mercoledì 19 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 7 -

- Oddio lei chi è? Cosa fa qui? Come ha fatto a entrare? Se ne vada, subito, subito, se no io
- Tranquilla, Maria, stia tranquilla. Non c’è niente che lei possa fare che
- Se ne vada!
- Ma no, ma no. Si metta tranquilla, che tanto è lo stesso. Dunque
- Vada via! Adesso arriva mio marito e
- Suo marito è già arrivato e andato, cara, è già stato giudicato.
- Giudicato? In che senso? Mio marito giudicato, cosa vuol dire?
- Giudicato e condannato, a dire il vero.
- Ma cosa dice? Lei è pazzo, se ne vada subito! E mio marito è un brav’uomo, cosa crede. Se ne vada!!!
- Un brav’uomo, un brav’uomo, sì. A voler guardare sì. Ce ne sono capitati lei non sa quanti, oggi, che erano di ben peggio, ben peggio. Per quanto.
- Per quanto cosa? Cosa sta dicendo?
- Per quanto non immacolato, comunque. Tant’è vero che è stato condannato.
- Ma come condannato, ma come, ma per cosa???
- Mh. È sicura di volerlo sapere? Guardi, oggi è già una giornataccia, fossi in lei non aggiungerei altri pensieri.
- Ma cosa dice, ma lei chi è, ma se ne vada, vada via!
- Fosse così facile. Dunque dicevamo
- Ma mio marito, mio marito dov’è?
- Lasciamo stare, per il momento – Oscilla con noncuranza la spada fiammeggiante - Torniamo a noi.
- A noi? Ma cosa vuole da me, io non so chi sia, se ne vada!
- Su, Maria, collabori un pochino. Mi lasci lavorare, che è una giornata piena, oggi.
- Cosa vuole da me, ma esca, se ne vada subito!
- Tra l’altro, in effetti, lui non ha chiesto quale fosse la sentenza per lei. Vogliamo dire che già la conosceva? Vogliamo dire che lui già sapesse, immaginasse che lei sarebbe stata tra i condannati?
- Io? Tra i condannati? Ma di cosa, ma di che?
- Via, Maria, neanche lei è una santarellina, vero? – Le sorride, ammicca, birichino – I suoi peccatucci li ha anche lei, su, lo sa che è inutile negare.
- Ma quali peccatucci, ma cosa ne sa lei, lei è pazzo, se ne vada!
- Che poi non è che non foste stati avvisati: da quanto ve lo si va dicendo, da quante migliaia d’anni? E lei mi si è pentita? No. Lei mi si è contrita? Macché. Lei ha continuato con i suoi peccatucci capitali come se niente fosse. Non è che adesso può mettersi a frignare come se fosse una sorpresa, andiamo, via.
- Ma cosa dice? Guardi che mi arrabbio davvero adesso, adesso chiamo la polizia e
- Siamo noi, la polizia. Se così vogliamo dire. Su, venga. – Le fa segno verso la porta, con quel suo spadone di fuoco – Andiamo, su.
- Ma mi lasci, ma perché! Guardi che finisce male questa storia!
- Su, non pianga. È già finita. È già finita, la Storia.

 

