Quando vado in pensione vado anch'io, a guardare i cantieri.
Sul margine della fettuccia di recinzione, sull'orlo dello scavo, le mani dietro la schiena, l'espressione seria. Ogni tanto dare qualche consiglio anche, un po' a mezza bocca: "La trave là va fissata bene eh, che vien giù." O scuotere appena appena la testa, che quel mestiere che ha fatto quel ragazzo lì, quel magrolino, non mi convince mica.
Non vedo l'ora. Perché adesso ho capito perché lo fanno: per passare il tempo si può anche andare a giocare a bocce, non è quello il punto.
C'è da spendere un sacco di tempo e di concentrazione invece, di attenzione vigilissima, per capire quello che vorrei tanto capire anch'io. Capire come fanno.
Come fa un manipolo assortito di bergamaschi e algerini, di sessantenni brembani, diciottenni rumeni e torvi quarantenni magrebini a costruire un grattacielo, un raddoppio ferroviario, un'autostrada senza che nessuno gli dica cosa fare.
Qualche cantiere l'ho guardato anch'io, per qualche tempo - sai mai che mi capiti un prepensionamento - e non ho mai visto qualcuno che desse ordini più complessi di quanto può stare in una frase di tre parole, sovente gridata su e giù da un ponteggio: "Tira süü!" "Molla... ancora, ancora... Bona!"
Le istruzioni - molto laconiche e spesso limitate a gesti e suoni gutturali, cosa perfettamente funzionale dato il comprensibile gap linguistico - sono relative ad una azione o a una limitata serie di azioni, e sembrano sufficientemente adeguate allo scopo.
Ma io mi domando come possano correlare con tanta apparente decisione questi frammenti di gesti, quel secchio proprio adesso, quel buco grande così e non di più, col quadro generale: non cesso di domandarmi chi di loro abbia in mente il piano complessivo.
Sono mesi e mesi che, un quarto d'ora ogni mattina, seguo con attenzione i lavori di raddoppio ferroviario. Roba complessa, mica un muretto di cinta: sbancamenti fondi come case di tre piani, posa di immense travi metalliche trasportate e messe in opera da mezzi giganteschi, poderose gettate di cemento con betoniere a torre, chilometri di tondini da saldare, gru, escavatori, perforatori pneumatici, decine di uomini che lavorano, uno qua, tre là, due là in cima, quattro lì in fondo.
E mai, mai ho visto un disegno.
Mai, in tutti i cantieri che ho osservato in vita mia ho visto un solo pezzetto di carta, uno schizzo, un foglio di bloc-notes.
Nelle pubblicità si vede sempre uno con la faccia da ingegnere e il caschetto giallo che squaderna un disegnone davanti a uno con la faccia da capocantiere, e subito dietro quelli con la faccia da capomastri osservano attenti, tutti col caschetto giallo, mentre i raggi del sole indorano il pulviscolo e i loro rudi e franchi visi abbronzati.
Nella realtà evidentemente ingegneri pallidi e furtivi mostrano di nascosto i disegni al capomastro nottetempo, laggiù nella baracchetta di lamiera, rapidi e in silenzio, al riparo da occhi indiscreti. Il geometra fa il palo sulla porticina e quando l’oscura transazione è terminata mastica e inghiotte il foglio per non lasciare tracce.
Il capomastro poi, la mattina, avendo memorizzato perfettamente tutto il grattacielo, arriva in cantiere e sa esattamente di che misura far tagliare i tondini a Ivan e in che punto Ahmed deve fare la gettata. Nemmeno glielo dice, però. Basta uno sguardo.
Quando c'è, un capomastro. Nella più parte dei cantieri - in quelli delle opere pubbliche direi nella totalità - ci sono operai variamente sparpagliati, ognuno intento al suo lavoro, generalmente, va detto, con molta concentrazione, ma apparentemente nessuno che tiri le fila, che spieghi una procedura in vista di uno scopo, che anche solo a gesti mimi una direzione, una forma, un'altezza.
Rarissimo, tra l'altro, veder qualcuno che prenda una misura. La gettata ecco, fino a lì, questi due dove li saldo, li saldo qui e poi vado avanti a giuntarli fino là, diciamo.
L'altro giorno per questo ho osservato affascinata di stupore la cura con cui un tarzanetto attempato misurava dei pezzini di legno prima di passarli sotto la sega circolare. E poi li accostava uno all'altro e li guardava attento, che fossero bei pari.
Gliel'avrà detto l'ingegnere all'alba "Falli lunghi un metro e trentatrè", o il capomastro ieri sera sul tardi mentre lo salutava dal furgone, o il capocantiere tre mesi fa, prima di svanire nell'oblio?
Di certo io non ho visto nessuno che glielo dicesse. Lo sa, ma certo. Sa che per costruire un sottopassaggio automobilistico a tre corsie - in curva - sopra a cui passano due treni van tagliate cinquantasette assicelle lunghe un metro e trentatrè.
E allora mi consolo.
E mi rilasso.
Incrocio le mani dietro la schiena e mi colma una infinita pace: il capomastro nessuno sa chi sia, il capocantiere non si fa mai vivo e l'ingegnere forse nemmeno esiste, nessuno ha mai visto un disegno e io e Safran qui, che mi tiene la trave, non parliamo nemmeno la stessa lingua. Eppure lo tiriamo su, sto cazzo di grattacielo.
Postato da: sphera a 09:57 | link | commenti (29)
mercoledì, 02 maggio 2007
Che volete farci, è un periodo di little less conversation.
(more action)
(less connection)
Però tra poco arrivo.
Appunti:
telenovele
afidi
bello
cornacchie
stupri
giocare alle signore/1
giocare alle signore/2
calendari e fusi orari
sms
il protocollo bidella nella pulizia etica
essere qualcun altro
piani di simmetria
vetrinizzazione sociale
dimmi come parli
cincischiare
spadone
bestioline
Postato da: sphera a 15:03 | link | commenti (10)
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