitabilmente.
Per questo passiamo il resto del tempo a cercare in tutti i modi di tornare lì, all’interezza, al fulgore del corpo e della consapevolezza. E quando ci diciamo felici è perché per un istante ci sentiamo come eravamo sempre, ad ogni risveglio, alle quattro di ogni pomeriggio.









Vipassanā (pali, in sanscrito: vipaśyanā) una delle due principali forme della meditazione buddhista, detta anche meditazione di visione penetrativa (in inglese insight meditation). A differenza della meditazione samatha, questa forma di meditazione non è finalizzata al raggiungimento di stati di assorbimento meditativo e non ha un carattere astrattivo. Al contrario, la meditazione vipassana intende sviluppare la massima consapevolezza di tutti gli stimoli sensoriali e mentali, affinché se ne colga la reale natura e ci si incammini per tale via verso la liberazione. Il corpo e la mente sono il campo nel quale è possibile scoprire, con una visione attenta, la verità del mondo fenomenico e quella che porta alla sua estinzione.

[…]

In riferimento ai sette fattori del risveglio: 
presenza mentale, 
investigazione dei fenomeni, 
risveglio dell'energia, 
gioia, 
serenità,
concentrazione
equanimità.



venerdì 20 gennaio 2012

Io sono quella della cacca. E dell’immondizia, del vomito, della pipì. Può capitare che talvolta qualcuno se ne faccia carico: è capitato. Ma appunto: talvolta. Le altre volte, tutte e son tante, me ne occupo io.
Catarro e lacrime, cispe e cerume. E spazzatura e immondizia e il fondo scuro dei loro bidoni e i sacchi da preparare. Poi quando li dimentichi fuori raccogliere quello che i gatti hanno sventrato, le lische, i cartocci unti e le ossa.
E molta, moltissima cacca, in pannolini e letti e mutande, e qualche volta per terra.
Io sono quella che entra con la mano nel water per pulirlo per bene, sono quella che toglie gli schizzi di piscio dall’asse e dal muro, sono quella che lava lo straccio dei pavimenti strizzandolo in mano.
Io svuoto il filtro della lavastoviglie gelatinoso di unto, io vuoto i piatti dagli avanzi rappresi, io tolgo con la mano i residui di pasta e verdura e cose che non si riconoscono affatto dal buco del lavandino. Sono quella delle lettiere e dei fiocchi di polvere e briciole sotto  i divani, quella che scrosta la vaschetta delle verdure dai sedani morti e dal viscido dei cipollotti, che disincaglia il groviglio di peli e capelli dal tappo della vasca da bagno.
Sono quella che scuote la scopa e le leva i bioccoli di spesso lerciume, quella che toglie le cispe dagli occhi e lava il sangue il pus e la terra dalle ferite, che pulisce il moccio e le orecchie, quella dei punti neri, delle spine di riccio e della merda di gatto.
E noi che siamo quelli della cacca e dell’immondizia, noi ridiamo molto più spesso e siamo tranquilli, lo sai. Perché dagli arabeschi di macchie e escrementi abbiamo imparato la beffa delle trasformazioni, abbiamo saputo che non c’è niente che sia sporco davvero perché non c’è niente che non si possa pulire, e poi sporcare di nuovo.
E poi noi sappiamo, sappiamo qual è l’istante preciso in cui quello che hai nel piatto e fino a un attimo fa stavi mangiando e succhiando e leccando diventa rifiuto, che ti fa schifo spazzar via con la mano per rigovernare.
Noi sappiamo qual è l’ingrediente che in un unico esatto momento trasforma il piacere del godimento in un grumo di fredda immondizia. Ma questo non te lo diciamo, perché è il segreto più grande.

giovedì 12 gennaio 2012

Dicembre 2011

venerdì, 16 dicembre 2011

Istruzioni per l'uso delle lucine di Natale.

Primo. Se le accendete tenetele accese.
È vero che ci hanno ribadito fino all'estenuazione che siamo tetri e depressi, che siamo cassintegrati disoccupati e indebitati, è vero che ad ogni istante veniamo severamente ammoniti per la nostra sfrenata tendenza al lusso e spronati ad una austera sobrietà. È vero. Ma le luci si vedono al buio.
Se come gli austeramente pidocchiosi commercianti qui della contea le si tiene accese solo negli orari di apertura, se come i sobriamente taccagni compaesani l'alberello lo si spegne quando si va a letto - che tanto se dormiamo non lo vediamo - succede che dopo le dieci di sera il villaggio è gelido, disadorno e oscuro che nemmeno a Mordor quando sono di malumore.
Le luci hanno senso quando fa buio: se si spengono perchè tanto di sera non c'è in giro nessuno tanto vale risparmiarsi la fatica di scale e chiodini sprecata per inghirlandare il mondo con grovigli di cavi.

