martedì 22 novembre 2011

Novembre 2005

venerdì, 18 novembre 2005

Non si uccidono così anche i cavalli?

Va premesso che io sono miope.
Non lo sono sempre stata, fino ai venticinque anni o giù di lì ci vedevo molto bene. Poi, forse perché il lavoro di allora affaticava molto gli occhi o forse per nessuna specifica ragione mi è calata la vista, molto in fretta.
Erano già dieci anni buoni che prendevo ogni giorno il treno, così è stato facile accorgersi quella volta, di non leggere il tabellone dei binari dall'ingresso della stazione come avevo sempre fatto: dovevo avvicinarmi, avvicinarmi, avvicinarmi. Dopo un giro da oculista e ottico sono tornata a casa con un paio di occhiali, la raccomandazione di usarli 'solo per guardare le cose lontane' e un netto miglioramento esistenziale: vedevo in lontananza e padroneggiavo vasti e ben definiti orizzonti. Per una decina d'anni tutto è andato bene, buona visibilità e visione pacifica e serena ma ad un certo punto le cose son cambiate.
C'è un certo periodo all'inizio, quando metti gli occhiali, che li senti e li vedi, e sai sempre di averli. Però ti piace: fai le prove anche, li tiri su e giù per notare la differenza e ti dici come è più bello con che senza. Va avanti così qualche giorno o settimana, non ricordo bene, poi ti passa. Ti abitui e quella presenza non la percepisci più, impari a render parte di te quell'ingombro, a perderne coscienza, fino a dimenticarti del tutto che ci sia.
Quello che mi è successo invece è che di punto in bianco ho ricominciato a percepirli: li vedevo, li sentivo, me li sentivo addosso e non era un sentire e basta, era un sentire con fastidio. Era sentirsi stretti tra le orecchie, era un peso costante alla radice del naso, in mezzo agli occhi, era un campo visivo che sembrava sempre più insopportabilmente confinato da una montatura. Ho provato a cambiarla con una più leggera, ma i fastidi non son quasi mai questione di milligrammi in più o meno.
Allora ho pensato che non è detto che se uno a un certo punto ha messo gli occhiali debba per forza non toglierli mai più e ho provato. 
Me li sono semplicemente levati, e mai più rimessi.
E devo dire che sono stata benissimo. Devo dire anche che grosso modo in quel periodo mi son trovata a ripercorrere la stessa sequenza, lo stesso iter procedurale, anche in altri rilevanti campi della mia esistenza e con la medesima soddisfazione. 
La strategia semplificatoria del “se hai un problema levatelo di dosso” funziona più spesso di quanto si creda.
Vedo un po' sfumato in lontananza, è vero, ma non lo trovo affatto un problema: diciamo che sulla lunga distanza ho solo un quadro d'insieme ma, forse per compensare, rilevo con attenzione i dettagli più vicini.
Potrei mettere le lenti a contatto, lo so, me lo dicono in continuazione tutti quelli che scoprono che mi mancano un paio di diottrie. Non le metto, però: mi paiono una inutile farraginosa complicazione. Tendo a semplificare e dover armeggiare in continuazione con liquidi speciali e minuscole costose particole che devi metter su e tirar giù e poi dan fastidio e poi però ci si abitua: io alle mie sfumature mi son già bell'e che abituata e non vedo grossi motivi per cambiar sistema. 
Oltretutto il tempo lavora a mio favore: man mano che passano gli anni si tende sempre più alla presbiopia, quindi vado verso un progressivo miglioramento e arriverà un momento in cui ci vedrò perfettamente bene.

La premessa, in ogni caso, era per dire che ieri ho visto un cavallo morto.
Sulla strada per la stazione, in uno spiazzo di terreno derelitto dove vengono alzati tendoni di circhi e improbabili strutture atte ad ospitare eventi, mentre camminavo spedita verso il treno ho visto, con la coda dell'occhio, un cavallo morto sdraiato a terra: un baio adulto, le zampe allungate e la lunga testa reclinata.
Ad un più attento sguardo, favorito da un avvicinamento non senza disagi sul terreno sconnesso di sassi cacche cocci preservativi e carte il cavallo si è rivelato in effetti un mucchio scomposto di terra marroncina.
Ma siccome si vede quello che si pensa di vedere - in ogni caso - io l'immagine precisa di un cavallo sdraiato cadavere ai margini del centro direzionale me la conservo intatta.
E la cosa strana è che non sembrava affatto incongrua.

Postato da: sphera a 10:49 | link | commenti (21)


venerdì, 11 novembre 2005

Uno dei personaggi in cerca di storie.

La signora S.

