sabato 26 novembre 2011

Marzo 2006


giovedì, 16 marzo 2006

Talpe, libri.

Tornando su dalla stazione ieri ho visto nel prato - d'erba ancora tutta floscia e rada e smunta come i capelli di certi signori un po' in là con gli anni che sarebbe meglio li tagliassero bei corti - una tumultuosa serie di mucchietti di terra, freschi, e mi sono venute in mente due cose.

Anzi me ne sono venute in mentre tre, ma la prima è cosa da niente: solo la considerazione che le talpe si mettono in moto ben prima delle rondini, in vista della primavera.
La seconda discende appunto dal pensiero della talpa. Di talpe vere ne ho viste molto poche in vita mia, sono bestiole schive: due per la precisione, e una era morta. Dell'altra mi ricordo soprattutto il raspare sproporzionato delle unghie, troppo possenti e coniche, e la morbidezza commovente del pelo, paragonabile soltanto - tra tutte le cose che abbia mai toccato - a quella della pelliccia di un pipistrellino che ho trovato una volta a scuola svenuto dietro la lavagna e che ho cercato di far rinvenire dandogli carezze.

Però, al di là di queste limitate frequentazioni, la talpa si associa ad un ricordo per me tra i più violenti, che corrisponde a uno dei miei primi ricordi letterari. Molti anni fa tra le prime cose che ho letto c’era una raccolta di racconti di Tombari, tutti che parlavano di animali e che per questo motivo evidentemente furono ritenuti di piacevole lettura per una bambina. Di quei racconti non ricordo quasi niente, se non quello. E non mi ricordo affatto il racconto, la vicenda: conservo solo la descrizione, l'immagine della talpa a cui viene spaccato il cranio con un colpo di vanga.
Ho letto tante cose, da allora: storie di guerre e violenze efferate, di mutilazioni e morti, storie di aborti e di delitti, torbidi thriller grondanti sangue e viscere, moltitudini di omicidi più o meno perversi, minuziose descrizioni di ogni genere di ferite e di interiora. Eppure quello è stato uno dei pochissimi libri - e il primo - che ho chiuso non perché non mi piacesse ma perché c'era qualcosa, dentro, che non mi riusciva di poter sopportare.

Non era una questione d'età credo, e di conseguente impressionabilità: più o meno nello stesso periodo andavo con regolarità a prendere nella libreria - mentre la mamma era a far la spesa - i libri che mi era stato detto di non leggere perché "non adatti ai bambini" e nessuno mi ha mai impressionato. Colpit, sì, a volte stupito e non di rado spaventato a morte, spesso non sapevo nemmeno tutte le parole, spessissimo non ho capito affatto di cosa diavolo si stesse parlando fino a molti, molti anni dopo, ma quello è stato il primo che ho chiuso pensando "è troppo brutto per poterlo leggere".
Dove per brutto si intende esattamente quello che con questa parola intendono i bambini: non un valore estetico, tanto che l'essere sgraziati, deformi, goffi o incompiuti per loro sconfina facilmente nel buffo e nel ridicolo. Il brutto davvero per un bambino non è mai qualcosa che non è bello da vedere, ma qualche cosa che non si può guardare.

E questa precisamente è la cosa che mi è venuta in mente: che si parla frequentemente - si parla sempre - dei libri che abbiamo apprezzato e mai di quelli che abbiamo rifiutato.
Intendiamoci, non di quelli sui quali esprimiamo un giudizio negativo esercitando un abbozzo di critica pseudo letteraria  - che spesso è un modo circonvoluto di dire "non mi è piaciuto" - non quelli: di quelli ne parliamo eccome e soprattutto quelli li abbiamo letti. Così come abbiamo letto almeno qualche pagina di quelli che poi abbiamo chiuso perché ritenevamo noiosi o scritti male: nemmeno di quelli mi interessa. E neanche di quelli che non abbiamo letto affatto, rifiutati per stizza o pregiudizio, perché troppo osannati o perché sapevamo per certo che erano porcherie.
No, a me interesserebbe parlare di quei libri belli, ma che non siamo stati capaci di leggere perché erano troppo brutti.
Come quello lì, quello della talpa. Perché io so che Tombari era anche bravo: ma io quel libro l'ho chiuso. Come ho chiuso - per lo stesso rifiuto incoercibile, la stessa incapacità di sostenerlo, la stessa ripulsa - non molto tempo dopo Pel di Carota: altro romanzo innocuo da ragazzini di cui ancora adesso non so spiegare l'angoscia insopportabile che mi ha trasmesso.
Ho pianto per ore singhiozzando perdutamente con la testa tra le braccia, sul letto, per alcuni dei racconti mensili di Cuore, per qualche passo di Senza Famiglia e alcune altre lacrimevoli vicende strappacuore, ma me le son lette tutte, sorbendo l'amaro e delizioso calice fino all'ultima goccia.
È questo che mi piacerebbe sapere: quali sono, e perché, le cose che ti fanno disperare ma ti piacciono e quali quelle per cui non versi una lacrima ma non riesci a sopportare. 
Dov'è il confine, dove si ribalta la bilancia tra quello che sai - che vedi - che forse è anche bello ma che con tutta la testa e la pelle e lo stomaco rifiuti e quello che sai che è oggettivamente brutto, a volte orrendo, ma che sei capace senza problemi di guardare fino in fondo.
Parlando solo di libri, tanto per cominciare.