Secondo. Se sono accese sono accese, se sono spente sono spente.
Siamo già tesi, siamo già agitati senza bisogno di essere mandati in iperventilazione da una nevrastenica cacofonia di acceso/spento-acceso/spento-acceso/spento-acceso/spento-acceso/spento-acceso/acceso/spento/spento.
Quale bisogno ci sia di questa luminescenza ossessa, di questa psichedelica fibrillazione nessuno pare in grado di spiegarlo. Nemmeno ammettendo l'ingenuo entusiasmo, il candido infantilismo tecnologico che guarda, siamo capaci di accendere una luce e poi spegnerla, guarda, guarda vedi che si accende e poi si spegne e poi si riaccende, hai visto, hai visto?
Accese e basta, per favore. Vedrete quanta tachicardia in meno. Da quando ho messo le lucine fisse non picchio quasi più la moglie, per dire.

Terzo. Scegliete come si deve i colori.
Nella nostra memoria percettiva, nella retina di noi mammiferi terrestri la luce va dal bianco al porpora, passando per i gialli, gli arancioni, i rossi. Luce di sole e luna, di stelle, lampi e fiammelle, di fuoco e di braci.
La luce blu in natura esiste solo nelle concessionarie d'auto.
Luminescenze azzurre e bluastre sono cianotiche e aliene, non usatele per carità: vi fanno spavento anche se non ve ne accorgete.
Le verdi vanno dosate con attenzione, in modica quantità e mai da sole: oltre a produrre un ambiguo lucore da acquario sintetico rendono livida qualunque carnagione e repellente qualunque pietanza.
Da evitare anche il tutto rosso, evocativo di sesso estremo più che di presepe, o a andar bene di camera oscura.
Molta cautela con la combinazione giallo+rosso, amata da pizze al trancio e kebab d'asporto, e con quella giallo+rosso+verde, la preferita da autoscontri, calcinculo e circhi a conduzione familiare.

Infine, si raccomanda oculata considerazione per la quantità. Tremila watt di fulgore non riescono, con tutta la buona volontà, ad ispirare poesia.

Oppure.
Oppure si potrebbe anche pensare un'altra cosa.
La luce, tanta luce, era festa quando il mondo era buio.
Era ricchezza e stupore, era raro e prezioso sfolgorio e meraviglia quando il tramonto era davvero la fine del giorno, quando la notte era lunga e interminabile e di impentrabile gelo l'inverno. Quando le sere e le cene erano incerti e tremanti aloni rossastri, barbagli fiochi galleggianti nel sego, e ombre d'inchiostro fumoso guizzavano dietro le stufe e facevano paura ai bambini.
Ora che abitiamo galassie di neon e tungsteno, metropoli e case sfolgoranti di luci, e risplendono abbacinanti supermercati e parcheggi, mentre pulsano chiarore monitor e lampioni stagliando su perenni accecanti biancori benzinai e baristi, tabaccai e commesse, forse non ha più tanto senso.
Ora che inondiamo di luce l'intero pianeta e oscuriamo le stelle, ora che ogni città a distanza di miglia è una bolla di miasmi lucenti, ogni mezzo si muove bardato di alogene e led e ogni elettrodomestico spento tiene acceso un vigile occhietto rosso in attesa, ora forse la vera festa sarebbe quella del buio.
Buio e oscurità finalmente, a perdita d'occhio.
Le pupille si dilatano grate, il respiro ridiventa profondo. Puoi girare adagio la testa cercando di cogliere un suono, di capire un fruscio. Devi tornare a saggiare, a sentire il terreno, incerto, col piede. Riconosci oggetti e persone sotto le dita, capelli e bottoni, e lembi di pelle. Le parole le senti diverse se non vedi le labbra. E i baci, se gli occhi sono neri su nero.
Facciamo festa, spegniamo le luci.
Vedrai come sarai stupefatto e commosso poi, se farai il bravo, dal palpito incerto di un moccolo.
Ho un fiammifero, ancora. Lo tengo per dopo.