martedì 18 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 6 -

Rabbrividì, riallacciando i pantaloni nel gabinetto non riscaldato. Si lavò le mani e stringendo i denti la faccia con l’acqua gelata, il sapone sapeva di detersivo da pavimenti. C’era un piccolo specchio rettangolare appeso, bordato di plastica verde, ma non si guardò, non c’era niente da vedere. La stanza era appena meno gelida del bagno e odorava di stufetta a gas e di acrilico e calze e cardamomo. Rabbrividì di nuovo, frugando tra i vestiti sopra il letto: il maglione giallo era troppo stretto per stare sopra quello grigio, ma forse il contrario si poteva fare. Si spogliò e rivestì più in fretta che poteva. Aziz stava finendo di fare il caffè sul fornellino, gli porse la tazza. Facevano una volta per uno a comprare il solubile e quando si arrivava verso la fine del barattolo lui ne metteva ogni giorno sempre meno. Un cucchiaino, il caffè aveva il colore di acqua di pozzanghera ma almeno era caldo. Guardò giù in cortile, la brina smaltava bidoni e cartoni e le ultime erbacce rigide, nere. Un altro brivido, pensando al morso del freddo crudo del ponteggio sulle dita, non tutti i lavori si possono fare coi guanti. Decise d’impulso di mettersi anche il maglione verde, e pazienza se tutto infagottato ci si muove male. Guardò il pacchetto delle sigarette, ma era un po’ preoccupato per la neve: se nevicava  e chiudevano il cantiere chissà. Meglio risparmiare. Meglio tenerne una per la pausa pranzo e una per la sera, per riuscire a prender sonno così stanchi, e che strano come poteva sembrare così vuoto un letto tanto stretto. Bisognava si sbrigasse, però, non voleva perdere l’autobus, il primo. Si ficcò in testa il cappello di lana, Aziz gli fece un cenno col mento, lui con la mano: non parlavano molto loro due. Del resto non si conoscevano quasi, era per caso che si erano trovati a condividere la stessa stanza, la stessa ventosa origine, questo angusto presente, forse la stessa ipotesi indistinta di futuro. Spense la radiolina, troncando lo strazio melodioso dell’amore non corrisposto di una donna certamente bionda, uscì sul ballatoio e appena chiusa la porta sentì l’esplosione. Fortissima, fece vibrare la ringhiera rugginosa e cadere briciole di intonaco. Cosa sarà stato, un incidente. Scese le scale, attraversò il cortile: un altro colpo, ancora più forte, quasi da cader per terra. E ora c’era chiaro là in fondo, rosso e viola e baluginante. Fuori dal portone gli imporporò le guance lo sfarfallìo di fiamme dietro la periferia, poi vide una luce tagliare il cielo in due, e poi un’altra. Il rumore era diventato tanto forte che le sue orecchie non lo potevano più sentire. Rabbrividì, non faceva più freddo adesso. Guardò la pensilina dell’autobus, vide il policarbonato raggrinzire e sciogliere, vide i manifesti pubblicitari accartocciarsi, un vento duro sfaldarli sull’asfalto. Rimase immobile perché non c’era dove andare, negli occhi neri lustri come pozze di petrolio riflesso il divampare, fiamme e lampi. Vide tutta la guerra da quel marciapiede. Durò sette minuti esatti.
 