(L'altra cosa che mi era venuta in mente è meglio se la dico un'altra volta, mi sa.)

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martedì, 14 marzo 2006

Ci perdiamo lo stesso, ma ostinatamente continueremo a fare carte e mappe.
La mia, qui.
Tutte le altre, qui http://www.sacripante.it/007/

Ti ho fatto una mappa, vedi. L'ho fatta così mi puoi trovare, che questo mondo è così pieno di strade e non voglio che ti perdi, voglio che tu mi trovi.
Non sono tanto brava a disegnare, però mi è venuta bene: ci ho messo tutto, e ci ho messo tanto a farla.
In alto, lì, quella punta è la montagna, quella da dove arrivo. Non ho mai avuto tempo di raccontartelo bene da dove vengo, poi magari non ti importa nemmeno tanto, ma io l'ho messo sulla mappa, lo stesso.
L'ho fatta a punta perché non so che forma ha davvero, e perché era una montagna appuntita, di rocce e boschi freddi all'ombra, e quella lì è la mia casa. Non si vede granché, non me la ricordo bene, forse era anche quella in ombra, nel buco più scuro che fa il sole quando va dietro all'altra montagna grande. E quella che viene giù tutta storta così è la strada, piena di tornanti: in cima dove c'è quel punto si prendeva la corriera, all'angolo del bar, non lo so disegnare il bar.
È così la strada, che in corriera chi non era abituato gli veniva da star male, tutta a curve come un serpente, vedi. Come quella biscia che me lo ricordo ancora, che l'ho vista una mattina attraversare il sentiero e la Angiolina che saltava e strillava "La serp, la serp!" ma io invece ero lì ferma a guardarlo quel serpente grande, nero quasi verde che si muoveva come una esse, come un'onda nella polvere, e l'ho detto "Ma va, non è una vippera, mica morde, non fa spavento." Le vippere sono più piccole e cattive e fanno male. Quello era un serpe lungo e scuro che si muoveva come se il mondo fosse suo, e me lo sono ricordato quando il parroco a dottrina parlava di adamoedeva e della tentazione, l'ho pensato proprio così quel serpente, con la testa dritta.
E non ridere, che lo so che forse ti sembrano un po' ingenue queste mie storie di bambina, ma tu sei il mio amore e devi sapere tutto di me, per questo te le disegno sulla carta e le racconto.
Disegno la scuola elementare a metà discesa, un quadratino giallo, che lì mi pare che si vedeva il sole a volte. E poi la scuola media un po' più in basso nella valle, un rettangolo più grande, ma l'ho un po' sfumato col dito perché di quella mi ricordo poco, e chissà come ti sarei sembrata buffa se mi avessi visto allora, così piena d'ombra con un serpente d'oro a cui non smettevo di pensare.
Quella riga incerta è quella che porta alle professionali, piene di brutti voti e baci strani e cose a cui non ho voglia adesso di darti dei nomi, e poi diventa una riga fatta a biro che gira, infinite volte e spessa, intorno alla ditta. Non c'è niente da disegnare su quel posto: è un posto dove si lavora, e basta.
Ma lì dove vedi la carta stropicciata, e tutto quel calcare e cancellare e ridisegnare ancora, lì è dove sei venuto tu: quei segnetti sono i raggi, le vampe di luce e buio della discoteca e non posso disegnare il fuori, non posso mettere su questa cartina il punto in cui sei arrivato, non saprei mai come fartelo vedere, come farti vedere com'è stato bello e brutto.
È passato del tempo, lo sappiamo io e te, e non sono andata a scuola abbastanza per saper fare i contorni della paura e la vergogna - non di te, che di te non mi sono mai vergognata, amore - ma delle cose che dicono le persone, delle ragazze facili che fanno le operaie e poi si fan scopare la sera nei parcheggi.
Ma queste sono cose brutte, su questa mappa non le metto. Le ho scritte e cancellate con la gomma e la saliva, tanto forte che in quel punto, mi dispiace, ho fatto un buco.
Poi sono andata avanti, con tutti i dettagli ho disegnato da dove vengo e dove sono adesso: perché ti aspetto, perché non ho smesso mai di aspettarti, amore mio. E non ho smesso di pensare il tuo sorriso, che ci ho pensato così tante volte che lo so a memoria, come se lo vedessi, adesso. Ho provato a disegnarlo, in mezzo in alto, ma non mi viene mai abbastanza bello, quindi niente.
In basso, quasi sull'orlo, c'è un cerchio. L'ho fatto perfetto così, al primo colpo, io che proprio non disegno bene.
Intorno a quel punto c'è un contorno: lo vedi, vero, inciso forte con l'unghia, un solco. Perché è così che ci ripenso sempre a quel momento, con il dover ficcare le unghie dentro qualcosa, a fondo, e con un gemito tenuto dietro ai denti, che se avessi allargato il fiato tanto da farlo uscire mi avrebbe squartata, sai.
E dopo c'è tutto quello spazio, che è deserto ma che ho riempito di puntini. Per non lasciarlo vuoto, e perché poi ogni puntino è un giorno, piccolo nero senza dimensione e stretto, e sarebbero molti più di così ma non ha senso disegnarli, tanto hai capito, sei l'unico che mi capisce sempre, tu.
Da lì, guarda, prende forma questa traccia, che è quando mi è passata la tristezza perché ho pensato che potevo fare una mappa e allora mi avresti ritrovato.
Da lì parte il tratteggio, sottile di matita, però dritto. Dritto come la strada che ti riporterà da me, perché io la mappa l'ho portata, in una notte verso l'alba fredda e scricchiolante come quella, nello stesso posto, nel posto esatto dove ti ho lasciato.
Tu sai dov'è e la troverai: l'ho messa lì, nel cassonetto, amore mio.