Come mi vergognavo. In strada le conoscenti, le vicine, ammutolivano con le labbra strette quando passavo, solo un cenno del capo per saluto e poi dietro la schiena sentivo risalire il mormorìo "...una disgrazia così..."
Ma erano davvero pochi gli occhi in cui se appena osavo alzare i miei vedevo un velo di commiserazione: negli altri, girati in fretta altrove, la fredda fiamma di chi disapprova, lo schiaffo della riprovazione.
E dire che non era colpa nostra - anche se mi vergognavo come se lo fosse - o almeno non credo, non lo so. Come si fa a sapere.
Ma è questo che gli ha fatto tanto male a mio marito, il fatto che la gente ci pensasse male, che parlasse male di noi, di lui, della famiglia.
Lui, che per lui non c'era cosa più importante che la rispettabilità, il decoro, l'essere perbene, l'essere normali. Aveva fatto tutto quel che poteva, per essere normale come tutti, il più possibile. Avevamo fatto tanti sforzi, sempre, come si deve fare.
Poi gli capita di essere qualcuno di cui la gente parla, qualcuno che ha qualcosa da nascondere. Non qualcosa da poco, ma suo figlio. Proprio l'unico figlio, quello maschio. Ho sempre avuto questa sensazione che gli sarebbe spiaciuto meno se a capitarle una cosa così fosse stata la figlia, la ragazza. Ma poi magari è solo un'idea mia.
Però credo sia proprio questo che l'ha fatto cambiare, che l'ha incattivito: è sempre stato un uomo duro sì, e severo, ma mai con questa asprezza così amara, mai così come dopo che è successa quella cosa.
All'improvviso proprio a noi è capitata, o forse c'era anche stato un qualche segnale, qualcosa di cui ci si sarebbe dovuti accorgere, un sintomo, un avviso: non so, io non mi accorgo mai in tempo delle cose. So che per quel che mi ricordo è stato proprio da un giorno all'altro che è cambiato.
Eppure da piccino era normale mio figlio, era anche un bel bambino, me lo ricordo bene quando mi abbracciava con quei begli occhioni. Non so cosa gli è successo, ma io non lo so mai cosa succede.
Non so come è successo che quella bambina morbida e graziosa che ero io sia diventata una ragazza così bruttina e insulsa, non so come quella vita che mi vedevo davanti piena di cose belle e di sorrisi poi ne abbia avuti così pochi di sorrisi che me li ricordo appena. Non so neanche com'è stato che nonostante fossi così sgraziata e goffa un fidanzato anch'io l'abbia trovato, e poi un marito.
E non sapevo niente di quello che è successo quella prima notte di nozze, e non l'ho saputo bene neanche dopo. Mi sono abituata: e poi quello che ti deve succedere succede e tu lo accetti, cos'altro devi fare? Non so ancora adesso come li ho messi al mondo questi due figli, so che anche loro sono venuti e me li sono presi, e ho cercato come sempre di fare del mio meglio.
Ho sempre cercato di fare bene ed esser schiva e brava, per quello mi han fatto tanto vergognare le maldicenze della gente, la loro così visibile condanna appena impomatata da una bava unta di pietà, e muta.
L'unica che me ne ha parlato è stata quella donna, quell'immigrata del sud che lava le scale del palazzo: e io mi vergognavo tanto anche di lei, pensa, di una donna di fatica. Ma lei mi ha detto qualcosa che forse era gentile - mi è parso - quella volta nell'androne: "Eh, signò, non state a farvi il sangue amaro, eh, via, che ogni scarrafone è bello a mamma sua!".
(E ancora adesso mi domando come facesse a saperlo, a saper qualcosa lei, una donna a ore, dopo che noi si era a fatto di tutto per passar la disgrazia sotto il più rigido silenzio. Ma lo sapevan tutti, anche senza conoscere niente di preciso: sembra sempre che tutti siano riservati e chiusi, ognuno come si deve dentro i fatti suoi e invece, vedi).
Che non era bello però io lo sapevo bene: ma più che l'aspetto fisico che - è vero, forse aveva ragione la Nunzia - una mamma a quello ci passa sopra senza tanti sforzi, era il suo essere, tutto quanto come era diventato, che mi inorridiva. 
Il fatto che non riuscisse più a parlare, quel senso disgustoso di sporcizia, quegli occhi lustri così difficili da guardare, che non si capiva mai se furenti o disperati.
E quel suo modo di muoversi, quello soprattutto: quegli scatti, quella specie di tremore, quei sussulti. Avere ripugnanza per il proprio figlio è una cosa che non si può perdonare, lo so, so che per questo non avrò mai pace, ma non potevo evitarlo, non potevo.
Qualche volta ho provato - all'inizio, quando ancora facevo finta di pensare che poi sarebbe andato a posto, che poteva anche guarire - ho provato ad aprire la porta della camera dove lo dovevamo tener chiuso (dio mio, pensare se qualcuno lo avesse visto, conciato com'era, dio mio.... già così, senza saper niente di preciso la gente ci voltava le spalle, già così).
Aprivo appena uno spiraglio e pensavo che magari se fossi andata lì a parlargli piano, se l'avessi un pochino accarezzato, come da bambino, se l'avessi magari preso in braccio e gli avessi detto che la sua mamma gli voleva bene forse sarebbe servito, forse almeno un pochino sarebbe andato meglio.
Ma poi lui mi vedeva, bastava che aprissi una fessura e iniziava ad agitarsi, a voler venire verso me, e sembrava mi volesse dir qualcosa ma non ci riusciva, così nello spasimo d'ansia si muoveva sempre più frenetico: e quel suo sguardo oscuro e ignoto, quel vibrare e fremere e contorcersi di sforzo, io non riuscivo a reggerli, non ce la facevo. E chiudevo di colpo la porta e scappavo via, con un singulto acido alla gola.
Non so cosa si doveva fare, non ne ho idea, ho fatto quel che diceva mio marito, di tenerlo chiuso e di non dargli retta, e che soprattutto non si sapesse in giro. Non so mai cosa decidere o pensare io, mi trovo più tranquilla se qualcuno me lo dice: ho sempre fatto così ed è sempre andato tutto bene, prima.
Però forse qualcosa si poteva fare. Magari quella mela si poteva togliere, forse col tempo poteva migliorare. Ma non lo so, io non so mai come succedono le cose. Non so neanche se ti ho voluto mai davvero bene, Gregor, bimbo mio.

