lunedì 2 gennaio 2012

Aprile 2011

sabato, 23 aprile 2011

Allora, facciamo qualcosa di creativo. Per esempio diventiamo apolidi.
Ci sto pensando da un po'. Lasciando un momento da parte quello che è il "sentirsi italiani" come appartenenza a un certo retroterra storico e culturale, mi chiedo: ha senso oggi avere una nazionalità, una cittadinanza che ci dichiara appartenenti ad uno specifico Stato? E se sì, che senso ha?
Se vado a stare in Lapponia o nel Madagascar mi farò là un permesso di lavoro, lavorerò pagando le relative tasse e imposte dirette e indirette, imparerò lingua e modalità di comportamento, rispetterò leggi e consuetudini, usufruirò dei tram e del Pronto Soccorso. Esattamente come fa un lappone o un malgascio che viene a stare qui per un certo tempo.
E quindi, dove sta precisamente il senso di aver scritto da qualche parte che sono lappone o malgascio o italiano?
Non è una domanda retorica, me lo chiedo seriamente.

Certo, nel mio essere, nel brodo di storia, tradizioni e cultura in cui galleggia il mio modo di vedere il mondo, ci sono Dante e Petrarca e Italo Calvino, ci sono Piero della Francesca e Botticelli, e Giulio Cesare e Raffaella Carrà.
Ma certo ci sono anche Tolstoi e Keruac, e Cervantes e Flaubert e Queneau. E Mozart e i Pink Floyd, e Dennis Hopper e Van Gogh.
E più Garcia Marquez che Pascoli, più Kafka che Carducci, più Tom Waits che Nicola Arigliano. E ognuno potrebbe proseguire per ore.

E quindi? In base a cosa di preciso ci si attribuisce una nazionalità? E a cosa di preciso ci serve? Se qualcuno ne ha un'idea chiara e convinta sarei molto contenta me ne facesse partecipe: io non lo so davvero.
La nascita non c'entra niente: un signore nato in Argentina e che ci vive da sempre risulta italiano, anche se nel paese dei suoi non ha la minima intenzione di tornare e il Molise non sa nemmeno bene dov'è, mentre un giovanotto nato in Italia, che ci ha fatto l'asilo e le elementari, che va all'oratorio e gioca da sempre nella Roccellese, che parla un perfetto bergamasco e sta per sposarsi con la sua tipa del liceo, una di Baranzate, risulta straniero: paga la tassa sull'immondizia ma non vota nemmeno per il Sindaco.
Ma supponiamo che a uno non interessi votare. Supponiamo che non gliene importi niente di essere definito con una precisa nazionalità. Supponiamo che nessuna nazione gli piaccia più di un altra, che non ce ne sia nessuna che più di un'altra senta corrispondere al suo più intimo sentire, perché non può chiamarsi fuori?

Già, perché si può divorziare da un coniuge, si può disconoscere un figlio, si può rinunciare al sacerdozio o all'abito monastico, si può perfino rinnegare una religione o un credo.
Ma pare non si possa rinunciare a una cittadinanza.
Magari non avrò cercato bene, ma ho frugato e frugato in giro: da quanto ho visto non risulta affatto facile diventare apolidi. Anzi, sembra quasi che non ci sia affatto modo di diventarlo volontariamente.
Si trovano lunghe e in alcuni casi molto tecniche spiegazioni sul come fare ad acquisire una cittadinanza, sul come uscire dalla condizione di apolide. Ma non ne ho trovata alcuna sul come si faccia ad acquisirla per libera scelta, quella condizione.
Perché? Per quale motivo la cittadinanza deve essere un obbligo? E non è una forma insopportabile di coercizione della libertà di un individuo obbligarlo ad essere per forza cittadino di una nazione o di un'altra?

A me essere apolide piacerebbe, per esempio. Se qualcuno sa come si fa me lo dica, per favore, ci tengo. Magari ci va di diventare apolidi in tanti, chissà.


Allego, così per gradire, questo pezzo che Ralph Linton, usava come introduzione al suo corso di antropologia culturale.




Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell'India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente domesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell'Est. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egizi.
Tornato in camera da letto,  prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell'Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell'Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell' antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civilta' classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del XVII secolo. [...]
Andando a far colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un'antica invenzione della Lidia. Al ristorante  il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell'India del Sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell'originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l'idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti secondo una tecnica scandinava con il frumento, originario dell'Asia minore. [...]
Quando il nostro amico ha finito di mangiare si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un'abitudine degli indiani d'America, consumando la pianta addomesticata in Brasile. Fuma la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille attraverso la Spagna. Gli portano il conto, scritto con cifre inventate in Arabia, e mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina  secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all'estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano.


A piacere, sostituire americano con padano o altro, a scelta.

Postato da: sphera a 18:02 | link | commenti (3)
 

domenica, 17 aprile 2011


Quando si è immaginato il Panopticon il buon Jeremy Bentham l'ha immaginato come un carcere, anzi come l'ipotesi di carcere perfetto.
Una possibile visibilità assoluta per lui - e con tutta probabilità per tutti gli uomini del suo tempo - non poteva che essere associata ad una condizione punitiva, ad una reclusione, alla massima limitazione concepibile della libertà personale.
L'essere visti in qualunque momento e peggio ancora, forse, il non sapere mai con certezza in quale momento e da chi si è osservati gli pareva ovvio fosse lo stato di un coartato, di un prigioniero.
Chissà cosa pensa adesso, guardando noi affannarci per ottenere più visibilità, e ancora, ancora di più. Per condividere, come si dice ora, quanti più momenti nostri e stati d'animo, e immagini, e pezzi di vita possibile.
Io mentre bacio il fidanzatino, tu mentre ti tagli le unghie, lui che canta strillando stonato, la famosa struccata durante una crisi di pianto e  la nonna il giorno del suo compleanno, Ali e Giuli abbracciate nella sbronza di sabato scorso, e la prima cacca nel vasino del nostro Kevinino (come si faranno in italiano i diminutivi affettuosi per bambinetti con idioti nomi stranieri?)
E ogni volta che guardi una mail o una foto, che ascolti una canzone, che scrivi una frase, qualcuno ti chiede garrulo 'vuoi condividere questa bella cosina?': ma certo, ma subito, la facebucco, la tuitto, la coso, non vedo l'ora che tutti sappiano che mi piace la foto del gattino che dorme, che mi piace la battuta che ha fatto Giancarlo.
E google earth, e street view e earth cam, e ogni volta che cammini per strada e ti scaccoli pensoso, ogni volta che tagli il prato in costume, ogni volta che ti affacci alla finestra tutto spettinato pieno di cispe, ogni volta che fai fare al cane la pupù sul marciapiede, qualcuno ti guarda. Forse. Probabilmente. Chissà dove, chissà chi. Che bello.
Jeremy pensava che l'essere costantemente osservati avrebbe fatto in modo che i prigionieri non potessero che comportarsi bene. Anche il grande fratello la pensava così.
Resta da capire dove sbagliassero.
E come mai noi, prigionieri volontari e festosi, continuiamo a comportarci così male. E facciamo anche ciao con la mano.

Postato da: sphera a 13:16 | link | commenti (7)






sabato, 09 aprile 2011

Questi - diciamo - tre anni sono stati come essere proiettati a incontrollabile velocità a bordo di un mezzo di cui non si conosce affatto il sistema di pilotaggio, in direzione di una meta solo approssimativamente nota posta a distanza sconosciuta, senza avere la minima idea se la strada sia quella giusta. Bendati.

Adesso però faccio una pausa. Fermo il mezzo (ci sarà pure un modo), mi ripettino i capelli che il vento mi ha ingarbugliato negli occhi e nei pensieri, accendo una sigaretta e sto seduta un po'.

C'è sicuramente un plaid nel bagagliaio, ci dovrà ben essere da qualche parte un bagagliaio.

Un pic nic, sul margine dello stradone.

Postato da: sphera a 14:56 | link | commenti (10)

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