Postato da: sphera a 08:37 | link | commenti (1)


martedì, 06 dicembre 2011

Ci siamo guardati Precious: piuttosto bello, sì, ma il tema è decisamente duro. Così abbiamo detto: adesso un po' di chill out, prima di andare a dormire. Oh, bello, la Parigi del settecento... la ghigliottina, come funziona, poi le fosse comuni e il sangue putrefatto per le strade e la decomposione dei corpi spiegata nel dettaglio, colori, batteri e larve e... Gira, dai. Guarda, fantastico il tizio che deva battere il record e si lancia in bici giù dalla vertiginosa cima del vulcano... Oddio, cade, gesù che volo, per terra tutto scomposto e accartocciato con la moglie che si dibatte e si dispera... Cambia, cambia. Interessante, le miniere dei cercatori di topazi... guarda quel povero omino, rattrappito e schiantato da una fatica disumana, con la moglie e i figlioletti a migliaia di chilometri, e lui che cerca il topazio per riscattare la loro misera esistenza e ha le lacrime agli occhi parlando di loro... Cerca qualcosa d'altro, valà. La peste nera, o bubbonica, inizia con... Gira! Ecco, questo qui dell'universo: le stelle sono neutre, almeno. Perché i composti stellari, e la vita, la morte... ma dopo la morte cosa accade? La coscienza di sé nelle persone in stato vegetativo, e l'attimo in cui si muore e...
Andiamo a dormire.
Che una cazzo di medusa gigante o di orsacchiotto delle nevi non ci sono mai quando ne hai bisogno.

Novembre 2011

mercoledì, 09 novembre 2011

Voglio i pannelli solari. E li voglio il prima possibile. Li avrei già messi se non fosse che voglio cambiare casa presto.
Voglio i pannelli solari per l'energia elettrica e l'acqua calda, e voglio una cisterna per l'acqua piovana, e se serve il microeolico e il geotermico e tutta, tutta quanta la tecnologia che serve per sganciarsi dalla tecnologia gestita da altri.
Voglio l'autosufficienza, voglio che l'unica rete a cui la casa resti collegata sia quella di internet.
Non capisco, giuro non capisco come qualcuno possa scegliere di spendere che so, trentamila euro per una automobile e non per mettersi i pannelli solari sul tetto.
Non capisco perché chi ha due risparmi - che non sono io - si domandi se sia un buon investimento comprare titoli e non corra a comprarsi un sistema energetico autonomo.
Non capisco, ma davvero, perché continuiamo a lamentarci del traffico, delle bollette sempre più care, del tempo che si spreca andando e tornando dal lavoro, dell'aria lercia, dei pomodori di plastica, e continuiamo a impiegare enormi quantità di energia e di fatica per continuare a tenerceli stretti.
Ah, ma perché tu cosa vorresti: abitare in campagna, produrti l'energia e l'insalata e lavorare via internet? Eh eh, che dolce che sei, che romantica.
Non capisco perché se dici che vuoi sfruttare le più avanzate, le migliori opportunità tecnologiche ti diano della luddista.


(Intanto è uscito il sole, la mia macchinetta degli arcobaleni va a tutta forza, sparpagliandone a decine sulle pareti, un turbine di iridi.)

Postato da: sphera a 10:19 | link | commenti (5)

