Le gite in montagna dello zio Cino erano sempre in salita.
Non nel senso ovvio che le montagne sono alte per cui per arrivare in cima bisogna salire, nel senso che le escursioni organizzate da lui erano tutte e soltanto in salita.
Con lui la gita aveva sempre lo stesso svolgimento: quattro o cinque ore di avvicinamento in forte pendenza, un paio d'ore di falsopiano in salita, poi inizia l'ascesa vera e propria, durissima e quasi verticale. Arrivati in vetta, altre tre o quattro ore di contropendenza a salire, poi un ultimo faticoso strappetto, e lì in cima al pendìo c'è la macchina.
Nessuno ha mai capito come facesse ma era molto bello andare in montagna con lui e quindi si continuava a farlo, anche se per interi anni nessuno ha mai tolto le pelli di foca da sotto gli sci.
Resta il fatto che in fin dei conti aveva ragione: è tutta salita.
Quelli che dicono guarda adesso si fa quest'ultimo sforzo, questa tirata, poi è tutta discesa, ti imbrogliano. O quantomeno non sanno la strada.
È tutta salita. Ma è vero che si arriva in vetta, intanto, e che a metà strada si slacciano gli scarponi e si mangia guardando le nuvole.
E in cima c'è poi pur sempre la macchina. Per tornare su, verso casa.
A metà mattina ho levato i calzoni di lino bianco leggero e i sandaletti col tacco coi quali avevo firmato contratti e discusso condizioni bancarie e rivestita di maglietta da muratore ho recuperato alla stazione Patricia - gentile peruviana un po' appesantita ma di lunga tenuta, assoldata per la bisogna - e ho passato con lei sette ore filate senza pause né pranzi o merende, con guanti al gomito e detersivi da viaggio psichedelico a fare pulizie di grosso, di quelle dove si strofina, forte. E non siamo nemmeno a metà.
Per il resto, andrò a letto presto. Che c'è molta salita da fare e la vedo già da qui, mentre bevo il bicchiere di vino che saluta il tramonto, e i gelsomini e le zucche sono contenti e innaffiati, la vedo da qui, tutta a tornanti. Che bello.
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