fata, strega e vaffanculo.
Nell’insofferenza che ultimamente provo per la narrativa (di cui magari poi racconterò) ci sono anche punte di irritazione più specifiche, temi precisi di cui non sopporto più di sentir parlare.
Ho letteralmente buttato per terra (e se non l'ho raccolto è ancora lì nell'erba) il libro dove ancora una volta veniva delineata (con bella sintassi e più che valido ricamo letterario e lessicale, beninteso) questa ennesima figura di donna tutta istinto, tutta indomabile ed energica magia.
Basta, per l'amor di dio.
Basta con queste donne capaci e risolute ma evanescenti nella loro arcana ieraticità, sempre avvolte da questa glassa di impenetrabile mistero fatto di irrazionalità vincente perchè presunta provenire da chissà quali profondità genetiche e uterine, al tempo stesso solide madri possenti capaci dar ordine all'universo e simboli erotici di leggiadra - ma forte ed inviolabile - misteriosa femminilità.
Se leggo ancora una volta espressioni come "fragile e fiera", "tenera ma indomita", "imprevedibile come il vento" "orgogliosa e inavvicinabile, incostante e irresistibile", "strega", "maga", "fata", "divinità della natura" "occhi brucianti di un fuoco imperscrutabile", "sapienza antica", e siffatte immaginifiche fole il libro non mi limito a metterlo per terra ma lo scaravento giù dalla finestra.
Donne del genere o esistono solo nell'immaginazione degli uomini (che le vorrebbero così ) e delle donne (a cui piacerebbe moltissimo essere così) o devono essersi tutte nascoste in qualche posto ben lontano, perché io non ne incontro mai.
Non so, guardatevi intorno - ma con attenzione per una volta - in ufficio o in metropolitana, ascoltate le chiacchiere ai giardinetti o al supermercato: se ci sono, queste semidee evidentemente si mimetizzano con cura.
Mi preoccupa un po' questa idea di donne dee madri che in virtù di potenti e inconosciute forze e di arcane sapienze siano quelle che hanno tenuto in piedi finora - e si presume prima o poi salveranno - il mondo. Io sarò anche una donna, avrò anche ancestrali saggezze che non so di avere, ma non ho la minima idea di come si salvi il mondo. E non ho nemmeno tutta sta gran voglia di farlo, tra l'altro, che ho già tante cose a cui pensare.
Però vedo con turbamento diffondersi nell'immaginario collettivo, forse dovuta all'eclissarsi progressivo di dei e partiti in cui confidare, questa strana forma di femminismo mistico a cui anche molti uomini aderiscono con sconcertante dedizione: come se dopo aver detto per cinque o sei millenni "non vi si capisce quindi si vede che siete un po' sceme" ora la teoria sia "non vi si capisce quindi in qualche modo siete esseri superiori".
Il che comporta da un lato una fastidiosa dismissione di responsabilità, con uomini che si rilassano tutti contenti e si accoccolano in un cantone dicendo con gli occhioni lustri: tu che sei così saggia e bella e forte e che sai come va l'universo e guarda, sei anche un po' magica, adesso salvami, che io son qui tutto poverino e incerto (e adesso, cara mia, son cazzi tuoi).
Dall'altro lato provoca inconsulti moti di rabbia incontrollata, certamente deplorevoli ma non del tutto incomprensibili alla luce di un instintiva e talvolta forse giustificata reazione del genere "ma cosa ti credi di essere, cretinetta".
Di fondo è che sono un po' stufa di questa noiosissima questione degli uomini e le donne.
E noi di qui, e voi di là, e voi non ci capite, e voi siete diverse, e siamo più brave noi, e noi siamo più belli e voi siete più bastardi, e venere e marte, e la potenza della virilità e la magia della maternità, e voi siete cattivi e ci stuprate e però voi ci provocate e poi, anzi prima, da bambini ci castrate e poi sfido che veniam su male, e voi ci invidiate questo e voi ci invidiate quella: e basta, dai.
Tutti i razzismi si basano, dice l'antropologo, sulla voluta strumentalizzazione di alcune specifiche differenze e il deliberato ignorare le somiglianze, per arrivare ad una posticcia creazione di gruppi "a parte". Laddove se si trascurassero alcuni elementi e se ne prendessero in considerazione altri sarebbero tutt'altre le "razze" che emergerebbero. Dire "quelli di pelle bianca" o "noi padani" vale tanto quanto dire "quelli più alti di uno e ottanta" o "quelli coi capelli ricci" o "quelli intonati", per intenderci.
