lunedì 19 dicembre 2011

Luglio 2007

sabato, 14 luglio 2007

Se questi sono tra i giorni più lunghi dell'anno, e le notti più brevi, come sono le sere?
Sono più lunghe quando più lungo è il giorno, o lo sono quando è più lunga la notte?
A questo pensavo seduta sul davanzale, così mi è venuto in mente che non sapevo affatto cosa fosse, la sera.
Il giorno e la notte li abbiamo ben definiti col sorgere e calare del sole, e va bene. Le mattine sono abbastanza facili, anche: dall'alba fino all'ora di pranzo, mezzogiorno, diciamo.
Ma la sera un po' sfugge: non puoi dire che inizi al tramonto, perché chi ti fissa un appuntamento alle quattro e mezza in dicembre non dice stasera. E chi ti invita a cena di giugno non dice vieni oggi pomeriggio verso le nove. Non puoi dire che inizi all'ora di cena, perché tutti diciamo ci vediamo stasera per l'aperitivo e l'aperitivo è prima di cena, si sa.
E più difficile ancora è definire quando finisce la sera e inizia la notte. C. che lavora al banco ti dice che "abbiamo chiuso un po' tardi ieri sera, fino alle tre non c'è stato verso", mentre la signora G. è ancora tutta agitata perché ha sentito un rumore nel cuor della notte, saran state le undici, undici e un quarto.
Potrebbe finire a mezzanotte la sera e lì iniziare la notte, potrebbe, ma allora sarebbe una parola molto sbagliata, perché com'è possibile che lo stesso termine indichi di una cosa sia l'inizio che il mezzo?
Potrebbe finire la sera quando vai a dormire, o quando sarebbe stata ora di andare a dormire anche se non ci sei andato, o quando sarebbe stato meglio, molto meglio se ci fossi andato?
Forse dipende dalle stagioni, dalle latitudini e dalle lingue. E gli eschimesi che hanno una sola notte e un giornone solo, avranno sere lunghe tre mesi? E quando dicono stasera intenderanno tra tre ore o tra tre settimane, o sul volgere della stagione?

Perché le stagioni anche, le abbiamo inventate: c'è un punto in cui il sole sta lì e uno dove sta là e segnano il giorno più lungo e il più corto, e va bene. E fan due stagioni. Trovare il punto mediano, dove sono uguali, è fin troppo facile. Ma perché, per esempio, fermarsi lì? Perché non dividerle ancora a metà, otto stagioni, o sedici, o trentadue? Chi l'ha detto che funzionerebbe meno bene?
E chi mai racconta a qualcuno di giugno parlandone come della scorsa primavera? Giugno è estate per tutti anche se lo è per ben pochi giorni, e settembre è per tutti un po' autunno, anche se manca un mese.
Facciamo finta di avere un calendario, ma poi ne usiamo un altro.
Facciamo finta di avere gli stessi giorni, ma ognuno ha i suoi.
S. che ha l'edicola sulla salita da anni organizza una merenda tra le cinque e le sei del mattino, con caffè e vino - e pastasciutta, alle volte.
E ci si ritrova chi consegna i giornali e chi trasporta il latte o i rifiuti, chi si avvia al primo turno, chi è appena uscito dall'ultimo, chi vuol trovar libera la tangenziale per arrivare per tempo in ufficio e chi si fuma l'ultima sigaretta dopo essere andato a ballare.
E per ognuno è un tempo diverso: per qualcuno mattina presto, per chi si è alzato alle tre è già quasi metà giornata - una pastasciuttina ci sta - per chi torna assonnato è sera, ancora, anche se in fondo al cielo è già chiaro.

Così quando, morto di sonno che hai fatto tardi la sera, vai verso il letto e incroci chi sa di mattino e caffè e dentifricio, lì, su quel marciapiede, lì passa la linea del cambio di data: lì scatta un giorno, nello spazio tra i vostri passi e i vostri opposti sbadigli.
Abbiamo ognuno i suoi giorni, come la Domenica che da bambina per badare alle bestie si svegliava un po' presto, ti dice: sì, verso l'una. Come quando ci vediamo per far colazione verso le sette di sera, come quando dici buonanotte e c'è piena luce, di fuori.
Ci sono cose che si sanno sui ritmi circadiani e i bioritmi, e mi sembra di vederli disegnati, quelli di tutti noi tracciati in grafici e curve, in un groviglio di arabeschi. E vedo quelli fatti di onde e picchi, quelli regolari e ritmici come traversine sui binari e quelli come vortici d'acqua nel gorgo del lavandino. Vedo il suo, ondulato e ritmico come il cantare ossessivo della tortora sul tetto, e il suo regolare e puntuto come le maglie sui ferri da calza, e il suo circolare senza sosta come una spirale senza capo.
E il suo come un torrente di cascate e pozze, imprendibile che sembra immoto e smuove, fondo e vorticante di rapide e gorghi, e lagune dove non tocchi.