lunedì 17 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 5 -

Naaaaa, ma dai, non mi va. Ma senti, per stasera allora. . Pronto. Oh, ci sei? Dicevo per stasera. Pronto? Pronto? Dove cazzo sei? Ma vaffanculo. Cosa c’è, dice la Michi, niente, mi ha messo giù il telefono. Quel testadicazzo. Magari è caduta la linea. See, vabbè. Come se me ne fregasse qualcosa, di quello sfigato. Aspetta che chiamo... Oh ma dai, non prende. Neanche il mio, ma checazzo. Si guardano, i lipgloss accuratamente corrucciati. Guardano i cosi che hanno in mano, lustri, sottili, luccicanti. Segnale di campo, zero. Andiamo là nella piazza, lì prende di sicuro: ci ho fatto mille telefonate da lì. Si avviano, lustre, sottili, luccicanti. Ma nella piazza il campo è zero. Ascolta, fanculo, sai cosa facciamo, ce ne andiamo al Magillagorilla per conto nostro, ci facciamo l’aperitivo poi si vede, magari facciamo uno squillo al Marco. Ma se l’Andrea ti ha paccato come ci andiamo: in metrò, che palle. Ma sì, visto che siamo qui, son cinque minuti. Scendono le scale, controcorrente. La Michi le viene un dubbio: ma perché tutta sta gente sale? Scusi, ma c’è qualche problema? L’uomo le guarda le tette, che anche sotto il cappotto sono lì apposta, poi si riscuote e va a spiegare: non va, il metrò è fermo, c’è un guasto o non so cosa. Ma tutte le linee? Sì, tutte, da come han detto sembra una cosa lunga. Se ne va, con un’ultima occhiata e un non troppo celato rimpianto. Mh, beh, pigliamo un taxi. Ah già, non posso chiamare, non ho campo. Andiamo alla fermata, siamo in centro, sarà vicina. Sì ma dove? Ah, non so, cerca su internet. Ah, no. Ma che cazzo avranno ‘sti telefoni. Si guardano. Guardano i cosi che hanno in mano, lustri, sottili, luccicanti, muti. ‘Scolta, io me ne vado a casa, mi sono rotta le palle, stasera non è serata. Eh. Vabbè, mi faccio un bagno, mi faccio le unghie, vedo se ribecco in chat quel tipo dell’altra sera. Sì, massì. Però se il metrò non va e non possiamo chiamare un taxi come ci andiamo a casa? La Michi, intraprendente: prendiamo un autobus, un tram. Da qui? Quale si prende? Ah, non so. Guarda su, ah, no. Si guardano intorno, viene buio presto in questa stagione e la luce sta già, quasi impercettibilmente, scemando. Ma ci sarà una roba, uno schema delle linee, no? Tipo comprare una piantina, come avevano fatto i miei quando siamo andati a Parigi che io ero una bambina. Ma dove? In edicola, c’è un’edicola là in fondo, all’incrocio. Si dirigono verso l’incrocio - la borsetta inizia a dare fastidio, anche i tacchi - e incrociano un tram. Anzi due. Fermi sui loro binari. Lei che è la più figa e perciò s ail tono del comando chiede ai tramvieri, che fumano parlando di cose loro: scusi, ma i tram perché sarebbero fermi? E niente, signorina, c’è un guasto: le centraline, sono saltate le centraline, niente, non vanno. Ma scusi ma noi come ci andiamo a casa? È un po’ nervosa adesso, sul limite dello stridore, il tramviere le guarda comprensivo le tette, guardi le conviene andare a piedi, fa ondeggiare la mano sigarettata verso un orizzonte indistinto, le conviene, tra poco fa buio, vi conviene andare, andare a casa a piedi, a casa. Si guardano, guardano intorno, la luce è già bassa, il crepuscolo d’inverno incombe. Ma tu sai andarci, a casa a piedi? Ma sei fuori, no, no, non lo so, cioè boh, magari sì ma saranno due tre quattro cinque chilometri, non è possibile farli a piedi, non è possibile. Ma se no, come? Michi, minchia, checazzoneso! Vabbè, andiamo, poi magari i mezzi ricominciano a andare, si potesse almeno chiamare qualcuno, merda. È decisamente nervosa: slitta sugli stiletti, lei che col tacco dodici è usa a fare acrobazie. Un uomo esce imprecando da una porta scorrevole, le urta: nella sua nicchia il bancomat pulsa dolcemente di luce azzurrina, fuori servizio, dice. Dopo ventisei minuti entrano in un negozio, vogliono comprare scarpe da jogging. La commessa è gentile ma loro hanno fretta, non gliene frega niente di quale modello, vogliono solo togliersi quei plateau. Il sacchetto è già pronto ma sorge un problema: la carta di credito non funziona, il bancomat neanche. Non c’è linea, mi spiace, mi spiace, non avete contanti? Contanti, ma checazzodice! La Michi si intromette, quel tono stridulo la mette a disagio: no, contanti no, va beh non importa, ci scusi, abbia pazienza, andiamo Giulia, andiamo. La commessa le osserva allontanarsi, un fregio di sangue sull’orlo della scarpa, la vescica lacerata cola lungo il tacco. La commessa guarda la sera che scende, non ha venduto niente nelle ultime due ore - il POS non funziona - ha provato a chiamare il capo ma il cellulare non prende. E le tipe hanno detto che il metrò, i tram, è tutto fermo. Prende una decisione, spegne le luci, chiude il negozio: deve pur tornare a casa, anche lei. Il comando della serranda è cieco e muto, la lascia aperta – fanculo - e si avvia, ha molta fretta e un po’ di ansia, adesso. Un giovanotto punta ossessivo sulla sua auto ferma la chiave elettronica come una pistola, che risponde con un dolce schiocco di cilecca. Un altro quarto d’ora, è ormai del tutto buio. E nessun lampione si accende. Porcatroia se non fosse dicembre me le toglierei ste cazzo di scarpe. Io me le tolgo, vaffanculo, porcodio non funziona un cazzo e non so neanche dove siamo, quello là in fondo è viale Abruzzi? Le togli? Ma fa freddo... voglio telefonare, mi sanguinano i piedi, voglio essere a casa, guarda le case sono tutte buie, non c’è corrente, voglio essere a casa guarda quei tre non mi piacciono, è tutto chiuso, tutti i negozi, le cler alzate sembrano abbandonati, voglio andare a casa ho paura mi viene da piangere prova a telefonare non funziona ancora non funziona niente guarda tutte le macchine ferme c’e troppa gente in giro a piedi c’è troppo buio cosa succede ho paura ho paura ho paura.