Sicché per come la vedo io uomini e donne hanno sì delle differenze, ma non tali da dover necessariamente essere distinti in base a queste: potremmo benissimo scegliere altri criteri, se proprio volessimo dividere in due l'umanità.
Tanto per capirci: che Nicole Kidman, Rita Levi Montalcini, Madre Teresa e la mia vicina dalla forma a barilotto e dagli occhi sporgenti, di volgarità inscalfibile e assoluta, ignorante come uno zoccolo di mulo e intellettualmente dello spessore di una vongola siano della stessa "razza", accomunate da una similitudine e sorellanza che le rende - indistinte e insieme - una cosa a parte da qualunque uomo, di qualunque tipo, esistente sulla terra a me pare con ogni evidenza una teoria improponibile.
Tanto ridicola che potremmo anche pensare di lasciarla da parte e concentrarci sulle cose importanti, che non vedo perché debbano necessariamente essere quanti piselli e quante tette hai o se quando ti riproduci stai da un lato o dall'altro dell'inseminazione.
E lasciamo perdere per carità queste ridicolaggini pericolose delle quote rosa azzurre e lilla: io personalmente non voglio entrare – non voglio essere ficcata a viva forza e obbligatoriamente, solo per questione genetica – in nessunissima quota di nessun genere.
Un vecchissimo e desueto slogan del femminismo d'antan diceva "né puttane né madonne, solo donne". Posto che sono mestieri faticosi e poco gratificanti entrambi, posto che ci sono un sacco di uomini che si prostituiscono e che di madonne se n'è per ora vista solo una - e di rado, e a me nemmeno è capitato - sarebbe anche ora di aggiornarlo e decidere che "né bastardi né stregone, solo persone".
(sono prolissa e polemica, di questi tempi, e non mi dispiace nemmeno tanto)
Postato da: sphera a 10:20 | link | commenti (38)
martedì, 17 ottobre 2006
casa.
Questa è casa mia, dici. Ci son muri di mattoni e una porta, ci torno ogni sera, l'ho anche pagata (non del tutto magari, ma chi non ha in piedi un mutuo, oggigiorno).
È casa mia, misura da qui a là, son metri quadri conteggiati precisi che vanno, piastrella dopo piastrella, dal piano di inox della cucina alla finestra del bagno con la sua tendina un po' spessa, che non guardino dentro.
E certo, così resta facile: c'è un atto in Comune, un foglio al catasto, un contratto del gas. Ci son tre mandate di serratura, le foto dei nonni e le tapparelle abbassate, ci son le mie pantofole usate e la mia coppa del torneo di calcetto.
Invece una sera su una spiaggia, in un deserto, tra i monti, metti un telo per terra, e un altro a far da coperta.
Intanto vien buio, un buio troppo pieno di soffi d'aria e fruscii, di fremiti e ombre, per essere vuoto. Hai spostato due grosse pietre per poterti sedere, e una è un tavolo dove appoggi il pane, il formaggio e il coltello. E hai acceso una candela (antivento, che se non sei scemo son diecimila anni da che hai imparato a non dar fuoco ai boschi).
Poi ti allontani, magari a far la pipì, ti immergi nel buio come nell'acqua, col volo bianchissimo e muto di un barbagianni che si fa i fatti suoi muovendo ali veloci nell'aria appena sopra di te, senza alcun rumore.
Quando ritorni vedi quel cerchio di luce, impreciso e perfetto, che contiene i due metri di terra dove dormirai stanotte e che per questo solo motivo sono il tuo letto, vedi il tuo cibo e la bottiglia del vino, vedi forse qualcuno con in mano una tazza.
Questo è il tuo territorio, la tua casa stanotte o, chi può saperlo, per sempre.
E lo difenderai tirando tutta la notte dei sassi, muovendo appena una mano per trovarne uno lì intorno, gettandoli ben dentro il nero di quei cespugli da dove arriva il muoversi di un ghiro o un coniglio.
E non lo farai per fargli del male, nemmeno pensi a colpirlo, è solo un avviso: qui ci sto io, qui non devi venire.