Il mio è una bava di lumaca che traccia lunghi ghirigori sull'acciaio dolce e crudo del tetto del vagone, mentre il treno corre velocissimo e sferraglia e sbanda in curva e le scompiglia tutti i capellini, proprio ora che aveva fatto una così bella scia, tutta lucida e ondulata.
Schhhh, è quasi notte, è già mattino.




Perché dai, è un po' colpa nostra se si sono aggrovigliati tutti i calendari, se si sono confuse le stagioni. È colpa nostra che abbiamo fatto pasticci con il tempo, con gli orari, con il caldo e il freddo, con le feste comandate. Colpa nostra che lavoriamo di domenica, e di sabato anche. E poi dormiamo di lunedì o di venerdì mattina fino a mezzogiorno. Colpa nostra che il Capodanno lo festeggiamo anche due volte, e non importa quando. Colpa nostra che si finisce di lavorare alle tre e poi si fanno quattro chiacchere e si va a letto coi rumori dell'alba, ma solo per un paio d'ore. Colpa nostra che facciamo i turni e vediamo la moglie ogni tre settimane e mettiamo i cartoni sui vetri della macchina perchè di notte è gelata la brina quando esci, a volte. Colpa nostra, di noi dei camion che scrosciamo tutta la notte dentro i sonni degli impiegati. Colpa di noi signore che si cena alle sei e poi andiamo a far le notti, e colpa dei nostri vecchietti implumi che di notte hanno da raccontare vite intere e sono molto lunghe. Colpa nostra che ci mettiamo una tuta bianca e lavoriamo tutto l'anno a venti gradi con la luce sempre accesa. Che torniamo e guardiamo i cartoni animati prima di andare a dormire mentre giù sulla strada si incamminano i pendolari verso la stazione. Colpa nostra, che abbiamo guardato girare le orbite delle costellazioni e poi siamo andati a bere un caffè, corretto. Nostra, che sui pescherecci facciamo oscillare luci gialle mentre fumando aspettiamo che si svegli il mare. Colpa nostra che chiudiamo il locale col colpo netto di metallo di serranda che sveglia il bar della stazione, squaderna il pacco di giornali buttato all'edicola, rimbomba lo sbadiglio di noi panettieri, caldo di farina. Colpa nostra che guardiamo i film della notte fino alle sei del mattino, colpa nostra che ti chiediamo l'ultima birretta, colpa nostra che lo scuolabus passa quando è ancora buio. Colpa nostra che abbiamo guardato negli occhi tante albe e ne abbiamo visto i sorrisi di luna dai parapetti di una nave, nostra che tanti tramonti li abbiamo mancati nei sotterranei di una metropolitana.
Colpa solo nostra, che abbiamo trovato un piovoso pomeriggio d'autunno in una mattina di luglio, e abbiamo messo al fresco le birre nella neve per berle domani sui sassi della spiaggia sotto il sole. Un sole alto e tondo, pieno di pianeti intorno. 
Colpa nostra, che ci piacciono troppo lo zenith e il nadir e li vogliamo tutti e due, adesso, sempre, insieme.


