giovedì 26 settembre 2013

Guarda e impara.

La pubblicità mostra gli stereotipi. Questa sconcertante scoperta andrebbe accompagnata alla considerazione che la pubblicità ha lo scopo di vendere. Evidentemente mostrare degli stereotipi vende.
E vende, ma guarda, mostrare quegli stereotipi che sono dei sogni: far finta di credere che tu possa credere che assieme al sofficino ti compri una vita, proprio quella lì.

Perché noi che siamo belli e eleganti, noi che siamo in forma e beneducati e solari ci concentriamo su chi appoggia il vassoio sul tavolo, ma i milioni e milioni che sono grassi e brutti, che sono esausti, delusi e sfatti e mangiano soli in tetri cucinotti di casermoni mentre il partner - quando ce l'hanno - sta davanti alla tv o torna ore più tardi da un lavoro di merda si concentrano sulla bella tovaglia in una grande cucina ben arredata e inondata di luce. Si beano della visione di una bella signora snella e ridente, di un bell'uomo forte e sereno, di bimbi di allegra perfezione e delizia.
Sognano nel pensarsi muscolosi e colti e assertivi, profumati di dopobarba alla guida di una macchina lustra, sognano nel pensarsi senza cellulite come le cosce di pesca di una modella di sedici anni. Sognano nel pensarsi disinvolte e flessuose in freschi pantaloni turchini mentre prendono caffè sul lungomare, i lustri capelli d'argento mossi da un refolo e il pannolone non si accorgono neanche di averlo, e la dentiera con quella colla è come i denti dei tuoi vent'anni.
Ma guarda, la pubblicità vende dei sogni.
Ma guarda, già che faccio una vita di merda adesso mi vieni a dire cosa devo sognare.

Oppure no, oppure diciamo che la pubblicità non mostra stereotipi, diciamo che ce li inculca.
Guardiamo e impariamo, i bambini la guardano e imparano.
Impariamo dalla pubblicità che le donne devono essere belle e sottili, che devono essere sorridenti e gentili. Ma impariamo anche che gli uomini devono essere snelli e prestanti, che devono essere attenti, teneri e forti. Impariamo che i ragazzini devono essere educati e puliti e non fare mai un capriccio, che i nonni devono essere benestanti e accoglienti e abbastanza in forma e in salute da permettersi di essere ancora innamorati e piacenti.
Che i colleghi devono essere collaborativi e ottimisti, che ogni gruppo di lavoro è una squadra che esulta assieme per un lavoro sempre ben fatto. Che gli amici sono sempre pronti ad offrire caffè detersivi e affetto, che i bebè sono paciosi e paffuti e non piangono mai, che gli automobilisti viaggiano seguendo tutte le regole, ascoltano ottima musica coi capelli nel vento e non sanno cosa sia la nevrosi da traffico o le liti al parcheggio. Che i capi si danno fieri da fare in mezzo ai loro operai soddisfatti e pasciuti, in cantieri perfetti come salotti dove tutti indossano con  disinvolta eleganza caschi, imbragature e occhialoni.

Se così fosse io ne sarei ben felice. Se guardandola imparassimo tutto quello che la pubblicità ci propone come modello, se assorbissimo questi comportamenti con inconscia prontezza, se li interiorizzassimo con automatica serena mancanza di sforzo sarebbe per me indubbiamente un mondo migliore. Non ancora perfetto, resterà da decidere chi mette nel piatto la simmenthal, ma certamente migliore.

Perché a dire il vero io non ho mai visto una pubblicità in cui un marito picchia brutale la moglie, in cui tre uomini stuprano una ragazza, in cui un vecchio insidia bambini, in cui un giovanotto frustrato accoltella la ex che se n'è andata. Non l'ho mai vista quella in cui i compagni di scuola portano al suicidio l'adolescente grassoccia, quella in cui il capo sottopaga e maltratta l'impiegata mentre le carezza viscido il seno.
Stante così le cose, se è vero che la pubblicità insegna come ci si comporta, allora ecco, ben venga.

Se invece non è così, allora io non ho capito.
Non ho capito come si possa imparare all'istante che è la mamma a scodellare il ragù e non imparare che mentre lo fa il papà non la picchia.