Postato da: sphera a 11:01 | link | commenti (6)


mercoledì, 08 marzo 2006

Non è vero che non esistano i presagi. Io nella mia ferma e solida razionalità ne faccio collezione. Certo non li cerco, mi capitano addosso. E il fatto che non li sappia affatto interpretare non li fa per questo cessare di essere segni inconfondibili di qualcosa di molto preciso che solo il mio attuale infimo stadio evolutivo mi impedisce di leggere con cristallina e geometrica chiarezza.

Giorni fa, una mattina, in una nube di nebbia piovosa c'era un uomo che faceva accurati esercizi ginnici nei pressi della panca di cemento in quell'aiuola a lato dell'incrocio. La valigetta posata a terra, da lontano lo intravedevo fare flessioni, quando mi sono avvicinata era passato ai piegamenti. Ben vestito e ben rasato, forse solo con i capelli un po' lunghetti dietro il collo, si piegava fino a toccare con le mani terra, le gambe ben dritte, una striscia di pelle nuda che nel movimento gli si scopriva su dalla cintura. La tondeggiante seppure non eccessiva linea delle cosiddette maniglie dell'amore avrebbe potuto spiegare la necessità di un po' di esercizio, ma l'impellenza di doverlo fare - senza fretta e con seria concentrazione - in uno zuppo opaco albeggiare ai margini del traffico mi ha lasciato uno strascico di pensieri perplessi nel gelo del mattino.

Mentre proseguivo la mia strada riflettendo sulla questione per terra ho trovato il muschio.
Metri interi di marciapiede ne erano costellati. Non ciuffetti o chiazze cresciuti in loco: con ogni evidenza pezzi staccatisi da qualche parte e caduti lì, alcuni per il dritto a mostrare un verde fitto tappetino, altri - pochi - per il rovescio, l'intreccio stretto di terra e radici tutto esposto e umido.
Ho alzato gli occhi per vedere un terrazzo, uno spiovente, una gronda da cui potessero essere arrivati: ho visto solo facciate dritte lisce e deserte di palazzi, cementi e vetri senza una sporgenza. Considerando che le zolle muschiose erano sparpagliate anche ben lontano dalla verticale del sottilissimo cornicione lassù in cima, peraltro all'apparenza immacolato e sterile, ho dovuto risolvermi a ipotizzare che dal cielo di tanto in tanto cada muschio.