mercoledì 11 gennaio 2012

Ottobre 2011

mercoledì, 26 ottobre 2011


Non li voglio, i fiorellini. E nemmeno i pupazzini. Le grechine. Gli orsetti. Detesto tutto questo ornare cose che non hanno nessun bisogno di essere ornate. Perché mai devo avere dei fiori sulla carta igienica? Perché la carta da cucina deve avere fiocchetti e pentolini? Io le voglio bianche. Per favore.
Perché non è vero che le cose decorate sono più carine. Sono più brutte. Ma molto più brutte, molto.
L'ornato è una cosa seria, una cosa difficile, costosa, impegnativa, laboriosa. Altrimenti è una porcheria.
L'ornato è l'Alhambra, è William Morris, è gli azulejos e Wedgwood e Lalique, è gli arazzi medievali e i kilim. È, piuttosto, i ghirigori di tuo figlio col pastello. Qualcosa disegnato con in mente la bellezza, e realizzato con delizia e cura. Qualcosa che ti fa felici gli occhi.
Non un guazzabuglio triste e casuale di stupidaggini riprodotte malamente.
Tu non ti accorgi, ma nella tua bella cucina tutta linda si affollano i fiori approssimati della tovaglia rosa, le geometrie giallo e marrone degli strofinacci, gli uccelli verdini del rotolo di carta, i quadretti azzurri dei tovagliolini, i cuori rossi e le greche imprecise del barattoli, le foglie nocciola sulle piastrelle beige, le margherite stampigliate in arancio sopra i piatti, le campanule turchine dell'insalatiera, le padelle e le pannocchie sulle presine, sghembe.
Si affollano e ti frastornano gli occhi, come un frastuono di rumori stupidi.
Perché non è vero che non è importante quello che ti vedi intorno: non ci fai caso ma ti abitui un po' per volta a tante piccole inutili bruttezze. Così ci siamo assuefatti al dozzinale, al tirato via, allo stampato in qualche modo, al simulacro di fiore, all'elefantino come lo disegna suor Giuliana, al quadrettato di colori a caso.
Se non possiamo permetterci piastrelle decorate bene, allora siano bianche, santo cielo. O azzurre, o verdi, o nere. Ma quei bambù marroni, quegli aborti di glicini e di rose, poi li vedi tutti i giorni, sai. Le prime cose che vedi ogni mattina sono volgari, sconsolate e brutte.
Io sogno da anni un negozio che venda le cose di ogni giorno, quelle basiche, le calze e le tazze, gli strofinacci e le magliette, i tovaglioli e le mutande, i barattoli e la carta igienica e le tende e le piastrelle, che le venda bianche, bianche e basta.
Perché l'inquinamento delle piccole cose è un altro genere di lupatoto, che un po' ogni giorno ti avvelena di trascuratezza, di minimi orrori che non ti accorgi di vedere.



Non avere nella tua casa nulla che tu non sappia utile, o che non creda bello. 
(William Morris, La bellezza della vita)


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lunedì, 24 ottobre 2011

C'è un gioco che faccio, ogni mattina. È quello di bere il caffè, tazza grande un biscotto una sigaretta, seduta sul gradinetto della portafinestra in cucina.
Lo faccio da molti anni, d'estate e d'inverno, con la luce e nel buio gelato, con il sole e la pioggia e la neve, in camicina o avvolta in giaccone e cappuccio. Il gioco è proprio questo, farlo ogni mattina anche quando hai sonno o fa freddo. Non serve a niente, non significa niente, a volte è piuttosto rognoso, ma il gioco è di guardarle in faccia e sentirle addosso, tutte le mattine del mondo. Per il solo motivo che hai deciso così.
Ne faccio anche altri, parecchi.
Come quello di scegliere un punto e vedere se le porte del treno ti si fermano proprio davanti.
Come quello di scommettere, al bar, che quella tipa tutta rigida di consapevolezza e vestiti non prenderà un caffè, ma una di quelle cose noiose come UndecaffeinatomacchiatoMamacchiatopocoSenzaschiumatiepido. Econunpo'di cacao.
Come quello di dare al criceto tenendoli tra le dita ogni volta esattamente tre semi di girasole, per vedere quanto tempo ci mette ad imparare a contare.
Come quello di far andare random la musica e vedere quante volte sceglie proprio le canzoni che si adattano a quella luce, a quell'ora, a come ti senti, e vedere quanto spesso ci azzecca.
Come quello di far venire il nervoso ai leghisti dando un euro alla zingarella fuori dal supermercato.
Come quello di guardare dentro le finestre, dal treno, e immaginare la vita che c'è.
Tutti ne facciamo di giochi, almeno credo. I giochi non servono a niente, solo a farti giocare.

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venerdì, 21 ottobre 2011

Ecco, questa cosa del sangue. Mi stupisce sempre la gente che in tv e sui giornali si abbevera di fiumi di sangue, di morti ammazzati veri e finti, di cadaveri realmente massacrati e di quelli impiastricciati di colorante rosso, di schizzi che imbrattano i muri, di scie sul pavimento, di esplosioni di teste, di pozze che si allargano sotto persone disarticolate a terra, di dita che frugano frattaglie sui tavoli da autopsia. E poi dicono che loro a fare l'esame del sangue svengono. Perché sono sensibili, proprio non sopportano.
Quelli che no, non so pulire un pollo, non l'ho mai fatto, ma dio che impressione, che raccapriccio, morirei.
Quelli che oddio ti sei tagliato, oddio guarda c'è il sangue, un cerotto, no non ce la faccio ad andare a prenderti un cerotto, devo sedermi, mammamia che senso.
Quelli che ma davvero peschi, ma come fai, ma prendi i vermi con le dita, ma davvero, dio io non potrei mai, ma poi il pesce lo uccidi?
Quelli che guarda fammi fare tutto ma non medicare una ferita, giuro non ce la faccio, il sangue, mi sento male, solo il pensiero, guarda.
Mammamia, quanto siamo distanti dalla vita.