Postato da: sphera a 23:21 | link | commenti (4)


giovedì, 12 luglio 2007

Ciao, e grazie. Grazie del Cocuzzolo dei Pini e di avermi insegnato a sciare, anche se non ho mai imparato. E ad arrampicarmi con tre appigli e scendere in corda doppia, anche se mi ha sempre spaventato un po'. Di avermi insegnato a guadare saltando sui sassi e grazie per il Ticino e la canoa. E per le barchette e il Bundi che le noleggiava e le traversate del lago. Grazie per aver giocato tanto, sempre, e averci fatto giocare così bene e per quel gioco bellissimo che ci legavi tutti e dovevamo sciogliere i nodi e imparare a liberarci. Grazie per il Pian del Tivano e per quel giorno in cui abbiamo fatto la traversata del Palanzone, fuori dai sentieri e tra le cavallette e siamo riusciti a scendere fino a valle sudati e stremati e avevamo otto anni e grazie per l'aranciata che abbiamo bevuto poi, finalmente. Grazie per le rane e Moncucco e per i gavettoni sul terrazzo dei nonni che non l'avrebbero permesso a nessun altro che a te, e per la Marinelli e il Bignami e la Gianetti e la Pialleral e la Mambretti e tutti i rifugi e i bivacchi dove ci hai portato e qualche volta trascinato, che siamo stanchi ed è salita, si sale tanto per essere felici. Grazie per il pellegrin che vien da roma e il cacciator del bosco e tutte le altre canzoni. Grazie per il ghiacciaio e il crepaccio da saltare e perché non si deve aver paura, ma stare un po' attenti. Grazie per i cimenti nella neve e per la bicicletta e per le tende nel vuoto stellato dei duemila metri delle Prede Rosse, col frastuono del torrente e quell'indovinello geometrico che abbiamo cercato di risolvere tutto il giorno disegnandolo su tutte le rocce coi legnetti carbonizzati dal fuoco. Grazie per i premi nobel che mettevi in palio per noi cinque, che non ci siamo mai accorti di chi ti era figlio e chi nipote, e quello delle tre scimmiette, il più difficile, è rimasto irrisolto e non l'hai poi assegnato, perché le cose si fanno bene o non si fanno. Grazie per le fiumare del Gargano dove eri riuscito a portare tutti, anche i quattro nonni e nonne, sotto il sole che annichiliva a spaccare le bocce vulcaniche per cercare i quarzi. Non li abbiamo mica trovati, ma ne abbiamo in cantina ancora un paio di quintali, di quei lapilli sferici: i cristalli ci sono di certo in qualcuno, basta cercarli. Grazie per l'orto, e per avermi insegnato che gli asparagi sono i più difficili. Grazie per aver fatto il sindacalista e il pittore, e averci insegnato la lotta di classe e Chagall. E per averci insegnato senza mai dirlo che essere felici è fare cose felici, e le cose felici sono piccole e facili e gratuite e sono lì, basta prenderle. Con buona grazia e un sorriso, e cura. Tanta cura, per le persone, e gli amici e il mondo. Se si può pensare a un secondo papà quello sei tu.
Bisogna arrivare in vetta per vedere cosa c'è dall'altra parte. E in alto c'è tanta aria, e tanto bianco. Ciao zio, e buon viaggio.

Postato da: sphera a 22:13 | link | commenti (21)


