mercoledì 30 novembre 2011

Giugno 2006

lunedì, 26 giugno 2006

Il posto è a tutti gli effetti un'osteria, e con questo nome è conosciuta da molti, fino a Milano.
Il fatto che si definisca "Enoteca con piccola cucina" penso si riferisca al fatto che la cucina è davvero molto piccola.
Piccola di spazi e di passaggi stretti, e quando nei momenti di battaglia tra chi cucina e chi scodella, tra chi prende piatti pieni, chi riporta buttandoli scrosciando piatti sporchi e chi li sciacqua, a volte sono anche sei persone che corrono e si girano, in quei pochi centimetri tra i banconi e il forno.
E quello che è per me affascinante fino alla commozione è che tutta questa gente che fa molto velocemente tante cose molto in fretta non si urta mai: mentre scivoli ad aprire un frigorifero con la coda dell'occhio cogli e schivi con un guizzo d'anca chi ti passa davanti e si mette in mezzo a riempire un vassoio e con la stessa coda d'occhio cogli il suo simultaneo e simmetrico spostamento di piedi, di spalle, di bacino.
Se si dovessero tracciare con un filo tutti i moti le traslazioni e i movimenti, anche solo di una decina di minuti, ne verrebbe un gomitolo inestricabilmente aggrovigliato: eppure niente collide, in una danza vorticosa e fluida da dervisci, in una ginnastica di forchette, di sughi, di piatti unti e di padelle, coreografia istantanea adrenalinica e sudata.
Perchè in cucina fa caldo, ma davvero molto caldo. Dalla porta sulla saletta - deserta d'estate - non viene un soffio d'aria nonostante sia tenuta spalancata da un anello di cavo elettrico rosso e nero, dalla finestra e dalla porticina aperte sul cortile l'aria entrando si ferma, paralizzata dal vapore e dall'aria densa e spessa di altoforno. Quattro fuochi larghi con potenza da fusione, un forno enorme, due piastre roventi e una griglia incandescente, grandi frigoriferi ronzanti, una lavastoviglie che ogni tre minuti rigurgita vapore aprendosi su piatti bolliti e bollenti e cinque o sei persone che si muovono di fretta producono una quota di calore che riverbera a ondate tremule fino ai primi tavoli, al limitare del cortile.
A me il caldo non ha mai dato fastidio (è il freddo a innervosirmi fino alla rabbia irragionevole), trovo a volte - a volte, solo a volte - antiestetico il sudore, dal quale tutti ci si premunisce con abbigliamento il più possibile succinto, canottiere e braghette e vestitini a sottoveste sotto il grembiulone ma lo stesso, quando passato il furore frenetico delle ore di guerra esci a fumare una sigaretta in piedi appoggiato al tavolo di plastica nel buio, quello di servizio, senti l'aria della sera torrida di giugno come una brezza fresca che ti asciuga.
Il grembiule è sempre un po' grande e lungo per me, mi ci devo avviluppare e resta comunque pendente largo e sghembo e scelgo sempre quello bianco o quello rosso perché sono vestita di nero e il verde scuro mi pare troppo tetro.
Dopo alcune prove mi sono procurata un paio di infradito alte - non con il tacco, per carità, con una specie di zeppetta alta tutta uguale - perché se devi stare sei o sette ore in piedi senza sederti mai le calzature hanno una certa importanza, e se le ragazzette che servono ai tavoli facendo dentro e fuori possono, a quanto pare, usare scarpe da ginnastica io dopo averle provate e avere trovato i piedi a fine sera della consistenza di un tiramisù ho decisamente optato per tenerli all'aria aperta. La zeppa pertanto si rivela essenziale perchè non conviene avere qualcosa di nudo rasoterra in una cucina: non sono pulite, le cucine.
Vengono pulite, certo, ma dura finché arriva il grosso della gente: poi si sgoccia e sbrodola, si versa e si rovescia, c'è acqua di piatti e schizzi di sugo e salsa al pesto e gnocchi spiaccicati e bucce d'aglio e la mezza birra della betty.
Poi quando finisci, quando risuona l'ordine "Fanculo, adesso la cucina chiude, e basta", quando si spegne il fuoco sotto il pentolone dell'acqua della pasta, quando tutti lasciano lì tutto e vanno a bere un bicchiere di vino o una mediachiara, a fumare una sigaretta prima di tornare a pulire tutto e smontare e lavare i fornelloni e le piastre e le griglie, prima che qualcuno debba smaltire la montagna di teglie e piatti e per ultima cosa, la più odiata, alle due di notte pulire il filtro della lavastoviglie, quando finisci e col bicchiere di vino freddo in mano ti siedi finalmente, ed è notte e guardi nel vuoto per un po' di minuti per riprenderti e senti l'adrenalina sgocciolare via assieme al sudore, pensi che la fatica fisica, quella di braccia e gambe, quella di tenere con la testa attenta un ritmo tanto concatenato e rapido da non poter essere cosciente, l'essersi affidati ancora una volta nella bufera all'istinto innato delle dita, alla percezione non ragionata dei pesi e dei volumi e tempi, alla sapienza corporea delle giravolte, è quello che ti fa stare bene.
Sei nata per fare la cuoca e la manovale e l'ostessa, per usare in fretta e forte le mani, col cervello che scintilla di certezze in movimento, bambina mia, tu sulle scrivanie appassisci.

Postato da: sphera a 10:40 | link | commenti (42)

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