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mercoledì, 19 ottobre 2011

A me piace fare la spesa al supermercato.
Mi piace che non ci sia mai la temperatura giusta. Mi piace che abbia luci troppo bianche.
Mi piace prendere la frutta e la verdura senza il guantino, perché non credo affatto che chi l'ha colta, caricata, scaricata e messa in esposizione avesse i guantini.
Mi piace vedere le vecchine, in due, che prendono le confezioni già pronte così non devono pesare alla bilancia e ricordarsi il numero e schiacciare tutti quei tasti.
Mi piace che i fruttini e i verdurini sulla bilancia siano messi in ordine alfabetico, ed essermene accorta dopo anni.
Mi piace vedere le famiglie che ci vanno al completo vestite della festa con le bambine con la vestina a gale, e quelli che ci vanno in tuta e ciabatte come se stessero andando al cesso.
Mii piace guardare i prezzi al chilo e al litro e confrontarli con il volume della confezione e avere ogni volta un sacco di sorprese.
Mi piacciono i signori che ci vanno con la lista della spesa scritta dalla moglie.
Mi piace comprare l'olio extravergine comunitario, perché gli uliveti in Spagna e Grecia li ho visti e sono molto belli, e quelli che comprano "solo italiano" mi fanno ridere abbastanza tanto.
Mi piacciono i pensionati che fanno man mano il conto, perché lo faccio anch'io.
Mi piace prendere le cose dagli scaffali più bassi che non guarda mai nessuno, come il vetril quello nel flacone azzurro che spruzza senza spray.
Mi piace rispondere che no, non ho la tessera e non la voglio, grazie.
Mi piace regalare i punti omaggio alla signora che vien dopo, tutta contenta.
Mi piacciono le coppie appena formate, che fanno circospette mediazioni sull'acquisto di ogni prodotto.
Mi piacciono i ragazzetti che entrano in sei in un supermercato immenso e escono con una lattina di cocacola.
Mi piacciono i bambini piccoli seduti sul seggiolino che senza farsene accorgere prendono cose a caso dagli scaffali e le buttano nel carrello.
Mi piace calcolare quanti sacchetti serviranno, e adesso è più difficile perché oltre al volume devi calcolare il peso, se no i sacchetti flosci si biodegradano già prima della porta.
Mi piace guardare cosa ha preso la gente che viene prima e dopo di me nella fila, e pensare che questo diventerà obeso e quella invece ha la smania dell'igiene.
Mi piace quello che vede cosa prendi e rimette sullo scaffale quel che aveva preso e prende lo stesso che hai preso tu.
Mi piace che al supermercato i conoscenti li puoi salutare con un cenno, mentre al mercato ci devi chiaccherare.

Mi piacerebbe di più il mercato, naturalmente, ma se fosse vero. Se il fruttivendolo prende il furgone e va a comprare all'Ortomercato, assieme a tutti gli altri, allora tanto vale il supermarket. Anzi, se la merce viene consegnata direttamente a loro alla fin fine è una filiera più corta, quella.
Sono quasi tutti finti, i mercati ormai. Come i - pochi - negozi di quartiere: se il macellaio non macella, il panettiere non panifica e l'ortolano non ha l'orto è inutile giocare a quello che non va al supermercato.

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martedì, 18 ottobre 2011

Perché un altro dei condizionamenti ipnopedici che ci hanno inculcato è quello che “La critica deve essere costruttiva. Che proposte hai? Nessuna? Allora non parlare.”
E mi ha un po’ stufato, anche questa solfa.
Perché non sta scritto da nessuna parte che devo conoscere tutte le implicazioni dell’uso dell’acido acetilsalicilico per poter dire che ho mal di testa.
Perché non devo necessariamente aver vinto Hell’s Kitchen per avere il diritto di dire che questa pasta fa schifo.
Perché non ho bisogno di saper fare una analisi approfondita e rigorosa delle tematiche dell’economia postmoderna, della finanza internazionale e del mercato del lavoro nella società globalizzata per dire che mi secca non avere i soldi per pagare le bollette.
Perché se per parlare è necessario essere in grado di formulare una proposta precisa, articolata e approfondita, allora di economia devono parlare solo gli economisti, di soldi solo i finanzieri, di politica solo i politici. Di lavoro solo sindacati e imprenditori. Di inquinamento gli scienziati. Di come si nasce e come si muore solo i medici. Di cucina gli chef. Di verde pubblico gli urbanisti. Di infanzia i bambini. Di letteratura gli scrittori, di giornalismo i giornalisti. Di scuola gli insegnanti, di sesso le puttane, di vecchiette le badanti.
Mi siedo sul terrazzo, ecco, e sento che proposte vogliono da me le piante di pomodoro e il gatto.