domenica 16 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 4 -

La mamma dorme, stamattina. Avvolta nelle coperte, dorme. Così tanto dorme che non si è svegliata neanche quando Gaia l’ha toccata con la manina sulla spalla. Neanche quando l’ha toccate un po’ più forte, poi il papà l’ha chiamata di là e lei è corsa in cucina. Non c’era Nicolò a fare colazione: dorme anche lui, magari. Il papà tossiva forte mentre le metteva a scaldare il latte, la mamma dorme stamattina, anche Nicolò, ha detto il papà. Non bisogna disturbarli, ha detto, non bisogna andare a toccarli. Non si va all’asilo stamattina, ha detto. Il papà ha un po’ di tosse, non si sente tanto bene, non si va all’asilo. Lei pensa che magari potrà guardare un po’ di cartoni animati, più tardi, allora. È seduta sulla sedia, sul cuscino, mangia un biscotto. Il papà ha le mani che tremano forte mentre le versa il latte, ne versa un po’ sul tavolo, vuole pulire e ne versa ancora urtando la scodella. Abbassa le mani, stringe la spugnetta, la guarda. Lei fa il gioco che il biscotto sopra fa affondare quello sotto, ma non bisogna toccarlo col cucchiaio se no non vale. Non lo guarda perché guarda il biscotto, ma poi sente che la abbraccia piano, sente la sua mano sui capelli, sulla guancia: ha la mano calda caldissima, sudata. Le dice che papà è un po’ stanco, va di là a sdraiarsi un momento, poi dopo giocano e guardano i cartoni animati. Lei finisce il latte, quasi tutto, poi non sa cosa fare perché c’è molto silenzio e lei non la sa accendere, la televisione. Va alla finestra del balcone, guarda giù. Le piace guardare la strada, sembra quando Nicolò gioca con le macchinine, ma le macchine sono quasi tutte ferme adesso. Ne arriva una, adagio, fa una curva strana e si ferma sotto il semaforo, proprio. Scende una signora, ha un bel cappotto come di pelo, scende e si appoggia alla portiera e poi cade per terra, tutto il cappotto di pelo rotondo intorno come un gatto addormentato. Lei sposta la bambola Chetti sull’altro braccio, si mette il pollice in bocca. La mamma non vuole perché dice che ormai è grande ma tanto la mamma dorme, adesso. Anche il tram è fermo, il guidatore dorme sul volante, anche i signori seduti dormono, appoggiati indietro o con la guancia contro il finestrino. Ci sono altri signori per terra, sul marciapiede e anche sulla strada, dove non si deve mai andare, mai, solo per mano a mamma e papà. Lei si toglie il pollice dalla bocca, lo guarda sconcertata: per la prima volta in vita sua ne sente il sapore, è amaro, e anche un po’ salato. Poi fa un colpo di tosse. Poi un altro.