La casa più antica, la prima, aveva pareti di buio intorno a una fiamma.
Ancora oggi continuiamo a saperlo, quando per sentirci caldi, sicuri e vicini smorziamo la luce perché crei un alone, quando accendiamo un lumino o un camino. Ancora adesso in tinello o al ristorante, quando sembra solo un gesto carino - se non quasi melenso, che ci pare di avere imparato dai libri e dai film - anche ora ci pare giusto il lume di una candela per chiamare qualcuno nel cerchio, perché diventi un po' nostro.
È lo stesso messaggio di promessa e minaccia, di calore e di sfida che vibra intorno a ogni tana, da prima del fuoco e per ogni animale: "Io, noi siamo dentro, tu, voi siete fuori".
A delimitare ciò che ti appartiene non sono i muri che costruisci, ma il raggio della tua luce.
Postato da: sphera a 13:11 | link | commenti (9)
lunedì, 09 ottobre 2006
Ci eravamo sbagliati, pensando fosse uno e grande: sono una moltitudine, i fratellini e le sorelline che ci guardano.
Un firmamento di occhietti che si osservano e sorvegliano l'un l'altro, luccicanti di frenetica attenzione.
La compagnia telefonica spia i suoi utenti e anche quelli degli altri; l'amica spia il fidanzato controllandogli assiduamente mail e cellulare, l'impiegata spia i colleghi occhieggiando nei loro computer, la mamma spia la figliola leggendo ogni mattina il suo diario segreto, il capo spia i collaboratori scandagliando il loro traffico internet, il marito spia la moglie dicendo che va via per lavoro e poi appostandosi dietro un portone a vedere dove va, la vicina spia ogni movimento, ogni andirivieni, ogni luce accesa e, minuziosamente, il contenuto del sacco viola.
Quello che fa un po' specie è che tutti indistintamente si sentano nel giusto, ritengano di esercitare un sacrosanto diritto, addirittura un dovere. Ma anche mettendo da parte ogni considerazione su questo modo di vedere le cose - quanto meno diversamente etico - quello che lascia perplessi sono le motivazioni, la motivazione anzi, che è sempre una soltanto: "Perché voglio sapere."
Senza entrare nel merito della dubbia equivalenza tra il volere e l'avere diritto, siamo poi così sicuri che sapere di più equivalga sempre e comunque a capire di più? Che l'accumulare ingordo e affannoso di informazioni su tutto e su tutti poi serva davvero a qualcosa? Siamo davvero certi che scoprire come si chiama di nome e cognome l'amante, e di che colore ha capelli e calze e dove abita e per chi ha votato ti avvicini di un passo a capire com'è che lei forse non ti ama o non ti desidera più?
Il bisogno di sapere, l'ansia di avere tutte, tutte le informazioni possibili è una ubriacatura a cui siamo stati assuefatti. Più sono, più son dettagliate, più ci siamo chissà come abituati a sentirci tranquilli.
Un incessante ronzare di telecamere, microfoni, satelliti, microspie, un torrenziale e indifferenziato brulichìo di registrazioni di dati, milioni di orecchie incollate alle porte, di occhi schiacciati sui buchi delle serrature.
Con esiti scarsi parrebbe tra l'altro, visto che frattanto si continuano a fare attentati, a stuprare, a barare sui fogli presenza, a rubare nei supermercati, a tradire la moglie, a bigiare la scuola come si è sempre fatto.
E però sempre più spesso si vedon persone - aziende, governi - annaspare semiannegati in paludi vischiose di notizie inutili, aggrappati all'idea che l'informarsi non sia un mezzo ma un fine.
Un fine strettamente connesso, ormai fuso a quello di avere, di mantenere il controllo. Controllo costante, ossessivo, forsennato.
Mammamia, che paura che avete.
Rispondi al telefono e non dici "Pronto" ma "Dove sei?"
"Cosa stavi facendo?"
"A che ora ritorni, precisamente? E facendo che strada?"
"Con chi sei? Li conosco?"
"Hai mangiato? Cosa hai mangiato?"
"Cosa ti piace? Ti sta piacendo? Ti è piaciuto?"
"A cosa pensi? Cosa stavi leggendo?"
Se non sai esattamente dov'è, che cosa sta facendo e con chi e possibilmente cosa sta pensando tuo marito, tua figlia, il moroso, l'impiegato del tuo ufficio acquisti, il tuo concorrente, la tua portinaia, vai in ansia. In panico, anzi.
