domenica 4 dicembre 2011

Novembre 2006

lunedì, 27 novembre 2006

Le pentole e i piatti, le facce delle persone, le bottiglie che ho imparato a stappare col cavatappi giusto, i bicchieri, i cucchiai di legno, il caldo del ragù e il freddo di sera bagnata della sigaretta fumata fuori, stretta nel grembiule.
Gli ometti della domenica, tre bicchieri di vino rosso e tre caffè, uno amaro perché amaro il caffè e dolci le donne: e ti fa l’occhiolino, ottant’anni e galanti.
I ragazzi e le birre, e le torte delle coppie, sempre una ma poi, oh che bella, ci dia un’altra forchetta per favore. E il profumo della cucina, cosa fai stasera il cous cous, ma qui siam brianzoli, mangiam mica come gli arabetti, mangia che l’è bun, ah, l’è bun de bun.
E l’unto delle padelle rappreso nei piatti e la vampa del forno. E i bicchieri, riempili meno - no, li riempio di più, diosanto come sei avaro - ecazzo, così da una bottiglia ne vengono cinque, ci rimetto, vabbè, quando sono al banco io e nessuno mi vede c’è un centimetro, o anche due, di vino in più. 
C. che ha fatto la lezione di danza e vuol farci vedere la coreografia del fiore, inginocchiati nel viscido della cucina e R. che entra per far la bruschetta, ma che cazzo fate, vapore, ridere ed essere efficientissimi e cretini.
E i sorrisi dei ragazzetti e della signora e del vecchietto che chissà per quale malanno non parla, bisogna leggergli le labbra e il mormorìo, e mi hanno detto stai attenta, che fa anche un po’ in modo di non farsi capire così ti devi avvicinare e lui ti dà un bacio, ma io ho capito che diceva una spuma nera piccola, e poi anche se fosse, un bacio, e vabbè, che vuoi mai che sia.
E l’ora del grog, la più bella, liquore caldo e cannella sul piano di inox appena lavato, e un’altra sigaretta sulla soglia, controluce tra il buio e la nebbia, un brivido non solo di freddo.
Concentrazione fervida e assoluta e sette ore senza sedersi mai e sorrisi in cambio.

Sono alla domenica sera avendo dormito un numero irrisorio di ore, fremente di adrenalina e di stanchezza e sonno, ogni volta incomprensibilmente felice.
Nebbia fittissima fuori, mormorante di suoni felliniani, ci sono cammelli e lama, ci sono davvero: c’è un circo appena qui dietro.
Sonno e un bicchiere di vino e musica bella, l’adrenalina scende adagio gocciolando, la pelle tutta sa, ricorda e canta.

Postato da: sphera a 12:22 | link | commenti (3)


giovedì, 23 novembre 2006

La tengo per mano per accompagnarla all’allenamento: è già buio, camminiamo sulle foglie gialle. Margherita fa le sue considerazioni.
- Certo che a vivere, tipo, tra mille o duemila anni, ci sono vantaggi e svantaggi.
- Sì, immagino di sì.
- Ad esempio. C’è di bello che ci sono tutte le cose belle “del futuro”. Astronavi, tipo, tutte quelle cose belle lì.
- Ah, sì. Il futuro è per forza bello, giusto?
- Eh certo! È il futuro.
- Giusto. Giusto. E gli svantaggi?
- Beh, c’è lo svantaggio che devi studiare duemila anni di storia in più. Anche se…
- Anche se?
- Anche se non è che avremo - cioè, avranno: io non ci sarò (ride, tutta esilarata) – tanto in più da studiare, secondo me.
- In che senso, scusa?
- Beh, dei tempi di adesso, dico. Non sta succedendo niente.
- Non sta succedendo niente?
- No, di cose di storia, tipo. Non succede niente.
- Ma sì che ne succedono di cose, stellina… Non so, studierete – voglio dire, studieranno (non rido, io) per esempio il crollo dell’impero americano e la nascita delle superpotenze India e Cina…
- Oh, la Cina lo sapevo che era forte, anche l’India è forte?
- Forte, sì. E lo diventerà di più, pare. Poi studieranno, che so, la guerra in Iraq, in Afghanistan…
- Ah, ma la guerra in Iraq, quella c’è sempre stata. E ci sarà sempre.