Fino alla fine del mondo - 3 -

Adele si sfilò gli occhiali, gli diede una pulita con l’orlo del golfino. Adesso andava meglio, sì. Scostò ancora un poco la tendina, una pratica di molti decenni le faceva sapere esattamente quanto largo poteva essere lo spiraglio per vedere senza essere vista. Che non fosse più come una volta lo sapeva da un pezzo: quando era giovane era ben raro che in paese arrivasse gente da fuori, era quasi un avvenimento, per dire. Poi passando gli anni, si capisce, le cose vanno a cambiare e di forestieri ne capitavano sempre più spesso, la città si era fatta più vicina, il paese si era ingrandito di famiglie che ci erano venute a stare, in condominio e a schiera, gente che gli piaceva abitare fuori anche se c’era da fare il pendolare. E poi a un certo punto quegli altri, che dicevano che erano anche brava gente, che veniva a lavorare, ma lei non si era mai fidata tanto. Stracomunitari, lei le facevano sempre un po’ paura, teneva la porta sempre chiusa anche con la chiave in alto, che dicevano che andavano a rubare nelle ville (magari, che era una villa, questa). Dicevano che entravano nelle case dei vecchi (oddio vecchi, delle persone anziane) a rubare (che poi i soldi uno li tiene in posta, e i cinquanta euro di scorta sono nascosti bene, eccome). Dicevano che violentavano le donne (oddio chissà cosa dev’essere essere violentate da uno di quei giovanottoni, così neri). Si fece il segno della croce, ma te, ma guarda che pensieri. Col suo povero marito che la guardava dalla cornice di peltro sul comò. Si aggiustò gli occhiali sul naso e allargò di un altro centimetro lo spazio tra le tende: era quasi al limite di essere vista ma non è che uno può non guardare. Si torse un pochino di lato, il ventre fasciato di maglina malva premuto contro il calorifero, come si fa a non guardare. Vide che il Piero era sceso in cortile vedendoli arrivare, lo vide avanzare agitando le mani. Assentì tra sé leggendo sulle sue labbra quello che lei stessa avrebbe detto: via, via, questa è proprietà privata, fuori, o chiamo i carabinieri. Bravo. Bellicoso, gli si era fatto più vicino. Le girava le spalle adesso e non capì cosa si dicessero, ma il battibecco fu molto breve: ci fu una specie di sbuffo e dove un attimo prima era il Piero si afflosciò come un mucchietto di polvere marròn. Un refolo di vento fece turbinare il Piero disperdendolo in un amen e fu in quel momento che il Giovannino – il fratello del Piero, l’unico rimasto che il povero Anselmo era restato sotto il trattore nell’ottantadue – scese di corsa (quasi di corsa insomma, con la sua gamba sifulina) le scale, con in mano lo schioppo. Chissà se funzionava ancora, poi, che erano vent’anni almeno che non andava a caccia. Non si può sapere perché non fece neanche in tempo ad imbracciarlo che lo sbuffo lo disfece in sabbietta, lui e lo schioppo. L’Adele si scostò dal calorifero, abbassò la mano che aveva premuto forte sulla bocca. Fece un passo indietro, guardò la porta chiusa con due chiavi, anche quella di sopra. Chissà, chissà cosa dev’essere essere violentate da uno di quei giovanottoni, così verdi.

sabato 15 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 2 -

Il primo sorso di caffè come al solito la disgustò. Vedrai che poi – dopo un po’ - ti piace, le avevano detto. Vedrai che poi finisce che non riesci più a berlo con lo zucchero, che ti fa schifo. E sai quante calorie in meno: fai quattro caffè al giorno, ma fai anche cinque, due cucchiaini ogni volta e fai un chilo al mese come niente. In effetti dopo il primo sorso gli altri erano meglio, si lasciavano bere, dopotutto. E quei tre chili voleva a tutti i costi buttarli giù entro l’estate. Vero che mancavano più di sei mesi ma quest’anno voleva muoversi per tempo, basta con le diete folli dell’ultimo mese, una cosa graduale. E tanto movimento. Aveva una gran voglia di un biscotto, ma no. Davanti alla finestra buia, la tazza in una mano, si passò l’altra sulla pancia. Era già più piatta, davvero. Le piaceva bere il caffè davanti alla finestra, vedere arrivare l’alba, indovinare dalle nuvole che tempo avrebbe fatto. Le piacevano quei minuti di fermo silenzio prima di tutto lo sbattere e il frastornare della giornata, sempre così lunga e così breve. I tetti delle case erano ben disegnati, adesso, sulla striscia viola all’orizzonte e il cielo da nero si faceva blu, limpido come inchiostro. Aggrottò la fronte. Quel chiarore viola, porpora e ora già rosa acceso non doveva essere lì. Quello era il nord, non l’est. Sei rincoglionita, pensò. Sei mezza addormentata, dai. Eppure no. Si girò un attimo a guardare la cucina, si pizzicò – piuttosto forte – un orecchio con le dita. Era sveglia, senza dubbio. E da dieci anni aveva guardato ogni giorno spuntare il giorno in quella casa e sempre il sole era sorto dietro il condominio giallo o al più, a seconda della stagione, dietro il capannone dell’autolavaggio. Ma lì il cielo era appena turchino, ora, e sfolgorava di arancione dietro le villette. A nord. Si portò la tazza alla bocca ma dovette fare uno sforzo disperato per riuscire ad inghiottire. Il sangue le pulsava nelle tempie, non è possibile, pensava, non può essere possibile, il sole sorge a est, da sempre. Da sempre sorge dietro il condominio. Girò lo sguardo con cautela, senza quasi muovere la testa: sembrava tutto a posto, tutto tranquillo, quieto e silenzioso. Un autobus passò veloce, vuoto e illuminato. Il mare era molto lontano da lì, non poteva sentire il rumore delle onde che si alzavano veloci, che avanzavano rombando mentre il ghiaccio dei poli si scioglieva, liquefacendo rapidissimo al sole equatoriale. Non poteva sentire il blizzard schiantarsi contro inaspettate fronde di palme e baobab, né il rumore di schianto con cui il Rio delle Amazzoni si congelò di colpo, imprigionando nel ghiaccio coccodrilli stupefatti e bocche spalancate di pirañhas. Ma gli uccelli li vide, immobile davanti alla finestra, la tazza abbandonata tra le dita che aveva smesso da ore di gocciolare caffè freddo e amaro. Gli uccelli si muovono in fretta e lei li vide, stagliati contro quell’impossibile rosso vermiglio tramonto a oriente: prima radi poi a stormi sempre più compatti, riempivano il cielo a migliaia, a milioni, fenicotteri e gru, e avvoltoi e ara e colibrì. E sgargianti immense nubi gialle e verdi, quell’insostenibile frastuono che fanno i pappagalli.