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domenica, 16 ottobre 2011

Siamo contro la violenza, va bene. Su questo tutti d'accordo, dai.
Diventa persino un po' stucchevole e barocco continuare a dirlo e ripeterlo "Ah, anch'io" "Ma anch'io, ci mancherebbe". Tutti d'accordo, va bene.
Detto questo, io mi sento sempre più a disagio nel sentire parlare di cortei e manifestazioni in termini di Una bellissima festa, tanta gente colorata e allegra che sfilava pacificamente, cantando. Più che una protesta, una scampagnata: tanti cartelli e strisconi, si, ma mamme e bambini, e cori e colori. Cosi vanno bene, le proteste, cosi van fatte.
E sfido. A chi mai può dar fastido un gruppone di gente, anche fosse moltissima, che passeggia al sole?

Ma che bravi, vedi, come protestano bene, come sono educati, carini, allegri.
Che dolci.

Magari sbaglierò, ma non riesco a non pensare che una protesta debba dare FASTIDIO.
Debba disturbare, debba mettere in difficoltà qualcuno, debba essere in qualche modo un problema.
Che venga graziosamente concesso di esprimere protesta purché nessuno protesti troppo, rabbia purché nessuno si mostri troppo arrabbiato, purché nessuno faccia troppo rumore, purché si lasci tutto pulito, purché nessuno rimanga turbato: ecco, a me inizia a sembrare un imbroglio.

Proibire una manifestazione creerebbe un sacco di problemi, va a sapere poi cosa gli verrebbe in mente, che la facciano la manifestazione, poverini, han bisogno anche loro un po' di svago, un po' di sfogo.
Purché, naturalmente, si abituino a pensare che una manifestazione ben riuscita è quella che farebbero Heidi e Hello Kitty, una cosa tenera e canterina, un corteo di Hobbit che lanciano fiori nel dolce sole d'autunno.

Non voglio, sia chiaro, non voglio che nessuno si faccia male, non voglio che sia distrutto o  bruciato niente.
Però bisognerà pur trovare una maniera per far sì che una protesta torni ad essere una protesta: giusta, forte ed EFFICACE.
Perché se le città sono accondiscendenti e liete, se i governanti sono benevoli, tranquilli e persino inteneriti, sbaglierò ma a me qualcosa non torna più.

Tocca inventare qualcosa, io credo. Non so cosa, ma magari bisognerebbe povarci. Magari un sit in che blocchi tutto, magari liberare per le strade un milione di rane, magari versare bidoni di tempera gialla e verde e blu - lavabile per carità, ma sai il fastidio - magari solo le biglie come in Animal House. Non so. Forse ai ragazzi, ai più giovani e freschi, verrà in mente qualcosa. Spero.

Perché riunire mezzo milione di persone incazzate ed essere fieri di come tutto sia stato bello e riuscito bene, avendo ottenuto tre inquadrature di palloncini colorati e bei faccini a me sembra una truffa. Un po' come i Massì tesoro va bene, fai pure il piercing, è giusto che i giovani si sentano protestatari, però non troppo grosso. E lava le mani, e dì buongiorno alla signora, e non tenere la musica troppo alta in camera.

Finchè il modo in cui si protesta dovrà essere approvato sorridendo da coloro contro cui si protesta, mi spiace, a me continuerà a non tornare il conto.


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martedì, 11 ottobre 2011

- Perché tu, oltre che bello, sei anche buono.
- Ahahahahah, ma dai... non è vero!
- Sì che è vero.
- Ma smettila, dai. E poi cosa intendi per "buono"?
- Buono: che non fai male a nessuno volontariamente, che se appena puoi fai bene a qualcuno deliberatamente. Buono. Dai, accidenti, sai benissimo cosa vuol dire: non te l'ha mai detto tua mamma, tua nonna "Sii buono"? E lo sapevi cosa intendevano, no?
- Sì, ma. Ma erano almeno trentacinque anni che non ne sentivo parlare. E poi, non so...

