martedì 22 novembre 2011

Gennaio 2006


lunedì, 30 gennaio 2006

Il treno parte d'inverno. Un inverno crudo e candeggiato, imbozzolato da una crosta di ghiaccio granulosa e stretta, dove l'acqua del fiume è lattiginosa e grigia, quasi spessa, indecisa se addormentarsi in un gorgo congelato. La pianura e fin su, sulle colline, è irrigidita e muta dalla neve che riflette tutta la sua assenza di colore su un cielo smorto di fatica.
Poi subito dopo Borgotaro entri nel tunnel ed esci ficcato a forza fino in fondo dentro una impensata primavera.
Pochi minuti di oscurità segnano il confine tra due stagioni opposte: il cielo è blu e risplende, prati e pendii sono già verdi e il torrente ha acqua viva e azzurra, gonfia di riccioli languidi e vezzosi. Tutto è giallo di sole e di stupore.
Al ritorno è la stessa cosa, inversa, passi sferragliando dallo sfolgorio all'annichilimento, da una primavera che già corre tutta indaffarata ad un inverno che sembra immobile per sempre.
E mi piace così tanto questo passaggio così veloce e sorprendente che resterei a giocarci non so quanto, correndo nella galleria a sporgermi un momento sulla neve per poi girarmi in fretta e precipitarmi di là dove è già tre mesi dopo, avanti e indietro, correndo a piedi tra una stagione e l'altra.
Magari anche fermandomi ogni tanto nel mezzo, al buio, a respirare forte col fiato che se mi volto da una parte si condensa e se mi giro dall'altra già sa di terra bagnata ed erba. Proprio nel mezzo, sul confine.
Perché i confini esistono, ma solo quelli che noi non stabiliamo.
Ogni confine che noi, poverini, dichiariamo è sempre e solo una convenzione: di qua io tu stai di lì, adesso lavoro e poi riposo, ieri amorosi oggi coniugati.
Facciamo finta, tiriamo delle righe col gessetto che l'universo allegramente oltrepassa infischiandosene - o forse nemmeno se ne accorge - del nostro cipiglio di sfida fiera e indomita.
E ne traccia altri di confini, quelli sì veri e reali: quelli che a valicarli tutto cambia. Li traccia e li nasconde, invisibili e affilati e solo quando sei dall'altra parte scoppia a ridere e con uno sberleffo
ti mostra quale impensabile frontiera hai attraversato senza nemmeno accorgerti, mentre leggevi il giornale o aspettavi venisse su il caffè, mentre pensavi ad altro - che quasi sempre poi si pensa ad altro,
a farci caso.
È la linea precisa e tesa come un filo sottilissimo d'argento che spezzi passando con le tue grosse scarpe e prima il natale era magia e dopo è rito; prima credevi qualcosa e poi sai bene che non era vero; prima c’era un virus ed ecco, è mutato; prima pensavi fosse amore e poi è già quasi un fastidio; prima qualcuno era lì così che semplicemente c'era e poi lo ami.

Passi da mille inverni a mille estati senza mai riuscire a capire quale sia quel punto preciso della galleria. Anche se ti fermi e stai attento: senti solo il tuo respiro e qualche goccia d'acqua cadere e il rumore lontano di un treno che sta arrivando, forte.


Postato da: sphera a 09:14 | link | commenti (18)



sabato, 21 gennaio 2006


C'era una filastrocca, quando ero piccolissima, che iniziava con: Chiccolino, dove sei? Sotto terra, non lo sai? E lì sotto non fai nulla? Dormo dentro la mia culla...
Non ricordo le parole, poi, ma il chicco spiegava che doveva dormire sotto terra per un po', prima di germogliare e crescere e diventare una spiga e regalarci tanto grano eccetera eccetera, poi il sole dell'estate e le stagioni e le spighe d'oro del raccolto e via dicendo.
Sono sempre sul punto di recitarla (poi mi trattengo, ché le filastrocche da scuola materna degli anni sessanta non sono considerate argomenti validi a suffragio di importanti tesi esistenziali, me ne rendo conto) ogni volta che qualcuno mi chiede cosa sto facendo, riguardo a una certa questione o l'altra.
Non che io sia, di mio, inoperosa: faccio milioni di cose, perlopiù sovrapposte e intrecciate l'una all'altra in complicati arazzi dei quali già tenere il conto dei fili e nodi e intrecci è cosa che necessita di concentrazione, figuriamoci il pensare di seguire un disegno, ancorché elementare.
Sono anche capace, quando mi pare sia il momento, di impugnare scuri e falci e compiere azioni molto attive e vigorose di potatura e taglio, di innesto e fienagione.
Però pare non basti, pare che sia assolutamente essenziale stare sempre facendo qualcosa riguardo a tutto: non ci possono essere, mi si dice, fili e spolette che in certi momenti restino inoperosi, che stiano ad aspettare. Devi fare qualcosa, ma come non fai niente, fai qualcosa, non importa cosa, non aspettare, muoviti.
Non so, io non sono convinta. A me non pare brutto aspettare, soprattutto non mi pare tanto vergognoso, quasi ai limiti dell'immorale.
Nemmeno aspettare un treno mi spiace, o un aereo o una persona: mentre aspetti il treno che sta arrivando non c'è bisogno che cammini avanti e indietro sulla banchina muovendo su e giù le mani per farlo arrivare prima, o più bello e veloce. Ho atteso treni e notizie e navi assieme a persone fuori di sé dall'impazienza, che nel furioso andirivieni affaccendato di sedersi e alzarsi e andare a controllare qualcosa e poi tornare trovavano il tempo di guardare con occhi fiammeggianti di disapprovazione il mio star seduta ferma ad aspettare.
La maggior parte della gente che conosco tripila quasi in continuazione (voce del verbo tripilare: fremere di irrequietezza, agitarsi inane in attesa di un evento rispette al quale nessuno dei tuoi movimenti o atti ha la benché minima influenza). Non vedo nulla di male nel tripilare, beninteso, se si esclude il leggero fastidio dovuto al rumore e allo spostamento d'aria provocato da tutto questo affanno. Solo, non capisco perché dovrebbe essere un dovere, un obbligo.
Penso che ci siano semi sotto la neve che aspettano, e l'aspettare è un lavoro immoto ma vitale, è un gocciolìo lentissimo di vasi che si riempiono, è il movimento impercettibile e costante che lima percorsi di cerchi finché siano perfetti, è il discorso muto e intenso di cellule che dal nulla inventano cosa potranno diventare.
- Cosa facciamo intanto, santodio, cosa facciamo, facciamo qualcosa, cosa facciamo, cosa fai?
- Aspettiamo.
- Io mi stufo ad aspettare.
- Io no.