venerdì 14 dicembre 2012

Fino alla fine del mondo - 1 -

Finì di fare la barba pensando al commercialista. Bisognava trovare per forza un momento per andarci, in settimana. Che rottura di palle. Ripose il rasoio, ficcandolo nell’armadietto un po’ a casaccio, e svitò il tappo del dentifricio pensando alla rata del mutuo. Ma era un pensiero fastidioso e smise quasi subito, anche perché doveva concentrarsi sulla riunione delle dieci, che sarebbe stata tutt’altro che una passeggiata. In effetti non aveva voglia di pensare nemmeno a quella, non aveva voglia di pensare a niente, in effetti. Neanche all’Antonella, non una gran voglia. 
Si spazzolò i denti, sputò, li spazzolò di nuovo. Non aveva ancora rivolto un solo sguardo alla sua immagine riflessa nello specchio. 
Sputò ancora. Guardò la scia spumosa nel lavandino, verdolina e mentolata. Rimase un po’ a guardarla. Era molto bianco il lavandino. La luce che veniva dalla finestra alle sue spalle lo colpiva in pieno. Alzò gli occhi alla finestra nello specchio: il cielo si schiariva, tinto di lilla e di celeste. Ebbe un attimo di perplessità, guardò l’orologio, no, non aveva sbagliato a puntare la sveglia: erano le sei, era l’ora giusta. Eppure era quasi sicuro che ieri non c’era così luce a quest’ora. 
A dire il vero non c’era così luce neanche un’ora più tardi, quando scendeva dal treno iniziava appena ad albeggiare, ieri. E l’altroieri. E tutto il mese scorso. 
Il cielo nello specchio era tutto azzurro ormai, un azzurro ogni momento più lucente. Il riverbero faceva splendere le piastrelle e scintillare le boccette allineate sulla mensolina: un raggio colpì quella del dopobarba, traendone un breve, luminoso arcobaleno. Il chiarore inondava la finestra, lo specchio era troppo abbagliante da guardare, ormai. Pensò che avrebbe dovuto dare un’occhiata fuori, vedere che cosa, vedere perché. Guardò il lavandino, invece. Un capello disegnava una morbida ellisse intorno allo scarico, la schiuma verdolina era quasi secca. La pulì con cura con la mano, adagio, piano. Così bianco da far male agli occhi, così bianco, tutto. Così in fretta arriva, così bianco, così in fretta. Il sibilo lo udì, assordante, immane. Fece in tempo a pensare che la rata del mutuo, vaffanculo. Poi, la luce fu.