Ecco, appunto.
Quando è stata l'ultima volta che avete detto a qualcuno che era buono senza avere la vaga sensazione di offenderlo?
Non si dice più Sii buono. Si dice Fai il bravo. Che è una cosa molto diversa, mi pare: un modo di comportarsi, non un modo di essere. Si può essere perfidi, e comportarsi molto bene.
E, soprattutto, è vagamente insultante: buono fa pensare a qualcuno un po' stupidotto, un ingenuone, uno sprovveduto, un candido, un mite forse un po' vigliacco.
O, peggio, a un paolotto, uno che va a messa e aiuta il don all'oratorio, uno che non dice le parolacce, non si masturba e non si interessa di politica.
Uno di quelli di cui mia nonna avrebbe detto È un po' un SanQuintino.
Ora se si pensa a una persona buona viene più o meno in mente uno pallido e un po' bisinfio, con grossi occhiali e andatura lenta, che mette via i sacchi del supermercato ben piegati e mai darebbe, mai, un pugno a qualcuno.
Qualcuno che fa melense opere di bene e non se ne intende di tecnologia. Qualcuno non molto interessato al sesso.
Di uno strafigo colto, abbronzato e muscoloso, di una bella donna tutta intelligenza e gambe, di un ragazzetto tatuato coi capelli in piedi e i jeans sotto le chiappe non ti verrebbe da dire È una persona buona. Eppure, perché no?
Eppure, no. Non si dice più. Sono anni che sento dire solo "No, sai, XXXX è davvero una bella persona".
Come se la bontà si fosse trasformata in un'attributo estetico dell'anima.

Non dico che sia giusto o sbagliato, non lo so. Solo, mi domando quando.
Quando è stato che abbiamo iniziato a usare questi giri di parole, questi strani eufemismi? Quando è successo che la bontà è diventata una cosa leggermente vergognosa?



(ad esempio io mi vergogno un po', a pubblicare questo post.)



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venerdì, 07 ottobre 2011

Quest'estate ho avuto paura delle stelle. Qui non ce ne sono quasi più, naturalmente, ma lì ce n'erano tantissime, più di quante abbia mai visto, e nonostante ne cadesse qualcuna ce n'era ancora un firmamento di milioni. E mentre le guardavo ne vedevo sempre di più: la via lattea fatta di oggetti e non di luce.
Così, invece di chiudere gli occhi e girarmi su un fianco per dormire, ho deciso di addormentarmi ad occhi aperti. Supina, a tre metri dal mare, volevo tenere gli occhi spalancati sulle stelle e lasciare che a un certo punto si chiudessero da soli.
Ma quando iniziavo a scivolare nel sonno, e tutto si sfuocava e diventava buio, all'improvviso - forse un rumore di onda, forse un soffio d'aria - ritornavo di colpo, in un istante, sveglia.
E in quell'istante lì, come in una messa a fuoco di velocità sbalorditiva, rivedevo le stelle, tutte e una a una, che mi esplodevano negli occhi tutte insieme. Arrivavano di colpo, ed erano miliardi.
Ho dormito pochissimo, perché continuavo a rivedere il big bang. E ho avuto paura: l'universo era vivo e mi guardava.




Perché mi è venuto in mente adesso? Non lo so.