lunedì, 09 luglio 2007

Una cosa che in città si vede proprio male sono gli arcobaleni. Se anche hai abbastanza orizzonte visivo per renderti conto che piove da una parte e c'è il sole dall'altra, e se anche hai abbastanza dimestichezza col fenomeno da sapere dove guardare (no, non tutti lo sanno, non tutti: molti meno di quanti pensiate), comunque per riuscire a vedere qualcosa deve essere un arcobaleno molto alto, a sesto acuto direi. Un arcobaleno gotico fiammeggiante, che riesca a svettare sopra i tetti.
Qui si vedono invece, tutti interi, tondi e radiosi tra i fili luminosi di pioggia.
E questo a mio parere è già un motivo più che sufficiente per abitare in campagna.
Non era di questa opinione, pare, l'anziana signora a cui ho evitato di finire spappolata dal diretto delle sei mezza intimandole un "No, signora!" quando l'ho vista sporgere il piedino e il mocassino verso la passerella con l'idea di passare dietro il treno in sosta, nonostante il semaforo del secondo binario fosse di un verde-via-libera visibile a chilometri.
- Oh, grazie.
- Prego, ci mancherebbe.
(mentre il diretto passava un secondo e mezzo dopo rombando e sferragliando e facendoci turbinare capelli e gonnelle)
- Grazie, davvero molto gentile.
("molto gentile" mi è parso esagerato: viene da chiedersi a che gentilezza sia abituata la signora, per considerare particolarmente cortese l'impedirti di essere travolta da un convoglio in corsa)
- Si figuri.
- Si esce poi, se vado giù di là?
- Si esce sì. In fondo alla banchina si esce. Dipende dove deve andare.
- Vicino al passaggio a livello, sa, dove c'è il bar.
- Ah sì, allora va bene.
- Va anche lei per di lì? Allora vengo con lei, va bene?
- Ma certo.
- Ho da andare dalla dottoressa. La M*******, che sta lì a fianco al bar. Ma non è mica brava, sa.
- Ah, no? Mi sa che è anche la mia, di dottoressa.
- Nooo. Non è mica brava. Oddio, per fare le ricette poi va bene. Ma come, non lo sa se è la sua?
- Eh no. Abito qui da poco, non l'ho ancora conosciuta.
- Omamma. E come mai è venuta ad abitare qui? Da quanto ci abita?
- Son quasi due anni e mezzo. Son venuta perchè mi piaceva, qui.
- Omamma, due anni e mezzo e non ha mai visto la dottoressa?
- Beh son sempre stata bene, di salute. Ma guardi, magari vado lo stesso a fare un giro a conoscerla 'sta dottoressa, un giorno di questi.
- Omamma sì, è meglio, sì. Anche se non è brava. E le piace qui? Le piace questo posto? A me mi fa schifo. Scapperei domani, se potessi.
- Ma sì che mi piace, eccome. Perché le fa schifo, a me pare bello.
- Fa schifo. Io a Milano, voglio tornare. Son venuta qui, va bene, ma appena posso. Adesso, appena posso.
- Oh. E da quanto è qui?
- Trent'anni. Ma mica mi sono ancora abituata. Ecco lì. Il bar.
- Sì, è arrivata. Io vado di qui invece, arrivederla.
- Arrivederla e grazie ancora. E vada via, appena può. Gentaglia, tutta gentaglia. A parte lei, certo. Che difatti non è di qui.

Mentre deviavo pensosa per la mia strada, riflettendo su quanto possa essere di preciso il tempo necessario perché uno "sia di qui", visto che trent'anni a me parevano un intervallo sufficiente, pensavo anche che questa cosa mi capita spesso, questa del far la strada insieme.
Una volta la settimana o giù di lì mi trovo dopo aver dato indicazioni a qualcuno a sentirmi dire se allora va bene che vengo con lei, se va di lì. 
Metà delle volte che sono in giro mi tiro appresso pedoni che mi usano come navigatore.
Così mi è venuto in mente che sarebbe anche un mestiere da inventare, questo. La guida.
Che già esiste, come figura, ma nella giungla o sulle vette (sulle quali peraltro è molto meno utile che per strada giacché in montagna sei di norma su un sentiero, basta che tu lo segua e arrivi in cima. Se esci dal tracciato per buttarti per prati pietraie e canaloni senza avere idea di dove vai a parare ti serve una badante - e severa - piuttosto che una guida).
In città invece servirebbe. Un dedalo di strade, un groviglio di fermate d'autobus, di linee del metrò (in metrò mi capita spessissimo di avere qualcuno al seguito - così mi fa vedere lei eh, signorina, se non le spiace).
Ho una collega che non utilizza il passante - che le verrebbe comodissimo - perché "non l'ha mai preso e non sa bene come fare".
Ho una quantità di conoscenti che non considerano nemmeno l'ipotesi di prendere un treno perché li atterrisce la complicazione degli orari e la difficoltà topografica di raggiungere, oltre alla stazione, il binario giusto.
Conosco un sacco di persone che se devono fare due fermate di metrò e due di autobus e poi tre minuti a piedi prendono la macchina "perchè se no mi incasino, che non so dove andare". In macchina nemmeno, ovviamente: ma girare mezz'ore a vuoto dentro un'auto fa sentire molto meno smarriti che sulle scale mobili, sembra.
Giovani in cerca d'impiego dotati di un certo senso dell'orientamento e di una sufficiente dimestichezza con la topografia e il trasporto pubblico, fatevi avanti.
- Scusi, sa mica per andare in via...
- Ma prego, l'accompagno io. Fanno due euro, più il biglietto del metrò. E se guarda là in fondo, a est, - no, non lì, l'est è di là - le faccio anche vedere dov'è l'arcobaleno.

Postato da: sphera a 11:12 | link | commenti (8)

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