Stavo pensando che mi sarebbe piaciuto essere lì quando cadeva con piccoli tonfi verdi sull'asfalto, quando mi ha sorpassato d'impeto, uscendo dall'ufficio postale, un uomo che senza interrompere il suo slancio si è voltato e mi ha detto, con un sorriso largo come il sole: Ha visto, signorina, ha visto com'è bella la vita quando si è liberi! Finalmente, bella signora, lo sa, ha visto, com'è bello!
E se n'è andato con un passo da uomo libero, sì, che anche non l'avesse detto si sarebbe capito: si vedeva che sorrideva anche guardandolo di schiena.

Voi non so come interpretate i presagi, ma io sono stata ragionevolmente sicura che sarebbero successe diverse cose, molte delle quali belle.

Postato da: sphera a 11:45 | link | commenti (14)


venerdì, 03 marzo 2006

Primavera

Silvina tornò a casa verso le quattro e mezza e chiuse la porta, con tre giri e la catenella.
Attraversò senza accendere la luce il corridoio e andò a riporre per bene nell'armadio il cappotto nero, quello bello. Poi mise le pantofole e andò in cucina e lì si rese conto che non aveva più niente da fare.
La casa era a posto, sapeva di brodo, di caffè e di Pronto, pulita come un confetto: per far fronte come si deve a tutto l'andirivieni di persone per giorni si era alzata alle cinque del mattino. Perfino i centrini aveva lavato e inamidato, rigidi come tortine di zucchero sotto le biscottiere, le foto e i fiori secchi. 
In piedi tra il tavolo e l'acquaio si accorse che per la prima volta da quando arrivavano i ricordi non c'era nessuno per cui cucinare.
Ogni giorno l'orologio era stato diviso sempre in tante piccole giornate, ognuna da portare a compimento, la colazione, il pranzo, la cena. E quando c'erano stati i bambini una in più, anche la merenda.
Con le molte altre faccende che c'erano da fare in mezzo, certo, ma ognuno di quei tragitti giornalieri aveva la sua meta, il suo orario di cose da portare in tavola. Mondare il prezzemolo, sgranare i piselli: i primi servizi resi, nella sua memoria, al bisogno di arrivare caldi e giusti alla scadenza. Non dopo, bimba, adesso: che i piselli alla mamma servono subito, che è già ora di metter su la minestra.
La giornata era facile, divisa in pezzi così, come un tocco di burro. Tante cose da fare prima di pranzo e cena, che le ore vanno e non si deve sbagliare ad esser pronti per quelle impazienze brusche, per quella fame che si aspetta il piatto.
Aveva pur mangiato anche lei, e le era piaciuto. Ma non per quello era da fare: lei si era nutrita come nutriva il gatto, gli altri li aveva messi a tavola.
In tutta la vita aveva avuto da pensarci, cosa e come e quanto e per chi: i vecchi inappetenti e gli adolescenti ingordi, le golose zie tiranniche e i bebè per cui frullare, i bambini da far crescere e
gli anziani ipertesi, e un uomo che non lasciava sfuggire mai nessun errore, nessuna presa di sale mal dosata.
Così nel silenzio riflesso dal laminato e dal lavello, guardando l'asciugapiatti coi disegni di mulini appeso al suo gancino, alla ventosa, al muro, pensò che non aveva più nessuno per cui far da mangiare.
Quello che da quel giorno in poi sarebbe stato per lei e tutti i conoscenti il suo povero marito non avrebbe più dovuto avere una tovaglia, un tovagliolo, un posapentola appoggiato in fretta per non togliere la vista del televisore.
Silvina stava in piedi pensando che mangiare per forza alle otto non vuol dire niente, forse.
Mandò via l’idea, sbalordita non tanto della sua stranezza quanto del fatto che fosse così proprio possibile di mangiare un pezzo di fontina davanti al frigorifero e poi magari andare a letto, di pomeriggio, a leggere del matrimonio di quell'attrice e poi dormire.
Si passò le mani sulla gonna e guardò dalla finestra che c'era ancora luce ed erano già le cinque, si stavano allungando eccome, le giornate. Se sapevo – pensò -  se sapevo che aver morto il marito voleva dire fare quello che si vuole io gli volevo bene, era un brav'uomo, ma io lo avvelenavo tanti anni prima.


Postato da: sphera a 09:36 | link | commenti (12)

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