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martedì 10 gennaio 2012

Settembre 2011

venerdì, 30 settembre 2011


Come il nulla nella storia infinita, il lupatoto avanza.
In altri paesi ha dei confini precisi: c'è la campagna, poi il lupatoto, poi la periferia residenziale, poi il centro città.
Il nord Italia, invece, è un unico gigantesco lupatoto.
Un capannone. Un gommista. Tre villette, messe un po' di sghembo una rispetto all'altra, una giallo poltiglia, una rosa confetto con mattoncini, una marròn con pilastrini. Un distributore. Un MercatoneBuonPrezz. Un altro capannone. Una rotonda. Una concessionaria di veicoli industriali. Cinque villette a schiera con vista sulla concessionaria. Un altro capannone, più grande. Un elettrauto. Un rivenditore di piscine. Due villette, una con giardino l'altra no, entrambe con tapparelle beige e lenzuola sui davanzali. Una rotonda con aiuola di gramigna. Un MercatoneCompraBen. Un terreno incolto, con un'auto abbandonata tra i barbansotti. Altri due capannoni, con cancelli elettrificati e cani feroci. Un cimitero. Un distributore con lavaggio auto self service. Una CasaDelLampadario. Una palazzina di uffici di tre piani con vetri fumè. Una prostituta mattiniera. Sei villette a schiera. Un ristorante cinese. Un capannone, piccolo. Un semaforo. Un campetto da calcio con una porta sola. Un villino dell'ottocento coperto d'edera. Sei capannoni, tutti grigi tranne uno. Un MercatonePaghiMen. Un distributore. Una concessionaria. Un lavasecco. Una villetta con tende a strisce e ampio posto auto. Una CasaDelDivano. Una trattoria. Quattro villette con araucarie in giardino. Un cantiere. Un'isola ecologica. Un orto. Un capannone. Un rivenditore di materiali edili. Un capannone. Una villetta. Un capannone.

Là dove c'era l'erba ora non c'è una città. C'è un lupatoto.
E avanza: ogni giorno una ruspa si sveglia e sa che dovrà spianare le fondamenta per un nuovo capannone, ogni giorno una villetta si sveglia e si trova davanti alla finestra uno svincolo neonato.

Per sapere se sei nel lupatoto c'è un semplicissimo test in tre fasi.
• Primo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti fermarti a fare la cacca.
• Secondo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti fare un picnic.
• Terzo: guardati intorno e domandati se, a perdita d'occhio, vedi un posto dove potresti volere fossero disperse le tue ceneri.

Se trovi l'uscita, scappa.





Lupatoto:

-.Beh, dovremmo essere arrivati, no? Il cartello della città era cinque chilometri più indietro.
- Sì sì, ci siamo quasi: questo è il sangiovanni lupatoto di XXXXX, tra dieci minuti siamo in centro.
- Questo è il cosa?
- Il sangiovanni lupatoto, questo posto qui di capannoni e mercatoni è come sangiovanni lupatoto: è un paese, sai.
- Hahahahhahhahahaahhaahah, ma smettila! Non può esistere un paese che si chiama così, l'hai inventato.
- Che scema. Certo che esiste. San Giovanni Lupatoto, è nel veneto.
- Hahahahahahahahah! LUPATOTO...! L'hai inventato! Hahahahaahahahhahaha!
- Ma smettila. Esiste, giuro, smettila di ridere come una scema.
- HAHAHAHAHAHAHAAHHAAHH!
- Quando andiamo a casa guardiamo su gugol e vedrai. Se esiste mi devi una bottiglia di pastis.
- LUPATOTO...! AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!

Esiste. Ma la parola è così bella, così perfetta che non ha sinonimi: adesso finalmente avete un nome, per quello che vi vedete intorno. E che quello che guardate si stia lupatotizzando sempre più in fretta non fa ridere, in effetti.

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mercoledì, 28 settembre 2011

Ma voi lo sapevate che le ortiche non vi pungono se le toccate senza respirare?
Lo sapevo, ma non ci pensavo più da tanto. Poi ieri abbiamo fatto un giro nel bosco e mi è tornato in mente. Funziona, e non ho idea del perché. Forse ha a che fare coi pori della pelle, che quando inspiriamo si aprono come tante bocchine e se teniamo il fiato restano chiusi? O con l'anidride carbonica che ci si spande tutta addosso mentre respiriamo?
Non lo so, ma mi è venuto in mente che si dovrebbe provare anche con altre cose, con le meduse per esempio, e mi è spiaciuto non averci pensato al mare. Magari non avrei avuto il coraggio di toccarne deliberatamente una, ma credo di sì: dev'essere liscia come un budino freddo.
E poi ho pensato a tutte le volte che qualcosa ci fa male e ci dicono di respirare. A quando mia mamma facendomi le punture da piccola mi diceva respira, respira profondamente. E faceva malissimo. Magari a trattenere il fiato la penicillina non l'avrei neanche sentita. Magari anche se uno ti dà un pugno o dice una cosa cattiva, se non respiri non fa male. Chissà, bisognerà provare.
Intanto, sul margine tra il prato e il bosco c'era una luce tiepida, che aveva il sapore dell'uva gialla lasciata troppo matura sulla pianta, con una vespa che per ore la beve.
E niente, abbiamo accarezzato le ortiche per un po'. Poi siamo tornate a casa.

(foto di Marghe)