Postato da: sphera a 10:41 | link | commenti (21)

giovedì, 19 gennaio 2006

Grammatica della notte

La notte, però, è sgrammaticata.
È -e lo sa- nome molto comune di qualcosa, troppo femminile per esser singolare, primitivo perché non tollera diminutivi, collettivo come nessun'altro, concreto e astratto insieme.
La notte è sgrammaticata. È voce di tutti i verbi, prima e ultima coniugazione, ogni persona plurale, modo infinito, tempo solo raramente imperfetto.
La notte è sgrammaticata. È aggettivo possessivo, qualificativo, cardinale, è sempre superlativo, è sempre assoluto.

La notte è tanto sgrammaticata che da sempre sta dietro la lavagna. Dall'altro lato.

Postato da: sphera a 12:16 | link | commenti (7)

venerdì, 13 gennaio 2006

L’aborto è legale, ci mancherebbe.
Però per evitare che le donne nella loro connaturata quanto leggiadra spensieratezza ne facciano uno svago per pomeriggi di noia, si procederà ad effettuare l’intervento senza anestesia, con diffusione di adeguata colonna sonora di ninne-nanne infantili e vagiti neonatali.
All’atto della dimissione verrà consegnato il frutto del peccato, posto in formalina in barattolo trasparente con coperchio rosa o azzurro.

Postato da: sphera a 13:21 | link | commenti (11)


martedì, 10 gennaio 2006

Che noi due ci saremmo dovuti incontrare era scritto nel libro del Destino.
Solo che quella volta Destino era uscito senza ombrello e si è preso tutto intero l’acquazzone. Per quanto avesse cercato di ripararlo sotto la falda del soprabito il libro gli si era inzuppato tutto, fradicio.
L’aveva messo ad asciugare naturalmente, sul terrazzo, al sole. Ma con tutte le cose che aveva avuto poi da fare, nella furia se l’era dimenticato lì per quattro giorni e l’aveva ritrovato tutto cotto e incartapecorito, cosparso di cacche di passeri e merli.
Dopo averlo per quanto si poteva spazzolato, anche per levare la muffa ostinata che aveva incollato alcuni margini arricciati, era bastato lasciarlo incustodito mezz’ora sul tavolo della cucina perché sua moglie Fatalità, soprappensiero, ci scrivesse sul dorso la lista della spesa e dei numeri da far uscire al lotto. Non si seppe mai, invece, chi fu tra le due piccole Fortuna e Sfiga a strappare pezzi di pagine per farne barchette: negarono recisamente, l’una accusando l’altra come sempre, con ostinazione, precisando che comunque si trattava solo di pezzettini e non c’era scritto quasi nulla.
E dire che già non era in buono stato, dopo quella vacanza in cui gli era venuta la malaugurata idea di portarselo in spiaggia, e non era mai più stato in grado di scrollarne del tutto la sabbia che si era insinuata tra i fogli e fin nella rilegatura, che da allora era gonfia e scricchiolava. Probabilmente era stata la presenza di quella sabbietta che aveva ispirato il gatto, qualche tempo dopo, ad utilizzarlo non soltanto – come aveva fatto fino ad allora – per farsi le unghie, ma anche come ausilio igienico.
Cosa che non aveva mancato di sottolineare nonna Nemesi quando dopo averlo cercato per giorni invano si era scoperto che il volume era sotto il cuscino della sua poltrona - per sostenerle le reni, aveva affermato risentita lei, ci fosse mai qualcuno che le desse retta quando diceva che le dolevano - ma ecco diosanto da dove veniva quel cattivo odore.
Comunque non è poi stata del tutto colpa sua, l’averlo dimenticato su quel treno: sarà anche vero che il Destino non dorme mai, ma qualche volta gli potrà ben capitare d’essere insonnolito. Del resto aveva anche fatto tardi la sera prima, come al solito, giocando a dadi col buon vecchio Fato (e poi sul treno faceva anche davvero caldo, insomma, una sonnolenza…)
Gli era toccato riempire moduli e far denuncia e poi andare all’Ufficio Oggetti Smarriti un’iradiddio di volte prima che venisse ritrovato, sul vagone rimasto dieci giorni nel deposito prima che qualcuno si decidesse a farci le pulizie.
E probabilmente uno dei barboni che ci dormivano se l’era sfogliato per passare il tempo, o addirittura l’aveva usato come guanciale, perché quando glielo han restituito era sfasciato e unto ancora più del solito ed emanava un odore sospetto, oltre a conservare rinsecchite tra una facciata e l’altra un paio di cimici schiacciate.

Perciò vedi, non c’è da stupirsi se quella pagina, la nostra, è confusa al punto da essere pressoché illeggibile, non c’è da meravigliarsi, no.

Postato da: sphera a 12:44 | link | commenti (10)


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