Sei convinto che perderai del tutto il controllo, che perderai il controllo di tutto, se solo ti sfugge qualcosa. Solo l'informazione totale ti fa sentire al sicuro.
Che poi trecento anni fa un contadino non aveva informazioni precise quasi su niente, nemmeno con esattezza sulla sua data di nascita, su come facesse a battergli il cuore o quale re o imperatore regnasse sul suo campicello. Ma è tutto da dimostrare che si sentisse smarrito per mancanza di dati, che temesse, che avesse l'angoscia di perder la rotta di sé e della sua vita.
Ci si culla noialtri invece nella fola che più abbiamo nozioni e notizie più tutto va bene, più siamo forti, furbi, sagaci e protetti.
Solo che non è mica vero.
Infatti eccola qui, ad esempio, l'aviaria (o la sars o il dengue) che arriva: migliaia di pagine, milioni di parole, fiumi di date, di mappe e statistiche, di frecce e di flussi, di pareri autorevoli. I nomi dei contadinelli e quanti polli avevano in casa e di quale piumaggio, il numero esatto cresta per cresta e becco per becco delle galline date alle fiamme nei più sperduti villaggi, con tanto di cartine e di foto, gli schemi riccamente illustrati del DNA di una vasta gamma di virus letali o meno, con note dettagliatissime sulla sequenza delle mutazioni dei cromosomi e approfondimenti circostanziati sull'epidemiologia nella storia.
Accidenti, sappiamo un sacco di cose. Non ci manca nessun dettaglio. Quindi noi, casalinghe brianzole, noi grafici editoriali, noi madri di famiglia, noi lavoratori flessibili, noi pendolari, adesso sì che abbiamo in mano la situazione. Tutto sotto controllo.
(O magari invece provare a ipotizzare di sapere due o tremila cose in meno ma capirne una di più, tralasciare trentamila informazioni o trecentomila per un solo sguardo, una sola osservazione diretta, una percezione: quella rilevante, quella che ti salva la vita.)
Tu prova a chiedere a qualcuno "Com'è il tempo?"
Ti risponderà citando dei dati: i sei siti di metereologia che consulta regolarmente, le previsioni per radio, il colonnello in tv, le mappe delle isobare riportate su ogni giornale, i trend delle temperature e delle precipitazioni negli ultimi duecento anni, l'effetto serra e il riscaldamento globale.
Fai la prova: c'è meno di uno su cento che guardi fuori dalla finestra e ti dica "C'è il sole però quelle nuvole che arrivano di là, fatte così, di solito portano pioggia. Ma mica sempre. Staremo a vedere."
Si dà il caso però che sia proprio quest'ultimo quello che dal temporale non si farà spaventare, perché l'ha messo in conto e non lo preoccupa molto, perché avrà con sè un ombrello o perché non gli importerà di bagnarsi.
A te invece hanno detto che devi avere molta paura. Di un sacco di cose. Che devi sempre avere paura, e che per fartela anche solo un pochino, un pochino passare devi sapere tutto quello che puoi. Devi informarti. Devi permettere che ti si informi, il più possibile, innaffiandoti a goccia, a getto, a pioggia diffusa. Devi consentire che ti siano forniti - o devi freneticamente procurarti, e in fretta - notizie molteplici e ridondanti, dati sovrabbondanti e precisi, così che tu abbia allo stesso tempo paura e sollievo, angoscia e presunzione di essere in salvo.
Rimane poi questo dubbio, tra l'altro: che quando l'informazione che hai è un po' troppa allora forse c'è caso che qualcuno stia controllando te.
Se sai in modo un po' troppo preciso cosa accadrà, se sei esattamente informato su cosa farai, a che ora e con chi, e cosa farà in ogni momento chi ti sta intorno, probabilmente sei in carcere. Oppure in collegio, in una caserma, un convento, un labirinto per cavie.
Quello che non sai di te stesso e degli altri - e di quel che sta succedendo o succederà - è forse il margine obliquo in cui il mondo ha spazio per muoversi.
Quello che non hai bisogno di sapere, perché non ne hai paura, segna forse il confine della tua libertà.
Postato da: sphera a 10:23 | link | commenti (20)
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