Rabbrividì, riallacciando i pantaloni nel
gabinetto non riscaldato. Si lavò le mani e stringendo i denti la faccia con
l’acqua gelata, il sapone sapeva di detersivo da pavimenti. C’era un piccolo
specchio rettangolare appeso, bordato di plastica verde, ma non si guardò, non
c’era niente da vedere. La stanza era appena meno gelida del bagno e odorava di
stufetta a gas e di acrilico e calze e cardamomo. Rabbrividì di nuovo, frugando
tra i vestiti sopra il letto: il maglione giallo era troppo stretto per stare
sopra quello grigio, ma forse il contrario si poteva fare. Si spogliò e rivestì
più in fretta che poteva. Aziz stava finendo di fare il caffè sul fornellino,
gli porse la tazza. Facevano una volta per uno a comprare il solubile e quando
si arrivava verso la fine del barattolo lui ne metteva ogni giorno sempre meno.
Un cucchiaino, il caffè aveva il colore di acqua di pozzanghera ma almeno era caldo.
Guardò giù in cortile, la brina smaltava bidoni e cartoni e le ultime erbacce
rigide, nere. Un altro brivido, pensando al morso del freddo crudo del
ponteggio sulle dita, non tutti i lavori si possono fare coi guanti. Decise
d’impulso di mettersi anche il maglione verde, e pazienza se tutto infagottato
ci si muove male. Guardò il pacchetto delle sigarette, ma era un po’
preoccupato per la neve: se nevicava
e chiudevano il cantiere chissà. Meglio risparmiare. Meglio tenerne una
per la pausa pranzo e una per la sera, per riuscire a prender sonno così
stanchi, e che strano come poteva sembrare così vuoto un letto tanto stretto.
Bisognava si sbrigasse, però, non voleva perdere l’autobus, il primo. Si ficcò
in testa il cappello di lana, Aziz gli fece un cenno col mento, lui con la
mano: non parlavano molto loro due. Del resto non si conoscevano quasi, era per
caso che si erano trovati a condividere la stessa stanza, la stessa ventosa
origine, questo angusto presente, forse la stessa ipotesi indistinta di futuro.
Spense la radiolina, troncando lo strazio melodioso dell’amore non corrisposto
di una donna certamente bionda, uscì sul ballatoio e appena chiusa la porta
sentì l’esplosione. Fortissima, fece vibrare la ringhiera rugginosa e cadere
briciole di intonaco. Cosa sarà stato, un incidente. Scese le scale, attraversò
il cortile: un altro colpo, ancora più forte, quasi da cader per terra. E ora
c’era chiaro là in fondo, rosso e viola e baluginante. Fuori dal portone gli
imporporò le guance lo sfarfallìo di fiamme dietro la periferia, poi vide una
luce tagliare il cielo in due, e poi un’altra. Il rumore era diventato tanto
forte che le sue orecchie non lo potevano più sentire. Rabbrividì, non faceva
più freddo adesso. Guardò la pensilina dell’autobus, vide il policarbonato
raggrinzire e sciogliere, vide i manifesti pubblicitari accartocciarsi, un
vento duro sfaldarli sull’asfalto. Rimase immobile perché non c’era dove
andare, negli occhi neri lustri come pozze di petrolio riflesso il divampare,
fiamme e lampi. Vide tutta la guerra da quel marciapiede. Durò sette minuti
esatti.
assai bello questo 6.
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