Dall’alto della montagnola di una decina di anni il paesaggio del tempo è molto diverso davvero.



Postato da: sphera a 10:47 | link | commenti (7)


mercoledì, 08 novembre 2006

Quando si parla di Carriera (come in alcune ramificazioni dei commenti precedenti) istintivamente mi viene da ritrarmi: un passo indietro di scatto, le mani dietro la schiena, dalla testa ai piedi tutto un moto di negazione.
Poi mi chiedo perché e cerco di farlo freddamente e con ragionevolezza, superando l'immediata ripulsa: un po' come mi sforzo di fare con le barbabietole.
Forse è il termine che già mi piace poco, fatico a dissociarlo dal "di gran". E una cosa - qualunque - fatta "di gran carriera" mi fa pensare a un improvviso scalpicciare, un rimbombo di scarponi che corrono sollevando zolle e pestando germogli di insalate, un rumoroso affanno che travolge quel che incontra e la cui meta, in lontananza, non si scorge perché le fa velo un gran polverone di terra ribaltata e smossa.
Credo in vita mia di non aver mai visto una sola cosa fatta 'di gran carriera' che fosse anche fatta bene. Ma ammetto senza difficoltà che il fastidio terminologico sia di poco conto.
Diciamo allora che a irritarmi sia il concetto di raggiungere un vertice, di primeggiare? Non direi. Mi piacerebbe molto meritarmi un Nobel, o essere chi corre i cento metri più veloce al mondo o la miglior cantante di fado che sia mai nata, o il miglior pescatore di trote che ci sia o la più brava ibridatrice di rose.
Mi piace vincere, mi piace molto, anche solo a scala quaranta.
È che la parola "Carriera" non mi fa in effetti venire in mente una vittoria, un traguardo, l'esplosione di gioia animale e pura di tagliare senza fiato la linea del fotofinish, di raggiungere dopo l'ultimo tratto di corda una vetta ghiacciata, di un tiro di palla perfetto e travolgente, di un salto mortale, di un tuffo, di un orgasmo.
No, mi fa venire in mente una scala lunga diritta e affollata di cui salire ogni gradino un piede avanti all'altro facendosi largo coi gomiti, le mascelle serrate nello sforzo di guardare solo avanti a sè, con continui rallentamenti e soste e ogni momento ti tocca strangolare da dietro questo per potergli passare sopra, e poi spingere da parte quest'altro per superarlo, e stare attento che nessuno faccia con te la stessa cosa, per anni e anni, sulla stessa scala, tra le stesse pareti, con gli stessi muri intorno, e se ti fermi ti sorpassano e se scopri che non te ne frega poi niente o che ti stufi a morte a quel punto devi continuare lo stesso, se non vuoi aver buttato via tutto quel tempo, tutti quei gradini.
Ecco, una cosa così a me pare di una noia insostenibile. Ma magari così non è, magari è esaltante davvero raggiungere poi il top (altra parola che trovo francamente buffa: Dove sei? Sono al top. Ah, che meraviglia, beato te, il top.)
Forse allora è che la carriera implica praticamente sempre la leadership, il comando: allora il punto è che non ami comandare? Eh no, comandare mi piace eccome, sai. Mi piacerebbe da matti l'idea di comandare una cucina, una nave, anche la guarnigione di una fortezza, per dire. L'idea di comandare mille impiegati di un'azienda mi procura il voltastomaco, invece.
Perché quello che mi piace è il comando effettivo e immediato, agente ed efficace: Fai! Fatto.
La Carriera mi da invece l'idea di una serie interminabile di ore a fare e dire cose i cui effetti rimbalzati, parcellizzati, delocalizzati e redistribuiti vedrò, dopo mesi, forse - forse, se tutto va bene, se tutto va bene, miodio non voglio pensare se no - tornarmi sotto forma di benefici monetari e di prestigio o presunto tale (ammesso di sapere che cos'è esattamente, che al momento mi sfugge la definizione, ma magari poi).
Intanto in macchina alle nove di sera, frastornato, mi chiedo cosa cazzo ho fatto oggi, di preciso, e mi viene lo snervante dubbio che il mondo sia esattamente uguale a quando la tangenziale, stamattina all'alba, l'ho percorsa in senso inverso. E mi viene un po' voglia di picchiare qualcuno, anche. La moglie? No, che poi mi pianta una grana e mi tocca lavorare il doppio per mantenerla tutta la vita a far la carriera della divorziata. I figli? Ma li ho, dei figli? Mah, sì, devo averne un paio, mi è parso ogni tanto di intravedere della gente in casa.
Non è così, dai. È bello. Hai prestigio, sei arrivato, hai soldi, hai potere. È una figata, credici. Vale la pena.
Non dubito, è splendido.