Postato da: sphera a 09:05 | link | commenti (11)


giovedì, 10 novembre 2005

Spiovente e fuggitivo
Stamattina c’era una luce sbagliata: una luce da sera.
E anche l’aria fredda in un modo bagnato, come avvolgersi intorno al collo un asciugamano steso tutta la notte fuori, gelato e umido e picchiettato di grigio, che odora di fumo e di fungo.
Per sopravvivere a questo cielo spiovente non mi è rimasto altro da fare che mettere un paio di calze a righe nero turchino lilla e comprare venendo al lavoro una bottiglia di metodo champenois da bere in ufficio in pausa pranzo, cosa che di tanto in tanto si fa, qui, e negli ultimi tempi – sempre più grigi – sempre più spesso.
Però questo sciopero dei giornalisti comincia a piacermi: viaggi in treno coi libri e senza quotidiani, intere giornate di radio senza chiacchere e notizie, solo un profluvio di musica che nemmeno un Ipod. Forse è per questione di risparmiare qualche euro sui diritti, non so, ma non sono mai canzoni recentissime, un revival a tutto campo che stamattina tra una Bertè d’annata e addirittura un Frank Sinatra mi ha fatto riascoltare dopo mille anni una “Stay” di Jackson Browne che mi ha fatto tutta sorridere e subito dopo reso perplessa.
Era stata per un certo periodo, a suo tempo, una delle mie preferite - se non la preferita - e me l’ero totalmente dimenticata: la canzone, il cantante, il concerto visto al Parco delle Basiliche, tutto, dimenticati del tutto.
La perplessità deriva dal fatto che non riesco a decidere se il poter obliare nel modo più assoluto qualcosa che hai molto preferito sia una cosa di cui esser contenti o essere tristi.
Però adesso vado a bere il caffè con la mia collega che ha detto che deve raccontarmi delle ultime vicende col suo amante, quello che due anni fa era il folle unico eterno e graziaddio finalmente caduto dal cielo amore della sua vita e di cui adesso parla come se le stesse un po’ antipatico.
Sai mai che mi dia qualche spunto anche per chiarire la questione di prima.

Postato da: sphera a 10:18 | link | commenti (16)


mercoledì, 02 novembre 2005

Tra le mie non molte qualità mi riconosco quella di essere capace
di "staccare": è bastante una mezza giornata di vacanza perchè io dimentichi del tutto e completamente ogni fastidio, incombenza, guaio o noia relativi alla vita quotidiano-lavorativa.
Figuriamoci quattro giorni.
Fischiettando mi ritrovo dall'altra parte del ponte, tutta salmastra e con la testa piena di acque nuvole e piante, sempre più convinta che poltroncina e scrivania siano un posto dove stare molto sbagliato, per me, e del tutto incidentale.
Per ovviare, almeno parzialmente, a questa strana incogruenza ho qui davanti un mazzo in cui risplendono e profumano rosmarino, corbezzolo, mirto, lentisco, cisto, asparagina, elicriso, nepetella, oleandro, fillirea, rosa canina, biancospino, erica, ginestra e un paio d'altre cosette di cui mi sfugge il nome.
Vi aspergo con questo aroma come fosse un turibolo e vado a inghiottire un pessimo caffè come espiazione per la mia scarsissima volontà lavorativa.
(Qualcuno per caso ha la ricetta per fare il mirto, inteso come liquore?)

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