Poi mi viene in mente - e qui torno al punto da cui il pensiero era partito - mi viene in mente mio padre, che ha passato tutta la sua età adulta e la nostra infanzia e adolescenza "al lavoro". Non per il puro mantenerci (oggi probabilmente sarebbe così e presumibilmente da solo non ce la farebbe) ma per fare, nel suo ambito, nel suo piccolo, carriera. Perché diventare un dirigente commerciale era un passo avanti, anche se implicava essere molto, molto spesso via. Perché a prescindere da quanto lo volesse le pressioni familiari, sociali, culturali, le si chiami come si vuole, lo spingevano - lo ruzzavano forte e brutalmente, diciamolo pure - ad "andare avanti". 
Io so benissimo che a lui la competizione è sempre piaciuta, mica gli dispiaceva arrivare uno. E però so anche, per certo, che avrebbe dato - darebbe, se potesse - tutte le scrivanie e i traguardi aziendali per averci potuto portare a scuola la mattina, ogni mattina, e comprare la focaccina in panetteria e darci il bacetto e poi venirci a prendere e guardarci uscire e andare ai giardinetti con la palla e studiare a memoria la poesia.
Lui, certo, perché è un sentimentale, un tenerone, un affettivo da contatto. Ad altri, non dubito, non gliene frega niente.
Però io lui non l'ho mai visto perché ero a casa sul divano con la mamma, ma ne ho visti poi tanti negli anni, così: signori benvestiti in giacca, con la ventiquattrore al fianco, mangiare da soli in ristoranti e alberghi, tovaglie rosa e l'assordante silenzio del tintinnio delle posate, in città sconosciute e fuori è sera, un contratto firmato in tasca e la telefonata, tra poco, per dar la buonanotte, e tu e voi siete là e io che cazzo ci faccio qui, con fuori la macchina aziendale che sa di fumo e di plastica e deserto.
Quello che mi viene in mente, e certo sarà parziale e inficiato e fuorviato da mille considerazioni non pertinenti, però resta questo alla fin fine: io non voglio parlar di generi, l'ho detto, ma di persone. 
Però mi chiedo, se le persone che oggi dicono - e legittimamente rivendicano - il diritto di far carriera senza rinunciare ai figli, alla socialità, alla possibilità di gestirsi le giornate e di prendersi 'i propri spazi' pensino mai al fatto che a intere legioni di altre persone non è stato ipotizzato nemmeno di domandare se tale diritto potesse interessare.
Forse l'oppressione dell'obbligo di un ruolo e di un percorso non è stata mai solo da un lato, ma da entrambi.
Forse l'obbligo di fare dieci figli alla fine è andato in pari con l'obbligo di uscire alla mattina all'alba con l'alabarda o col piccone per farsi sbudellare nella brina.
Per questo dicevo che forse se da questi obblighi ci siamo - e secondo me ci siamo - svincolati è insensato e anche un po' ridicolo continuare a insistere su chi avrebbe voluto fare altro e non ha potuto. Su chi ha costretto chi ad una vita che trovava desolante.
Adesso se dio vuole la libertà di non far carriera l'abbiamo, finalmente, tutti.

Nessun commento:

Posta un commento